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Momenti della ricezione dell’Estetica di Croce nel mondo anglo- americano (1900-1938)
di Vincenzo Pepe
Anche se l’Estetica fece il suo ingresso nel mondo anglosassone nel giugno del 1902, con l’arrivo a New York della copia da Croce spedita allo studioso Joel Elias Spingarn, alcune delle idee portanti di essa, sia pure in forma embrionale, avevano cominciato a circolare e ad essere apprezzate in America qualche anno prima, e precisamente nel febbraio del 1900. Del 18 di questo mese, difatti, è una lettera dello Spingarn a Croce, nella quale lo scrivente informava l’amico di aver letto con profitto e piacere La critica letteraria, e di averla mostrata al suo amico professore Woodberry, «the most distinguished of American critics, who said many pleasant things of your book»1. Qualche mese dopo, sempre allo Spingarn (e alWoodberry), Croce aveva mandato una copia delle Tesi fondamentali dell’Estetica, opuscolo che il suo corrispondente in una lettera datata 21 agosto 1900, dichiarò di aver trovato «ad aspettarlo dal suo rientro da un viaggio in Europa»2. L’anno successivo, in data 6 maggio, lo studioso americano accusa ricevuta di un altro scritto inviatogli dall’amico napoletano, anch’esso anticipatore dell’Estetica, perché di questa scienza riguarda il suo «primo scopritore», Giambattista Vico3.
Alcune parti del corpus delle teorie estetiche crociane, dunque, Spingarn le aveva conosciute prima che esse trovassero sistemazione nell’impianto dell’Estetica; ma fu la lettura e la valutazione di quest’opera nel suo complesso a rivelare allo studioso americano lo spessore del pensiero crociano, nonché «l’unità del sistema, e la lucidità e la forza della esposizione», come si legge nella lettera del 9 maggio 1902 scritta dallo Spingarn dopo aver ricevuto il «magnum opus»4. Nella stessa missiva lo scrivente rinnova il desiderio, già espresso l’anno precedente al suo corrispondente napoletano, di farsi promotore di conoscenza della sua opera in America; gli consiglia, però, di far pervenire una copia dell’Estetica ad alcuni autorevoli esponenti della cultura filosofica americana del tempo. Croce sapeva che la cultura anglosassone, nella quale il pragmatismo speculativo si miscelava con l’atteggiamento moraleutilitaristico imperante per lunga tradizione nella critica letteraria, non offriva le condizioni ideali per il giusto intendimento del suo pensiero.Ma, da convinto assertore della «libera discussione come condizione di ogni progresso di verità»5, non poteva non mettere in pratica il suggerimento dell’amico, e mandò una copia della sua opera, tra gli altri, a George Santayana, professore di filosofia ad Harvard, e collaboratore della rivista «Journal of Comparative Literature», allora al suo primo anno di pubblicazione.
La recensione, firmata proprio dal Santayana, non si fece aspettare. Apparve sul numero di aprile-giugno del 1903 della rivista, menzionata col titolo Croce’s Aesthetics. Come era da attendersi, non era favorevole, ed era sostenuta da una sottile vena polemica evidente già nell’esordio. Il recensore riportava difatti il brano nel quale, nel concludere la parte teorica dell’Estetica, Croce giustifica l’«assai scarna» dimensione della sua trattazione, rilevando che la ponderosità dei tradizionali trattati di estetica non è di sostanza, perché quei volumi «sono per i nove decimi pieni di materie non pertinenti, quali le definizioni psicologiche ometafisiche dei concetti pseudoestetici (sublime, comico, tragico, umoristico) o l’esposizione della pretesa Zoologia, Botanica o Mineralogia estetiche, e della storia universale giudicata esteticamente»6.
