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I quaderni del Partito d'Azione
di Maurizio Ambrogi
«Dalla critica del pensiero liberale, dalla critica del pensiero socialista, dalla critica dello schematismo liberale e dello schematismo liberista, dalle nuove aspirazioni delle forze sociali nasce il Partito d’Azione». Siamo nel dicembre del ’43: con un opuscolo clandestino e anonimo Ugo La Malfa traccia le linee d’azione politica del partito che è stato e continua ad essere protagonista nella lotta di Liberazione. La ricerca di quella “terza via”, si direbbe oggi, fra le due grandi culture democratiche del Novecento, questione peraltro attualissima, sarà il problema e segnerà il destino del Partito d’Azione. Una storia che i «Quaderni» ripubblicati dall’editore “Il Settimo Libro”, restituiscono in tutta la sua vivacità, profondità e completezza. In due volumi, sono raccolti i 20 «Quaderni» pubblicati fra il giugno del ’44 e il febbraio del ’46: a volte con una numerazione sovrapposta, frutto della confusione di quei mesi difficili e tempestosi. Eppure il dibattito riemerge lucidissimo: le ragioni morali che tengono insieme un gruppo eterogeneo, di altissima qualità intellettuale, insieme ai motivi che ne determineranno la scissione, nel ’46, preludio di una rapida eclisse.
Le ragioni per leggere i «Quaderni» sono diverse. Anzitutto la qualità degli autori: da Ferruccio Parri a Emilio Lussu, da Riccardo Bauer a Manlio Rossi Doria, Guido Calogero, Arturo Carlo Jemolo, Guido Dorso, Aldo Garosci, Adolfo Omodeo, oltre naturalmente a Ugo La Malfa. L’accuratezza della veste editoriale, sia nelle note che nella scelta di riordinare gli scritti in modo che il criterio temporale sia intrecciato a quello degli argomenti. Dunque un primo volume più centrato sul dibattito politico, l’altro sui temi programmatici, aperto dal famoso documento dei Dieci Punti, redatto da Oronzo Reale, dopo un acceso dibattito, come ci ricorda la nota, fra La Malfa, Tino, Calogero e Ragghianti. Un tentativo di tenere insieme le diverse anime del partito e che purtroppo ebbe brevissima durata. Ed è questo il tema politico di grande interesse che emerge dai «Quaderni»: il confronto fra l’orientamento “socialista” di Lussu, quello “liberalsocialista” di Calogero e quello “democratico” di Bauer e La Malfa. «Tutti uomini di grande rigore, di cultura non superficiale - osserva Adolfo Battaglia nella prefazione - e avevano un nobile passato antifascista che in certo senso dava loro il diritto, ritenevano, di guidare l’Italia distrutta dal fascismo. Con tutto ciò non c’era tra loro quel tanto di affinità politica che potesse far marciare un ordinato partito».
La comune militanza antifascista non fu collante sufficiente insomma, finita la guerra, per continuare un cammino politico insieme. Ciò che univa tutti questi uomini, era la convinzione che si dovessero superare le tradizionali culture politiche, responsabili di aver sottovalutato, per motivi diversi, il pericolo fascista. I liberali pensando che certe spinte potessero essere riassorbite, i socialisti che favorissero un cambio di regime: il che purtroppo avvenne, ma in tutt’altra direzione. «Malaccorti condottieri» definisce Francesco Fancello i dirigenti socialisti del primo dopoguerra: «il proletariato ribolliva di generoso spirito rivoluzionario. Ma la incapacità di valutare le condizioni obbiettive, specialmente internazionali, l’astrattismo antipatriottico, l’infantilismo demagogico, la incomprensione dei ceti medi, lo scarso spirito di responsabilità nei dirigenti, portò i lavoratori al disastro e pose le premesse spirituali e politiche della reazione fascista». Il nodo è ricostruire una azione politica che tenga insieme la società in tutte le sue articolazioni, soprattutto quel ceto medio, superando gli ideologismi e le pregiudiziali del passato. Il punto è chiarissimo nella riflessione ad esempio di La Malfa, che nel settembre del ’44 sottolinea che il regime di domani non potrà essere né una democrazia liberale, né una democrazia classicamente socialista: «ma una grande e moderna democrazia organizzata per risolvere i problemi di vaste collettività umane». Una democrazia integrale, insomma, che superi gli schemi classisti del periodo prefascista: posizione che non si concilia con quella di Lussu e di quanti altri punteranno invece sul recupero della tradizione socialista. E si nota la differenza di analisi e di argomenti leggendo proprio Lussu, quando scrive ad esempio, nel primo dei «Quaderni» pubblicati, che: «una democrazia che ponga la soluzione radicale dei grandi problemi del capitale e della terra…non può realizzare il suo sviluppo che illuminata da un ideale socialista e sorretta da una legislazione progressista».
