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Il «Giornale critico della filosofia italiana» e i suoi indici
di
Giovanni Bonacina
Il primo fascicolo del «Giornale critico della filosofia italiana» apparso nel 2013, intitolato Indice del «Giornale critico della filosofia italiana 1920-2012, è interamente dedicato agli indici della rivista dalla sua fondazione a oggi. Il frontespizio non menziona curatori; premessa e avvertenza non recano firme, né sigle; tutto lascia supporre un lavoro redazionale. L’indice dei contributi, suddiviso secondo le diverse serie del «Giornale» (ormai siamo alla settima, inaugurata nel 2005), ciascuna organizzata secondo le sezioni interne ai singoli fascicoli (oggi: Articoli, Studi e ricerche, Discussioni e postille, Note e notizie), è allestito in base all’ordine alfabetico degli autori, quasi sempre espliciti o identificati (con l’eccezione di poche sigle e di alcune note e notizie non siglate, inserite nell’elenco in corrispondenza della lettera iniziale del titolo). Seguono l’indice degli autori e dei curatori, quello dei soggetti e un ultimo dedicato alle edizioni di testi, inediti, carteggi, documenti, già comprese nell’indice principale, ma restituite a parte al fine di evidenziare la specificità e la ricchezza di questa peculiare vocazione del «Giornale». Sotto il titolo Archivio (1920-2005) sono riprodotti i proemi, le note introduttive e le avvertenze a quei fascicoli che segnarono una svolta per la rivista (perlopiù il passaggio da una serie all’altra, spesso dettato da mutamenti del direttore o dell’editore), nonché la nota introduttiva di Eugenio Garin al fascicolo contenente gli Indici 1920-1985, pubblicato nel 1987, i quali costituiscono l’antefatto del presente lavoro. Quattro saggi, a cura di Mauro Visentin (membro dell’attuale comitato scientifico), Alessandro Savorelli (attuale redattore), Stefano Zappoli (membro dell’attuale redazione) e Maurizio Torrini (attuale coordinatore della direzione) completano il fascicolo e mirano a illustrare l’impronta data al «Giornale» dai suoi tre direttori storici: il fondatore Giovanni Gentile (Visentin e Zappoli), Ugo Spirito ed Eugenio Garin (Savorelli e Torrini). Motivo di questa pubblicazione, non ispirata a una speciale ricorrenza (una rarità in un’epoca dove le discussioni filosofiche all’ordine del giorno sembrano talvolta comandate dagli anniversari di autori e opere), è dichiarato quello di «rendere più fruibile un patrimonio d’idee che ci ha accompagnati fin qui» e «agevolare una riflessione per il futuro». Un’intenzione encomiabile, dietro la quale non sarà però azzardato scorgere anche la volontà , da parte degli attuali direttori (oltre a Torrini: Aldo Brancacci, Massimo Ferrari, Sebastiano Gentile e Gianna Gigliotti), di tracciare un bilancio dell’opera dei predecessori e determinare la rotta da imprimere alla navicella del «Giornale», giunto a capo di una traversata lunghissima (inferiore per durata solo a quella della «Rivista di filosofia» tra i periodici filosofici tuttora stampati in Italia), inevitabilmente segnata da alti e bassi, ed esposta oggi alle intemperie delle procedure di valutazione e classificazione degli articoli scientifici applicate anche alle discipline filosofiche.