Evidentemente il recensore lesse in questa affermazione un atto di superbia che andava rintuzzato ripagando chi l’aveva formulata della stessa sua moneta. Sì, conviene il recensore, «effettivamente la teoria di Croce è così semplice e radicale che avrebbe potuto benissimo essere spiegata in un decimo delle centocinquanta pagine ad essa dedicate, e che per lo più sono piene, si badi, non di valutazioni di opere d’arte, ma di critica di altre teorie estetiche»7. La critica crociana, continua il recensore, è senz’altro efficace per dare risalto all’assunto cardine della sua teoria, e cioè che «niente è estetico al di fuori dell’arte dell’intuizione o immaginazione, e che niente è opera d’arte se non un interno, momentaneo prodotto della fantasia»; ma questa critica serve solo a «rendere evidente la sterilità di qualsiasi filosofia rigorosamente trascendentale, perché, insistendo sul concetto che tutta l’arte o la bellezza per essere effettivamente apprezzata deve cadere entro l’unità trascendentale dell’appercezione,[…] essa finisce per bandire dall’“estetica” tutti i problemi con i quali si misurano i critici, senza risolverne o chiarirne nemmeno uno». È questa solo la prima di una serie di riserve avanzate nei riguardi dei principali nuclei concettuali dell’Estetica: progressivamente vengono attaccati difatti i concetti dell’autonomia del fatto estetico, la centralità dell’espressione, la tripartita divisione della vita teoretica, tutti elementi, questi, che convincono il recensore dell’artificialità e astrattezza della teoria crociana. La conclusione della recensione è eloquente: «Discorso senza concetti e oggetti senza attrattiva possono momentaneamente bastare a quella irrisoria entità, il poeta astratto, la cui mente è uno sterile caleidoscopio per l’infinita intuizione di tutto, ma sono singolarmente tediosi per quell’animale sensibile, politico e pensante che si chiama uomo»8.
Come non mancò di rilevare lo stesso Croce, «l’assai sfavorevole critica» del Santayana nasceva da presupposti teorici affatto opposti ai suoi9, ma un’idea della distanza tra queste due posizioni può essere derivata dal fatto che l’anno successivo il Santayana rinnovò l’attacco alla teoria estetica crociana in uno scritto dal titolo What is Aesthetics? Qui, difatti, forse perché non pago di aver definito «il sistema crociano un dottissimo gioco che non reca contributo alcuno alla conoscenza», l’americano rincara la dose con una maligna allusione agli «scemi intenzionali» i quali «menano vanto dal coltivare un singolo interesse libero da tutti gli altri, e di smarrirsi in quella sola sensazione a scapito di tutti i legami e gli effetti di essa». Si insinua in noi qui il sospetto che il recensore abbia volutamente frainteso l’opera di cui sta discutendo. Ma conviene seguire le sue argomentazioni. «Tentare», egli continua, «di astrarre un cosiddetto interesse estetico da tutti gli altri interessi, e una cosiddetta opera d’arte da tutto quello che l’opera elargisce, in un modo o nell’altro, a tutto il bene umano, significa rendere la sfera estetica insignificante». Un’arte priva di una base e un’occasione pratica, e che non esplichi qualche funzione intellettuale o religiosa è per lui inconcepibile. Un’arte nella quale si operi il divorzio di una «fase dell’attività razionale da tutto il resto,[…] conduce a una moralità senza radici nella vita, e ad altre fantasiose astrazioni irrelate e inutili per giudicare la vita»10. Il sospetto diventa allora una conferma. Ritenendo forse Croce un tardo epigono dell’estetismo decadente, lo studioso ha scambiato il concetto di autonomia teoretica del momento estetico per una riproposizione del principio dell’“arte per l’arte”, principio, come si sa, affatto estraneo alla speculazione crociana11.
Come si apprende dalle lettere a Spingarn del 23 maggio e del 7 giugno 1903, però, ancorché sfavorevole la recensione non sembrò particolarmente «meravigliare», o «dispiacere» Croce, al quale, come si diceva, appariva evidente il «punto di vista affatto opposto al suo» dal quale essa nasceva. In un primo momento il filosofo pensò di muovere al Santayana delle «controsservazioni» sulla «Critica» anche se non era sicuro dell’opportunità della sua replica. Nella lettera a Spingarn, difatti, il proponimento di rispondere al recensore è indebolito da un «forse», che, in una lettera al Vossler, diventa «se ne avrò voglia». In ogni caso, così come era sua consuetudine, prima di scrivere, «per iscrupolo» si documentò sul suo detrattore americano, leggendone le opere più significative. Ma il proposito di passare al contrattacco venne poi accantonato; segno che forse le tesi dell’avversario vennero valutate come non compromettenti la sicurezza delle sue idee12.
Malgrado, e forse anche attraverso, il veto del Santayana, la curiosità per l’Estetica crebbe negli ambienti accademici e specialmente tra i critici letterari, se è vero quanto dice lo Spingarn nella lettera del 6 ottobre del 1903 a proposito dei molti studiosi americani di estetica i quali, non conoscendo l’italiano, aspettavano con ansia le versioni tedesca e francese dell’opera, oltre ad auspicare ovviamente la pubblicazione di una traduzione inglese della stessa. Traduzione, e non solo dell’Estetica, la cui urgenza è avvertita in quel periodo di «imperante pragmatismo, di cui tutti si riempiono la bocca, persino nei negozi e nelle strade», e che «rende popolare il nome di un Papini a pensatori americani che ignorano quasi il Croce». Questo riferimento al nome del Papini è da tenere in debito conto, perché, come vedremo in seguito, uno degli attacchi più virulenti all’Estetica del Croce sul suolo americano, proveniva proprio da casa nostra. Intanto conviene seguire la questione della traduzione inglese dell’Estetica, che resta uno dei capitoli fondamentali della storia della ricezione di Croce nel mondo anglosassone. Ad esso però, possiamo qui dedicare solo quei cenni funzionali alla prospettiva del nostro discorso, rimandando ad altra trattazione un esame più specificamente tecnico.