L’altra pregiudiziale forte, e in questo caso unanimemente condivisa, è quella repubblicana. Da questo punto di vista i «Quaderni» offrono ulteriori documenti e argomenti sul ruolo fondamentale che il Partito d’Azione giocò nell’imporre nei mesi cruciali prima della Liberazione un indirizzo politico ostile a qualsiasi compromissione e tentativo di mantenere una continuità con quella monarchia che aveva consentito l’avvento del fascismo, prima, e l’entrata in guerra, poi. Una intransigenza che pose le basi del passaggio di regime attraverso il Referendum e l’elezione dell’Assemblea Costituente. Storia di cui non sempre si intende il significato e il valore di alcuni passaggi nei quali, proprio grazie al Partito d’Azione, si impresse la svolta determinante, la rottura definitiva con il passato, tutt’altro che scontata, anche in polemica e in contrasto con l’impostazione togliattiana. «Quando, nel dicembre 1942, noi lanciammo il primo numero dell’«Italia Libera» e alzammo la bandiera della repubblica in Italia, eravamo soli» sottolinea La Malfa, che ricorda l’adesione di comunisti e socialisti alla pregiudiziale repubblicana prima dell’8 settembre, poi la marcia indietro togliattiana, dopo l’armistizio, con l’appoggio al terzo governo Badoglio, l’incertezza socialista, fino alla nuova svolta col governo Bonomi, dovuta all’intransigenza azionista: «questa battaglia fu dunque vinta – conclude La Malfa – quasi esclusivamente per la tenacia del Partito d’Azione. E fu la prima grande prova politica italiana». In questa battaglia gli azionisti mettono tutta la forza e l’autorevolezza conquistata nei mesi della Resistenza nella quale, giova sempre ricordarlo, fu fondamentale, anche dal punto di vista numerico e organizzativo, l’apporto delle formazioni che si ritrovarono sotto le insegne di Giustizia e Libertà, e del Partito d’Azione. È difficile definire il numero esatto di quanti fecero parte di quelle formazioni nei venti mesi di lotta per la Liberazione. Comunque decine di migliaia, con migliaia di morti e feriti. Una presenza tanto forte peraltro testimoniata dal fatto che al comando dei Corpi volontari della libertà nel ’44 con Longo e Cadorna ci fosse Ferruccio Parri, già comandante delle formazioni di Giustizia e Libertà. Comandante militare durante la Resistenza, poi capo del governo per pochi mesi, nel ’45 dopo la Liberazione. Ed è lo stesso Parri, nel discorso che chiude il secondo volume di «Quaderni», a fare il punto organizzativo dell’interno movimento della Resistenza, ricordando che «nell’estate del ’44 potevamo contare su un complesso di ottantamila partigiani raggruppati in bande che poi si accrebbero fino a un massimo di centomila uomini un po’ meglio armati di prima. Le bande armate di montagna erano affiancate da formazioni territoriali di partigiani costituite nella pianura e sempre in aumento, tanto che nel colmo dell’estate raggiungemmo i duecentomila mobilitati cui si univano anche le formazioni cittadine». E poi conclude Parri: «in prima linea ci siamo stati e posso dire con orgoglio e con soddisfazione che il Partito d’Azione nell’Italia settentrionale è stato in testa ed è forse quello che ha pagato di più».
In quei pochi anni gli azionisti seppero dunque incidere profondamente sia nella conduzione militare che in quella politica. Ma non seppero “tenere” la posizione, sia per quelle distanze politiche che i «Quaderni» bene evidenziano, sia per il rapido cambio del quadro politico, nel quale, consumata l’unità d’azione della Resistenza, si propone il duello “bipolare” fra il Fronte popolare e la Democrazia Cristiana. Restò un gruppo dirigente che in ogni campo, politico, economico, intellettuale, ebbe individualmente il suo peso. Col dubbio, e il rimpianto, di quanto meglio avrebbero potuto fare in condizioni diverse.
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