Al pari di ogni bilancio, tuttavia, anche questo nel fascicolo in esame induce dapprima alla riflessione sul passato, la quale occupa ampio spazio nei saggi finali dei quattro autori succitati. E qui colpisce in particolare una certa diversità di accenti, che non appare riducibile allo specifico compito assolto da ciascuno, definito su base cronologica. Si avvertono fra le righe sensibilità peculiari, maniere dissimili d’intendere la figura di Gentile e di valutare nel tempo la fedeltà , o infedeltà , della rivista alla sua missione originaria. Così avviene che il contributo di Visentin (L’attualismo come progetto culturale. La fondazione e la direzione del «Giornale critico») s’incentri per intero sul rapporto fra Croce e Gentile, ma con scarsa simpatia verso il secondo e con una risoluta adesione al punto di vista crociano fatto proprio nei suoi studi da Gennaro Sasso. L’analisi si risolve nell’attestazione di un insuperato sentimento di sudditanza di Gentile nei confronti di Croce, psicologica ancor prima che intellettuale e così profonda da riverberarsi perfino sulla rivista, che mai sarebbe davvero riuscita a scuotere il primato della crociana «Critica» (scomodato, a proposito del pensatore siciliano, è il concetto psicoanalitico di “narcisismoâ€, un narcisismo puntualmente ferito dall’inarrivabilità del rivale). La vicenda prebellica del «Giornale» è letta quasi per intero alla luce della categoria di “egemonia†– della quale serve appena ricordare le ascendenze gramsciane – quell’egemonia che Gentile avrebbe, secondo Visentin, tentato in ogni modo di esercitare nella vita culturale e universitaria italiana anche attraverso la rivista. Inteso dapprima alla stregua di un organo di scuola (la memoria non può non andare agli «scolaretti pappagalli», presi di mira da Croce in una ben nota lettera a Gentile del 1920), il «Giornale» sarebbe presto riuscito innovativo e assai pregevole quasi a dispetto, più che per merito, delle ambizioni del fondatore, il quale specie a partire dal Concordato sarebbe stato costretto a riconoscere la fragilità del suo disegno e di fronte alle crescenti divisioni con e fra gli allievi avrebbe accondisceso ad allargare sempre più la cerchia dei collaboratori, in particolare a partire dalla seconda serie (1933). Un’interpretazione, questa di Visentin, che stride almeno in parte con quella fornita poche pagine più avanti da Zappoli (Intorno all’ultima serie gentiliana del «Giornale critico»), orientata a rimarcare una sostanziale continuità fra i due maggiori filosofi neoidealisti, a dispetto delle divergenze politiche e personali, nonché ad ascrivere all’ispirazione di Gentile i principali meriti della rivista. Qui la superiorità del «Giornale» rispetto alla facile tentazione di rinchiudersi nel recinto di una scuola è presentata alla stregua di una scelta gentiliana originaria (contro le spinte di chi, come il redattore fiorentino Guido Calogero, avrebbe voluto una rivista di battaglia), mentre le contese fra gli attualisti in materia di corporativismo e rapporti con il cattolicesimo sono fatte passare in secondo piano, quanto a effettiva incidenza sulla rivista, rispetto all’indirizzo teoretico riaffermato dal maestro e alla molta libertà arrisa, all’ombra di tanto patrono, alle più svariate indagini di tipo storiografico e filologico. Studiosi italiani e stranieri, spesso indifferenti alla vena speculativa gentiliana, poterono essere ospitati con generosità sul «Giornale» proprio in virtù del ruolo decisivo riconosciuto dal fondatore alla considerazione storica della filosofia. Con Visentin e Zappoli siamo dunque di fronte, com’è facile notare, a due tendenze interpretative che ogni volta sembrano non poter fare a meno di scontrarsi intorno alla figura di Gentile, ravvisato ora come aspirante dominatore della scena culturale italiana fra le due guerre mondiali (su questo punto vale la pena rinviare, proprio sul «Giornale» in apertura dell’annata 2004, a Claudio Cesa, I nemici di Giovanni Gentile [1929-1941], che tale aspirazione non nega, ma descrive lontana dall’essersi mai realizzata), ora come benevolo protettore delle personalità intellettuali più disparate, purché vitali e serie, che su quella tormentata scena si affacciassero. Se Visentin abbraccia senz’altro il partito di Croce, Zappoli sembra condividere piuttosto la prospettiva di Calogero, il quale si struggeva per la divisione sopraggiunta fra i suoi maestri e rivendicava il proprio diritto a considerarsi discepolo di entrambi.