Sempre dalla corrispondenza Croce-Spingarn si apprende che lo studioso americano si era attivato «da tempo», anche se infruttuosamente, per vedere realizzata la tanto auspicata traduzione inglese dell’Estetica. Aveva all’uopo anche preso contatto con i Macmillans di Londra, i quali avevano però rifiutato il progetto, ritenendolo «non redditizio»13. Ma a dire le cose come stanno, gli editori inglesi non furono ben disposti nei riguardi del progetto editoriale non solo, e non tanto, per paura del rischio di un investimento infruttuoso, bensì per miopia culturale, perché convinti che in fatto di libri di estetica «bastava all’Inghilterra l’History of Aesthetics del Bosanquet», come ci informa lo stesso Croce in una lettera del 28 aprile 1908 a Douglas Ainslie14. Ed è a questo personaggio che dobbiamo ora volgere la nostra attenzione, perché a lui, come si sa, è legata nel bene e nel male parte della fortuna di Croce nel mondo di lingua inglese, al punto che non c’è scritto sulla ricezione di Croce che non riservi almeno un riferimento alle responsabilità, vere o presunte, del traduttore/traditore Ainslie. Ma chi era costui? E come avvenne il suo incontro con Croce?
Coetaneo di Croce, Grant Duff Douglas Ainslie era rampollo di famiglia aristocratica scozzese. Prima di esser avviato alla vita diplomatica sulle orme di molti suoi antenati, si era laureato a Oxford. Appassionato cultore di poesia e di studi umanistici, partecipò alla vita culturale del suo paese frequentando personalità del mondo letterario qualiWilde, Pater, Swinburne15. Affascinato fin da giovane dall’«arcano» della natura e della funzione dell’arte, soffrì l’angustia speculativa che aveva impedito, secondo lui, al pensiero inglese di elaborare una compiuta e coerente teoria dell’arte e della critica letteraria. Nella prefazione a Mirage, una raccolta di suoi versi pubblicata nel 1911, egli ricorda difatti con sgomento gli anni degli studi universitari a Oxford, durante i quali ancora teneva cattedra l’antica e sclerotica concezione che vedeva la poesia e le arti come monadi, entità scisse e irrelate, «divorziate l’una dall’altra», e insisteva sulla distinzione tra prosa e poesia come generi «irrevocabilmente divisi dal Rubicone della rima e del metro»16. «Erano tempi, egli ricorda ancora, nei quali in fatto di teoria estetica, ci accontentavamo di poche frasi del Keats e del Poe, di uno o due pensieri felici del saggio sulla poesia dello Shelley, e di poche citazioni dalle chiacchiere da studio del Rossetti»17. Tutte queste premesse ovviamente non facevano che acuire la curiosità del giovane intellettuale; né valevano a placare la sua ansia di conoscenza le sue svariate letture diWilde, Pater, Arnold, Anatole France, Schopenhauer e Nietszche. Finché un giorno del 1908, a Napoli, in un circolo esclusivo dell’alta società, la sua attenzione fu richiamata da alcuni fascicoli della «Critica», rivista alla quale quel circolo era abbonato. Ma qui conviene far parlare il Croce, perché i pochi tratti di penna con i quali il filosofo rievocò questo primo fondamentale incontro con l’Ainslie fanno luce su alcuni punti di vitale importanza non solo per comprendere il rapporto che legò i due per moltissimi anni, ma anche per approfondire la conoscenza delle idee crociane in fatto di traduzione e, più in generale, in fatto di circolazione di idee. Seguiamo dunque la vicenda attraverso Croce.
Una volta trovatosi nel circolo napoletano, «l’inglese si dié a leggere, forse solo o quasi solo, in quel club del bel mondo, i fascicoli della «Critica». Vi prese gusto, se ne infervorò e venne a farmi visita e finì col propormi di tradurre l’Estetica, diventando così per molti anni il mio traduttore ordinario»18.
Come si vede, il piccolo brano mira a far risaltare la singolarità del comportamento dell’Ainslie nel contesto di un club di nobili sfaccendati, un luogo di ritrovo nel quale, dirà Croce più avanti, «non molto certamente si pensava, ma molto si giocava». In quel contesto il lettore inglese è l’unico, «o quasi», intento in una lettura che lo coinvolge, lo appassiona, al punto di fargli maturare seduta stante il desiderio di incontrare l’autore di quelle pagine, per proporgli di farsi promotore di conoscenza delle stesse nella lingua del suo paese. L’entusiasmo, la passione e l’ammirazione per Croce restarono i tratti cospicui della personalità dell’Ainslie; ma quel giorno quei tratti il filosofo li apprezzò e interpretò sul piano simbolico oltre che su quello umano. Perché erano una conferma di un convincimento saldamente radicato in lui, e cioè che la circolazione delle idee e delle opere è attivata motu proprio, dalla forza intrinseca di quelle idee e di quelle opere, e dalla capacità che queste hanno di coinvolgere l’anima e il cuore del lettore. Proprio poco prima, e ad apertura del brano in cui spiega come, attraverso la conoscenza dell’Ainslie, si era verificato il suo ingresso nel mondo anglosassone, il filosofo dice che intende narrare il caso, «perché esso concorre a spiegare la mia, più che freddezza, avversione, agli affaccendamenti ufficiali e statali per “diffondere” (come si blatera) “il pensiero e la letteratura di un paese nei paesi stranieri”, e il mio convincimento che il pensiero e l’arte, se tali veramente sono, trovano da sé le loro vie nei modi più impensati e hanno una forza di insinuazione e di espansione non punto inferiore, si potrebbe dire, a quella della mala erba»19.
Quei tratti umani dello Ainslie, soprattutto l’entusiasmo e la passione, oltre a conquistare il filosofo dovettero avere effetto anche sui dirigenti della casa editrice Macmilllan, perché questi si convinsero ad accettare quello stesso progetto di traduzione dell’Estetica che avevano rifiutato quando era stato presentato non molto tempo prima dallo Spingarn. Sia come sia, l’anno successivo, col titolo Aesthetic as Science of Expression and General Linguistic, usciva la prima traduzione inglese del trattato crociano. Non nella sua interezza, però, perché la parte storica vi era sintetizzata20, mentre in appendice veniva aggiunta la traduzione del testo della conferenza su L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte che Croce aveva tenuto al Congresso Internazionale di Filosofia ad Heidelberg nel 1908. Di questa prima edizione, interessante ai fini del nostro discorso è l’introduzione, sulla quale è perciò necessario soffermarsi per qualche considerazione21.
L’introduzione si regge su uno schema mitografico di disarmante ingenuità. Con accenti carlyleani o nietszcheani, l’Ainslie presenta Croce come personalità straordinaria, sovrumana, quasi novello Prometeo che offre la fiaccola della verità a una umanità (la cultura anglosassone) che in fatto di teorie estetiche brancola nel buio. L’idea della statura eccezionale del personaggio è veicolata da un gioco di rinvii che ne connota variamente l’identità: ora come profeta, ora come antico sapiente della Magna Graecia, ora come scopritore di mondi nuovi, Colombo redivivo che «vive sulle spiagge del Mediterraneo, a Napoli, città dell’antica Partenope», e che ha scoperto non un’America geograficamente intesa, ma una America che appartiene «al Regno dello Spirito», e le cui province conosce minutamente, in lungo e in largo. Il nuovo paese così «conquistato alla filosofia porterà per sempre il suo nome, Estetica di Croce, una nuova America».
In questo schema mitografico, ovviamente, il traduttore inserisce anche se stesso, per autocelebrarsi come chi ha «superato gli ostacoli che si frapponevano all’annuncio del nuovo verbo al mondo di lingua inglese». Il gioco mitografico continua poi con la rievocazione del primo incontro con Croce, quando, invitato a casa del filosofo, il futuro traduttore oltrepassa la fila «dei piccoli negozi di venditori di corallo che circondavano a mo’ di collana il Rione della Bellezza».Mentre sale le scale dell’imponente palazzo egli avverte la sensazione di stare vivendo nel 18° secolo e «di essere in visita a casa di Giambattista Vico». Con tecnica romanzesca siamo introdotti poi alla presenza del sapiente. «Una porta si aprì dietro di me, alla mia sinistra, e un uomo piuttosto basso e tarchiato mi si fece incontro a salutarmi pronunciando nello stesso tempo il mio nome con leggero accento straniero, e mi invitò a sedermi accanto a lui». L’attenzione del visitatore cade sulle mani del filosofo, che «egli teneva chiuse davanti, ma per riaprirle di frequente, e fare quei gesti vividi con i quali i Napoletani sostengono i loro discorsi». Ma più espressivi tra tutti i tratti somatici del Croce sono gli occhi, «di un verde grigiastro, occhi straordinari, ma non per bellezza, bensì per la loro insondabile profondità, e per la piena di simpatia che vi si riversava dall’anima sottostante». Dopo la breve descrizione fisica è la volta dei tratti caratteriali, della «severità e onestà intellettuale di Croce, che non permette ai suoi sentimenti personali di inficiare l’oggettività dei suoi giudizi». Una qualità, questa, che «molti superficiali critici inglesi farebbero bene ad apprendere da uno che per tanti altri aspetti è superiore a loro». Quelli invece che dedicheranno tempo e attenzione allo studio dell’Estetica, «gli saranno grati per aver collocato nelle loro mani questa preziosa perla dal diadema dell’antica Partenope»22.