Croce e Gentile non sono però i soli protagonisti di un dissenso influente sulle sorti del «Giornale». Non meno importante, anche se meno dibattuto, affiora nei saggi di Savorelli (Il «Giornale critico della filosofia italiana» da Ugo Spirito a Eugenio Garin, apparso una prima volta nel 2006) e Torrini (Garin direttore; ma del medesimo è da vedere anche Eugenio Garin e il «Giornale critico della filosofia italiana», articolo di apertura dell’annata 2005 della rivista) il dualismo tutto interno alla vicenda del periodico fra Spirito e Garin, collaboratori fin dalla prima serie, membri del direttivo postbellico del 1947 (terza serie, insieme a Pantaleo Carabellese, Gaetano Chiavacci, Vito Fazio Allmayer, Bruno Nardi e Giuseppe Saitta), direttori ambedue per oltre vent’anni, il secondo come successore del primo (Spirito dal 1951 fino al 1979, terza e quarta serie; Garin dal 1980 fino al 2004, quinta e sesta serie). Qui non si registra tanto una diversità di vedute fra Savorelli e Torrini, accomunati da una lunga esperienza come redattori sotto la direzione gariniana, quanto una presa di posizione sull’argomento non meno netta che quelle di Visentin e Zappoli al cospetto di Gentile, poiché la scelta fra Spirito e Garin è compiuta quasi per intero in favore del secondo. Se ne ricava l’impressione che solo con la scomparsa di Spirito il «Giornale» abbia saputo superare in via definitiva l’oscillazione, lasciata in eredità da Gentile, fra la sua natura di organo di una scuola filosofica e quella di rivista aperta ai contributi più diversi, fra l’obbedienza, sebbene rilassata, a un indirizzo speculativo oppure una prevalente impostazione storica. Là dove Visentin e Zappoli tendono a vedere il «Giornale» come impresa unitaria, garantita dalla vigilanza del fondatore perfino in presenza di uno sdoppiamento delle redazioni (l’una romana, l’altra fiorentina), Savorelli e Torrini lo tratteggiano, almeno a partire dal secondo dopoguerra, come teatro di una contesa via via più esplicita fra due personaggi troppo diversi, l’uno allievo gentiliano diretto, persuaso che la rivista dovesse custodire la memoria dell’attualismo come qualcosa di ancor vivo, benché non più riproponibile nella forma primitiva, l’altro allievo di Francesco De Sarlo e Ludovico Limentani, solo verso il 1940 in contatto più intenso con il direttore e via via sempre più convinto che la missione del «Giornale», ammesso che quest’ultimo potesse «sopravvivere» (l’espressione dubitativa è del 1976), avesse a consistere in un’opzione risoluta per l’attitudine storico-critica. Quest’ultima, invero, risaliva già a Gentile; senonché, mentre per il fondatore essa formava solo un polo della sintesi fra la propria formazione filologica alla scuola di Alessandro D’Ancona e la propria maturazione filosofica nel solco dello hegelismo italiano ottocentesco, ammodernato e rettificato da Croce, per Garin la storiografia filosofica rappresentava ormai una sorta di via regia per chi ancora volesse occuparsi di filosofia tout court. E qui tocchiamo quasi con mano – mette appena conto ricordarlo – il dibattito postbellico intorno alla storia della filosofia, alla sua controversa missione di emancipazione della cultura italiana dalla tradizione neoidealistica, più in generale spiritualistica e a prevalente impronta cattolica, del quale Garin fu protagonista proprio anche sulle pagine del «Giornale» e rispetto al quale Spirito finì per schierarsi sul fronte avverso, non potendo accettare – così egli scriveva – che la filosofia avesse a ridursi a mera erudizione e che il ripudio gentiliano della vecchia metafisica fosse sostituito con il ripudio della metafisica in quanto tale. La storia degli ultimi trent’anni della rivista ci si fa incontro allora come storia di questa vittoria dell’indirizzo di Garin sopra quello di Spirito, simboleggiata dal mutato nome della sezione nel «Giornale» rivolta ai contributi dal carattere storico-filologico più marcato (non più Varietà , bensì Studi e ricerche), una vittoria tanto più significativa se si ha presente, come Savorelli e Torrini si premurano di ricordare, che più di una volta Garin negli anni Settanta sarebbe stato sul punto di abbandonare il «Giornale» (nessun contributo a lui si deve nell’ultimo lustro della direzione di Spirito, dopo che già durante gli anni Sessanta più spesso i suoi articoli erano apparsi sulla «Rivista critica di storia della filosofia» di Mario Dal Pra), poiché irritato dal costante controcanto polemico del direttore e forse anche dagli effetti, visibili qua e là attraverso gli indici di quel decennio, della curiosa alleanza perseguita da Spirito fra quel che restava dell’attualismo e le principali tendenze filosofiche abbracciate dai campioni della divampante contestazione studentesca (si pensi solo alla fiera adesione al ‘marxismo’ professata sul «Giornale» da Emilia Giancotti, per tredici anni segretaria di redazione accanto a Spirito, un marxismo certamente di altra pasta rispetto a quello respirato da Garin durante la sua vicinanza politica e intellettuale al partito comunista togliattiano).
Questa spontanea inclinazione a rivendicare il «Giornale» al proprio schieramento di appartenenza culturale (malgrado Gentile, nel caso di Visentin; nel nome di Gentile e Garin, nei casi di Zappoli, Savorelli e Torrini), affatto naturale nella prospettiva di quattro interpreti tuttora coinvolti nelle attività della rivista, non deriva però da un arbitrio. A ben vedere, essa rispecchia l’atteggiamento che verso il «Giornale» ebbero i suoi tre maggiori direttori e che risalta con forza nei proemi, note e avvertenze riprodotte nel presente fascicolo. Un atteggiamento, occorre subito precisare, che mai si tradusse nell’imposizione di una linea ai contributori (già una scorsa agli indici mostra che nessuna delle maggiori correnti filosofiche del Novecento mancò di rappresentanza sulla rivista), ma nasceva dalla convinzione che la filosofia fosse non soltanto materia di sapere accademico, ma avesse qualcosa a che fare con la vita nazionale stessa. Qui, è lecito affermare, la continuità con Gentile si è mantenuta anche nel secondo dopoguerra e forse solo al presente la domanda s’impone ai direttori se quel convincimento sia tuttora in grado di reggere alla prova dei fatti, basato com’è sull’assunto (invero problematico già per Croce) che a partire dall’età moderna la filosofia sempre abbia avuto, financo a sua insaputa, una dimensione nazionale ineludibile – sebbene molta cautela si richieda ancora oggi prima di giungere su questo punto a una conclusione negativa (si pensi solo al preteso antagonismo fra ‘analitici’ e ‘continentali’, che sembra rinverdire in chiave filosofica la plurisecolare antitesi di carattere nazionale fra l’asserita vocazione inglese alla libertà – qui la libertà da qualsiasi concetto mal definito – e l’inclinazione imputata al resto d’Europa verso una qualche forma di monarchia universale dispotica – in filosofia, il dispotismo di formule e rappresentazioni puramente allusive). Quegli scritti programmatici di Gentile (1919), Spirito (1947 e 1970) e Garin (1978, 1980, 1987), ai quali si aggiungono una nota di Giancotti (1978) e l’avvertenza dell’attuale direzione collegiale (2005), esibiscono infatti al lettore due caratteri ricorrenti: da un lato la comune fiducia nell’esistenza di una specificità positiva della tradizione filosofica italiana (in Spirito e ancor più in Garin, certo, senza quell’afflato retorico del proemio gentiliano che tanto spiace a Visentin e che senza dubbio suona oggi estraneo al nostro orecchio); dall’altro l’impulso irresistibile di ciascun direttore a conferire un’impronta più personale alla rivista, sebbene a partire da una riaffermazione dell’identità originaria di quest’ultima – come si è potuto osservare anche nei saggi qui sopra analizzati.