Che queste esagerazioni fossero frutto di entusiasmo e di sincera ammirazione, lo poteva sapere solo Croce, il quale pure ne restò imbarazzato però, se in data 28 ottobre 1909, con davanti le copie della traduzione testé pubblicata, scrive al suo traduttore:
Come ringraziarla di tutto? Della traduzione condotta con tanta cura e tanto gusto, del riassunto così bene fatto della parte storica, e della prefazione che mi presenta in una luce così simpatica? Le confesso che le cose che Ella dice nella prefazione mi hanno fatto arrossire; ma arrossire sul serio, non per frase; e ho dovuto interrompere la lettura per riprenderla dopo qualche tempo. Se anche nel giudizio che fa dell’opera mia si può ingannare per benevolenza, io ho sentito in quelle pagine un così vivo affetto di amico da dovere reputarmi fortunatissimo di un così prezioso acquisto, che è tra i maggiori beni della vita. E non dico altro23.

Ma se Croce era imbarazzato, irritati da quella prefazione furono alcuni recensori del volume, ai quali davano fastidio non tanto le sperticate lodi di Croce alle quali il traduttore si abbandonava, quanto il fatto che queste si accompagnassero a reiterati giudizi sulla presunta angustia culturale anglosassone24. Non mancò quindi tra i recensori chi ritenne quell’introduzione un pessimo servizio reso a Croce. Significativo, al riguardo, l’atteggiamento di Adam Leroy Jones, al quale si deve una delle prime recensioni apparse all’indomani della pubblicazione della traduzione inglese del trattato di Croce. Era una recensione nel complesso positiva, perché sia pure con qualche dissenso e con qualche dubbio registrava «la freschezza e i tanti punti stimolanti» del volume di Croce; solo che essa entra nella parte viva del discorso solo dopo avere stigmatizzato quella introduzione dell’Ainslie, la quale
è una glorificazione di Croce e di tutte le sue opere. Viene salutato come “uno dei pochissimi grandi maestri dell’umanità…come il Colombo dell’Estetica”. Il signor Croce è apprezzato dai lettori inglesi come un critico di prim’ordine e come autore di un’opera sull’estetica che ha destato molta attenzione, ma pochi erano preparati a sentirlo lodare con un discorso così stravagante25.

Di non diverso tenore è quella che, a firma C.W. Valentine, apparve sul numero 76 dell’ottobre 1910 della rivista «Mind». Qui il recensore, che pure riconosce dei meriti all’Ainslie, «che è riuscito mirabilmente nella traduzione, nonostante l’asserzione di Croce che le traduzioni sono impossibili», non può fare a meno di rilevare che l’opera guadagnerebbe da «una prefazione meno laudativa».
Nonostante queste riserve nei riguardi dell’introduzione, e malgrado (o forse anche grazie ai) difetti traduttivi che intanto cominciavano ad essere additati dai giudici più rigorosi di quella traduzione26, il nome di Croce, e soprattutto le sue teorie estetiche acquisivano progressivamente un certo grado di notorietà negli ambienti culturali anglo-americani, e non solo in quelli accademici. Nel 1913, difatti, troviamo celebrati entrambi in sede narrativa, in The Joy of Youth, del romanziere e poligrafo inglese Eden Phillpotts (1862-1960). In questo romanzo che esalta l’amore per la natura, per la bellezza e per l’arte in generale, l’autore dedica un brano alle conquiste crociane in fatto di teoria estetica e di critica letteraria, che vale la pena riportare per intero:
È stato […] Benedetto Croce (devi leggerlo) a dire la parola vitale e a spazzare nel limbo tante concezioni erronee. Dal grande concetto che l’arte è espressione, si è levato più in alto ancora, al vangelo che tutte le espressioni sono arte. Questo significa dire addio alle regole e alle leggi e agli armamentari critici - le ciarle da domestiche, come le definì Montaigne tanto tempo fa. Tutto, allora, si regge o crolla da solo; tutto quanto appartiene alla singola opera giace al suo interno - un fatto, ovviamente, che fa piazza pulita di tutto il ciarpame27 critico che avvicina a un’opera d’arte viziato da pregiudizi politici religiosi e altro28.