Questa identità , che per Gentile faceva tutt’uno con quei due aggettivi, “critico†e “italianaâ€, accolti nel titolo del «Giornale», forma il principale oggetto di riflessione per chi abbia a sfogliare il presente fascicolo e soffermarsi sui testi dei tre direttori, poiché la condivisione di un lessico comune non vale a nascondere le dissonanze.Già solo nel proemio di Gentile il termine “critica†ricorre in due diverse accezioni, una prima volta a indicare un’attitudine spirituale all’incredulità , alla disgregazione, del tutto incompatibile con la filosofia (quest’ultima imparentata con la religione e con le sue più spiccate manifestazioni soggettiva e oggettiva: la fede e il miracolo), una seconda volta a denotare, in positivo, il tratto distintivo della filosofia intesa come sapere storico. E a partire di qui è facile osservare come Spirito nel 1970 tendesse a raffigurarsi come continuatore di Gentile proprio all’insegna della medesima lotta contro quel primo tipo di critica, ora identificato con lo scetticismo della nuova storiografia filosofica postbellica verso la speculazione, laddove Garin dieci anni più tardi proprio in questa storiografia avrebbe asserito di vedere la più autentica espressione di quello spirito critico del secondo tipo già raccomandato al «Giornale» dal suo fondatore. Ne risultava che la filosofia italiana stessa, oggetto precipuo d’interesse per la rivista, dovesse secondo Spirito identificarsi anzitutto con quell’attualismo del quale il «Giornale» era chiamato a custodire la memoria e mantenere vivi gli ideali (mediante lo stretto rapporto con la Fondazione intitolata a Gentile e le sue iniziative editoriali, ma anche tramite l’aggiornamento della missione indicata dal maestro, insieme filosofica e educativa), laddove per Garin essa doveva intendersi come materia di uno studio più distaccato, all’occorrenza anche impietoso e lontano da ogni declamazione. Sotto questo aspetto nulla è più indicativo della distanza fra i due intellettuali che la volontà di Spirito di tracciare un parallelo fra la propria direzione e quella gentiliana, fra la situazione del 1918 e quella del 1968, attraverso l’insistenza sulla rottura ancor più profonda intervenuta fra le generazioni e nella speranza che la filosofia potesse da questa nuova crisi trarre alimento per un’ulteriore rinascita, come già dopo la Grande Guerra grazie a Gentile, il quale a sua volta si era richiamato a Galluppi, Rosmini e Gioberti, protagonisti di una gloriosa resurrezione filosofica nazionale all’indomani delle guerre napoleoniche. Proprio come allora – sembrava suggerire Spirito nel suo proemio – il diminuito fascino di quelle correnti di pensiero da lui definite con stizza le «filosofie di moda d’oltralpe», dilagate in Italia dopo il 1945, faceva sperare in un rilancio della tradizione speculativa autoctona. Quel che nei successivi testi di Garin qui riprodotti troviamo assente, infatti, è proprio questa fragile speranza (nel nome della quale il precedente direttore si era misurato peraltro senza argomenti persuasivi con le riserve di Norberto Bobbio a Torino, il 15 marzo 1969 in occasione di un incontro allestito da Augusto Guzzo e documentato in quel medesimo anno su «Filosofia» sotto il titolo I cinquant’anni del «Giornale critico della filosofia italiana»), riscaldata con il pathos etico-politico, l’appello ai giovani, l’oscuro sentimento che il «Giornale», anziché solo rispecchiare nel suo ambito la vita culturale della nazione, dovesse in qualche modo agire sulla società . «Messaggi pieni di promesse, uniti a rapidi bilanci e ad ambiziosi programmi» – Garin scriveva nel 1980, certo non immemore delle parole ardenti dei suoi predecessori – avrebbero finito solo per offrire «materia a malinconiche riflessioni sulla inconsistenza degli uni e la genericità degli altri». La rivista poteva continuare a pubblicarsi, ma per farlo doveva abdicare a qualsiasi funzione direttiva delle coscienze e accettare di essere nulla più che un severo foglio interno a una disciplina, in primis quella storia della filosofia che a Gentile pur doveva la sua legittimazione come attività filosofica in se stessa.
Questa sobria e modesta conclusione, beninteso, aveva pur sempre qualcosa a che fare con la storia patria. Nell’Italia del 1920, in tempi nei quali già solo la circolazione materiale dei libri (specie stranieri) non era paragonabile a quella attuale, un periodico autorevole per la fama del suo primo direttore (di lì a breve addirittura il ministro della Pubblica Istruzione), animato da collaboratori selezionati, diffuso nelle scuole, non sottoposto alla concorrenza di strumenti di divulgazione scientifica più potenti e capillari, ricco di notizie sullo sviluppo degli studi filosofici in Italia e all’estero, poteva ancora confidare di riuscire a incidere su quella classe di docenti e intellettuali chiamati a formare le nuove generazioni – tanto da far apparire al lettore odierno non del tutto inappropriate le considerazioni di Visentin sulla ricerca di un’egemonia culturale perseguita da Gentile. Ma sessant’anni più tardi (per non dire ai nostri giorni), allorché Garin prese in mano la rivista, una simile pretesa era divenuta ormai illusoria. Di fronte a domande e bisogni assai mutati, in presenza di contributori e lettori sempre più specializzati, l’indirizzo storico-filosofico sembrava costituire la sola bussola a disposizione e sotto tale insegna il «Giornale» senza dubbio riacquistò prestigio e attenzione anche aldilà della roccaforte tradizionale delle sedi universitarie più legate al magistero di Gentile. Altra questione, naturalmente, è stabilire se oggi questa linea sia ancora sostenibile, come sembrano chiedersi gli stessi direttori attuali, allorché nella loro avvertenza del 2005 dichiarano di rinunciare non solo a «dettare programmi» (come già Garin), ma anche a «rivendicare continuità » con il passato. La morte di Garin, ultimo testimone della primitiva stagione gentiliana, ha segnato una «oggettiva cesura», che ha il sapore dell’avvio di una nuova storia.
Di qui l’idea di realizzare questo fascicolo di indici, il quale per il fatto d’includere anche i primi sette anni del nuovo corso, fa pensare piuttosto a una transizione ancora in atto. In esso il lettore ritrova i nomi dei passati direttori e redattori (fra questi ultimi i più importanti, in ordine di tempo: Spirito, Giancotti, Torrini, Savorelli), quelli delle case editrici (Principato, Bestetti Tumminelli, Treves-Treccani-Tumminelli, Sansoni, quest’ultima dal 1933 fino al 1988, infine Le Lettere), le tracce di sezioni ormai scomparse (Varietà , Comunicazioni, Appunti bibliografici, Recensioni, Rassegne bibliografiche), o di fascicoli monografici tali di nome o di fatto (dedicati dapprima al pensiero di Gentile, da ultimo in omaggio ai settant’anni di Torrini; ma la rivista ha ospitato al suo interno anche singole sezioni monografiche), per finire soprattutto con i nomi dei numerosissimi collaboratori (chi scrive ne ha contati in tutto novecentoquarantasette, fra autori e curatori), i quali offrono uno spaccato assai interessante della comunità filosofica italiana nel Novecento, senza dimenticare gli studiosi stranieri, presenti fin dalla prima serie. Fra i contributori italiani è impossibile non menzionare almeno i più prolifici: nella prima serie, oltre a Gentile, troviamo Guido Calogero, Armando Carlini, Cecilia Dentice di Accadia, Augusto Guzzo, Adolfo Omodeo, Ugo Spirito; nella seconda, in aggiunta ai medesimi (fatto salvo il ritiro di Omodeo), ancora Carlo Antoni, Bruno Brunello, Delio Cantimori, Rodolfo De Mattei, Gaetano Durante, Bruno Nardi, Giorgio Radetti; nella terza, oltre a Spirito e Garin, una nutrita pattuglia di superstiti o epigoni dell’attualismo, quali Vito A. Bellezza, Gaetano Chiavacci, Nicola Massimo De Feo, Vito Fazio Allmayer, Paolo Filiasi Carcano, Angela Maria Jacobelli Isoldi, Antimo Negri, Renzo Raggiunti, Giuseppe Saitta, ma anche studiosi di altra appartenenza culturale, come Gustavo Bontadini, Antonio Corsano, Tullio Gregory, Armando Plebe, Pietro Piovani, Giuseppe Semerari; nella quarta ancora molti dei precedenti e in aggiunta Antonio Capizzi, Hervé