Significativamente nelle pagine di questo romanzo, assieme a Croce, Phillpotts celebra la figura dello Spingarn; anzi il brano citato acquista ancora maggiore risonanza se lo si legge avendo in mente il passo di una famosa conferenza dal titolo “The New Criticism” dallo Spingarn tenuta alla Columbia University qualche anno prima, nel marzo del 1910. In questa conferenza lo studioso americano, si ricorderà, annunciava la nascita ufficiale di quella nuova corrente critica che tanta parte avrebbe avuto nella cultura letteraria angloamericana fino agli anni Cinquanta. Il “New Criticism”, almeno nella formulazione dello Spingarn, sposava il principio dell’arte come espressione, principio che nessuno ha liberato delle «confusioni e delle complicazioni» con la «lucidità, l’intelligenza e il vigore di un pensatore e critico italiano dei nostri giorni, Benedetto Croce [il quale] ha condotto il pensiero estetico inevitabilmente dal concetto che l’arte è espressione alla conclusione che ogni espressione è arte». Se questa teoria dell’espressione è accettata, lo studioso continuava, «il campo della critica verrà sgombrato dal mucchio di sterpaglie e di ciarpame che per secoli si è accumulato sulla vera identità della poesia»29.
Se la testimonianza del Phillpotts dimostra l’ingresso delle teorie estetiche crociane nell’ideologia letteraria degli scrittori di romanzi, alla dimensione pedagogica ci riconduce The Ultimate Belief, opera interessantissima ancorché poco conosciuta, pubblicata nel 1916 a New York dall’inglese Arthur Clutton-Brock. Critico d’arte autore di importanti studi su William Morris, lo studioso avversò il filisteismo e l’estetismo di cui vedeva intrisa la cultura tardo-vittoriana. Convinto che entrambi questi mali fossero il prodotto di una sensibilità utilitaristica incapace di proporre ideali educativi assoluti, il critico pensò che un’applicazione in sede educativa della filosofia dello Spirito, e segnatamente dei principi estetici crociani avrebbe potuto fungere da anticorpo potente anche in campo etico:
Il nostro sistema educativo è stato un fallimento sul piano estetico, forse, più che su qualsiasi altro piano, perché siamo meno consapevoli del valore assoluto dell’attività estetica di quanto lo siamo del valore assoluto delle altre due attività dello spirito. In genere si crede che l’attività estetica non sia punto un’attività dello spirito. Piuttosto si pensa che sia un divertimento troppo effeminato e debilitante per i virili ragazzi inglesi30.

A dire il vero, l’interpretazione che delle idee crociane dà lo studioso per una loro possibile utilizzazione per la riforma del sistema educativo inglese non sempre coglie nel segno; ma ai fini del nostro tema è importante il fatto che il critico riconosca tutto questo, assieme al debito che egli ammette di aver contratto con Croce. Ecco, difatti, quanto scrive nell’introduzione all’opera:
Quelli che conoscono l’Estetica di Benedetto Croce si accorgeranno che ho appreso tanto da lui in fatto di estetica. Si accorgeranno, forse, che in qualche punto mi allontano dal suo insegnamento. Ma di questo non sono tanto sicuro io stesso. Può darsi che io tiri solo le conclusioni che lui tirerebbe. In ogni caso, desidero riconoscere il mio debito verso di lui31
.