A. Cavallera, Carlo Diano, Guido Frongia; nella quinta e sesta serie, oltre a Garin, Savorelli e Torrini, ecco Antonio Borrelli, Claudio Cesa, Raffaele Colapietra, Massimo Ferrari, Luigi Guerrini, Giovanni Mastroianni, Stefano Miccolis, Mauro Moretti, Guido Oldrini, Saverio Ricci, Loris Sturlese, in corrispondenza, occorre dire, di un visibile ampliamento e rinnovamento dei collaboratori rispetto alla serie precedente, la quale forse rappresentò (complice anche la vecchiaia di Spirito) il periodo di maggior affanno nell’esistenza del «Giornale». A questi nomi, beninteso, già Spirito e Garin negli scritti programmatici delle loro direzioni, poi Visentin, Savorelli, Zappoli e Torrini nei saggi inclusi nel presente fascicolo solevano e sogliono affiancarne altri, ricorrenti invero con minor frequenza, ma che con la loro fama allora già consolidata o in fieri ogni volta non mancano di illustrare la rivista agli occhi della posterità interessata a ripercorrerne la storia; basti citare, fra i defunti, Nicola Abbagnano, Ettore Bignone, Norberto Bobbio, Ernesto Codignola, Galvano Della Volpe, Augusto Del Noce, Enrico De Negri, Aldo Ferrabino, Luigi Firpo, Ludovico Geymonat, Ernesto Grassi, Cesare Luporini, Arnaldo Momigliano, Rodolfo Mondolfo, Enzo Paci, Luigi Pareyson, Giulio Preti, Paolo Rossi, Luigi Russo, Giorgio Tonelli, Valerio Verra, Gioacchino Volpe, nessuno dei quali può certo dirsi legato in primis al «Giornale» come periodico di riferimento; per tacere infine di quei collaboratori stranieri, innanzitutto studiosi tedeschi di origine ebraica, che dopo il 1933 trovarono temporanea ospitalità in Italia e anche sulle pagine della rivista di Gentile, da Paul Oskar Kristeller a Heinrich Levy, da Karl Löwith a Richard Rudolf Walzer. Queste collaborazioni autorevoli, a buon diritto sempre ricordate, non devono tuttavia far dimenticare la quantità naturalmente assai maggiore di autori o curatori non altrettanto illustri che hanno consentito al «Giornale» di durare fino a oggi. Un fascicolo come quello offerto qui al pubblico ha soprattutto la funzione di restituire visibilità a questi ultimi e magari d’ispirare curiosità non solo per le loro persone, ma ancor prima per le loro ricerche, che anche nel caso della filosofia e della storiografia a essa relativa mai debbono esser giudicate solo a partire dalla notorietà degli scriventi.
Qui sta, se vogliamo, un ulteriore pregio non soltanto accessorio di questi indici: favorire il ricorso anche ai più dimenticati contributi celati in ogni annata, intesi quali strumenti di studio potenzialmente ancora utili (prezioso, a questo riguardo, è soprattutto il soggettario, com’è ovvio, dove spiccano per frequenza i nomi di Aristotele, Bruno, Campanella, Croce, Descartes, Galilei, Gentile, Hegel, Kant, Labriola, Platone, Spaventa, Spinoza, Vico e il lemma Rinascimento, Renaissance), ma altresì fornire un primo indispensabile ausilio a chi volesse un giorno dedicarsi a redigere una storia della rivista, la quale pur sempre non si lascia ridurre alle traversie già assai scandagliate del fondatore, né all’opera dei maggiori protagonisti. Nel caso d’imprese editoriali così longeve e importanti non è necessario, né forse consigliabile, aspettare la pubblicazione dell’ultima puntata (verosimilmente ancora assai lontana, almeno a giudicare dall’attuale stato di salute del «Giornale»), affinché si proceda a un lavoro siffatto. Nel frattempo i bilanci parziali finora stilati e in qualche misura anche qui riproposti, insieme alle riflessioni volte al futuro che un regesto di questa portata sicuramente non mancherà di suggerire ai responsabili, garantiscono fin d’ora al fascicolo quell’interesse e approvazione che formano la migliore ricompensa della non poca fatica concentrata in oltre duecentosessanta pagine dai suoi non dichiarati curatori. A questi ultimi sia consentito perciò in questa sede esprimere, in conclusione, il più sentito e doveroso ringraziamento.
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