Accanto all’atteggiamento positivo di quanti riconoscevano la portata delle idee estetiche crociane e i vantaggi che queste potevano offrire per l’ammodernamento dei vetusti abiti metodologici ed epistemologici imperanti specialmente nella critica letteraria anglo-americana, è necessario registrare quello di studiosi e critici di opposto schieramento, che da Croce prendevano le distanze. Era uno schieramento che al proprio interno comprendeva chi quelle idee le rifiutava, sia pure tra fraintendimenti ed equivoci, dopo avere onestamente cercato di valutarle da un piano di civile confronto; e c’era invece chi affrontava la critica delle teorie crociane servendosi di alcune tesi, o piuttosto formule, che provenivano dall’Italia essendo in particolare lievitate dall’anticrocianesimo viscerale del Papini. Esemplificativo della posizione dei primi si può qui citare il saggio Croce’s Aesthetic (1919) col quale il Bosanquet intese misurarsi con le tesi crociane ma «sperando di non risultare disrespectful» nei confronti del suo collega italiano32. Esemplificativo del secondo atteggiamento si può invece indicare la prefazione che il Richards premise a B. Croce’s Aesthetic Applied to Literary Criticism (1922), un volumetto senza pretese di K.M. Khadye. In questa prefazione il critico fondatore del Practical Criticism passa in rassegna quelli che secondo lui sono i motivi più importanti della crescente fortuna delle teorie estetiche di Croce, anche nel mondo anglosassone. In parte, egli sostiene, questa fortuna è da ricondurre alla semplicità delle formule crociane (una fra tutte l’equazione arte-espressione), facili da ritenere, specialmente da parte di quelli che le recenti teorie educative hanno portato a esaltare il principio dell’autoespressione (“self-expression”) «principio intrinsecamente di virtù». In parte, ancora, essa va ricondotta al particolare periodo storico che, «alla ricerca spasmodica di forme nuove in tutte le arti, è disposto a dare il benvenuto a una concezione che, come quella di Croce, è ostile a canoni regolativi di ogni genere, e restia a permettere qualsiasi restrizione a quello che può o non può farsi nell’arte». Ma la disamina del Richards si fa per noi interessante quando il critico individua la causa secondo lui più importante della fortuna di Croce. Perché, egli dice, se si esamina più attentamente la natura dell’influenza delle tesi crociane, si dovrà ammettere che queste hanno avuto presa immediata solo sui pensatori e filosofi, francesi, inglesi, tedeschi, di second’ordine. Ignorato per lo più da quelli con solida preparazione filosofica, Croce è acclamato da tutti quelli che non hanno dimestichezza con la filosofia, quali letterati, artisti, dilettanti, critici militanti e lettori solo raramente in grado di giudicare senza l’aiuto di principi teorici33. Lo studioso va avanti nella sua disamina e individua altri elementi che secondo lui spiegherebbero la fortuna di Croce. Ai fini della nostra ricerca, però, è importante quanto egli ha testé ribadito, perché le sue argomentazioni recano una straordinaria somiglianza con quelle di cui il Papini si era servito in un piccolo saggio sull’Estetica di Croce, che, apparso come si sa in italiano qualche decennio prima, veniva in quello stesso 1922 riproposto al pubblico angloamericano nella raccolta Four and Twenty Minds, versione inglese di 24 cervelli34. Ad apertura di saggio, si ricorderà, il Papini ricorda con meraviglia che «ci sono anche oggi, in Italia, parecchi giovani di lettere, molti secondari professori di scuole secondarie e alcuni giornalisti flirteggianti colla filosofia, i quali danno sul serio una grande importanza a Benedetto Croce e alla sua Estetica».
Di non diverso tenore è la conclusione dello scritto, nella quale lo scrittore fiorentino dopo aver infierito contro «siffatto modo di pensare… siffatti pensieri… e una teoria che tentenna ad ogni pagina tra il non senso e il senso comune, tra la vuotaggine e la banalità», non può fare a meno di chiedersi «per quale ragione i libri di Croce abbiano avuto tanta fortuna», per concludere che la risposta va cercata nella «grande ignoranza filosofica degli italiani». Il Richards doveva avere tenuto presente questo scritto, perché la sua prefazione si muove, come si è visto, nello stesso ordine di idee del Papini. Del resto che lo scrittore fiorentino finisse per contribuire ad alimentare nel mondo anglosassone l’avversione a Croce è comprovato da un’altra opera significativa quanto pressoché sconosciuta, apparsa a New York col titolo The Anatomy of Criticism35. Poiché però quest’opera sarebbe stata pubblicata nel 1933, per non essere costretti a salti cronologici, e per il rispetto della necessità di dare un’idea della varietà degli orientamenti critici che in quegli anni si registravano nei riguardi del pensiero estetico di Croce, ci si soffermerà su un’operetta, anch’essa forse non molto conosciuta, pubblicata nel 1924 e che recava il titolo The Nature of Art: an Open Letter to the Professor of Poetry. Ne era autore J. Alexander Smith, decano degli studi filosofici al Magdalen College di Oxford36. Lo scritto che, come dice il titolo, è in forma di lettera aperta a chi è istituzionalmente preposto all’insegnamento della poesia, è una denuncia della pratica didattica che insistendo su elementi estrinseci e spuri, pretenda di giudicare la poesia facendo a meno di una teoria della stessa. Una teoria della poesia che sia giusta non ne ammette altre. La giusta teoria sulla poesia lui l’ha appresa da Croce, di cui si onora di essere interprete e discepolo. Croce ha sgombrato il campo da tutti i fraintendimenti e di tutte le erronee concezioni che per secoli hanno contraffatto l’identità della poesia. In particolare ne ha sottolineato l’essenza spirituale, la natura intuitiva, il carattere indivisibile e irripetibile; ne ha chiarito l’oggetto, che è «l’espressione di un individuale tanto individuale quanto se stesso»; e ne ha sottolineato il funzionamento attraverso l’impiego dell’immaginazione, la facoltà che coinvolge tutto il nostro essere, perché «se quello che facciamo nell’arte è immaginare, noi vediamo e sentiamo e gustiamo e odoriamo e tocchiamo tutto in una volta, con tutti i sensi in generale, e con nessuno in particolare»37.
Di segno completamente opposto era la valutazione che delle teorie crociane si dava in The Anatomy of Criticism, di cui si diceva. Era firmata da Henry Hazlitt (1894-1993), poligrafo ed economista statunitense a vocazione filosofico-letteraria. L’“anatomia” della critica letteraria che si attua nell’opera avviene attraverso un “trialogo”, tra tre interlocutori i cui nomi evocano ciascuno un esponente significativo dell’establishment letterario anglo-americano del tempo: Elder, professore di letteratura inglese, che rappresenta la “vecchia” classe accademica; Young, giovane critico letterario che recensisce libri per il «Daily Press»; Arthur, romanziere di grido. Modera il dibattito Middleton, “editor” di un mensile di filosofia e critica letteraria. I temi affrontati sono i più disparati, ma di particolare interesse ai nostri fini è il capitolo VIII, perché, come annuncia il titolo “Vivisecting Signor Croce”, gli interlocutori vi intendono “anatomizzare” il pensiero crociano. Il fatto che Young sostenga che tutte le teorie critiche sono false induce Elder a ritenere che forse il suo giovane interlocutore sia disposto a salvarne almeno qualcuna, per esempio quella di Croce. «Proprio il contrario», gli obietta invece il critico rampante, perché la riduzione crociana di arte ad espressione gli sembra proprio l’«illustrazione perfetta» del tentativo dei vecchi filosofi di ricondurre tutto a principi primi, che si chiamino «Unità», o «Legge», o «qualsiasi altra parola con la lettera maiuscola che sembra dare a costoro soddisfazione intellettuale e conforto emotivo». Significativamente, questa affermazione il giovane critico la sostiene facendo ricorso a citazioni dal volume di Papini, una cui copia è a portata di mano, pronta per essere consultata, nella biblioteca di Elder. Attraverso lo specchio ustorio dello scrittore fiorentino, dunque, il giovane critico americano procede a mettere a fuoco, per cauterizzarli in successione, quelli che secondo lui sono i limiti della concezione crociana dell’arte e della poesia. In particolare, la tendenza a circoscrivere l’identità dell’arte in una successione di tautologie e in un gioco di sinonimi; il carattere misticheggiante dell’intuizione; il procedere pontificale delle sue argomentazioni; il tono arrogante: tutto questo, egli conclude, giustificherebbe chiunque definisse il Croce «un confusionario o un ciarlatano»38. Apparentemente disturbato dalla «inurbanità» di quest’ultima affermazione, Elder dichiara tuttavia di condividere le tesi di Young, ma chiede anche il punto di vista di Middleton; che è lo stesso degli altri due interlocutori, perché anche in lui «l’avversione per il pensiero di Croce è profonda almeno quanto quella di Young». Con un ulteriore tentativo di mitigare la radicalità delle posizioni dei suoi interlocutori, Elder cerca di salvare «qualche perla dal mucchio di letame», isolando all’interno del sistema crociano quelli che potrebbero essere acquisti indiscutibili della riflessione filosofica moderna.Ma anche questa è un’abile mossa dell’autore per conferire un carattere di apparente serena e obiettiva discussione accademica ad un “trialogo” il cui esito è pregiudizialmente fissato in partenza.
Pregiudizio e faziosità come quelli di cui aveva dato prova l’autore del “Trialogo” furono fortunatamente un’eccezione nell’atteggiamento di quelli che valutavano le tesi di Croce pur senza condividerle. Come si è visto nel caso del Bosanquet la presa di distanza dal filosofo napoletano era in genere accompagnata dalla consapevolezza del critico di trovarsi di fronte un avversario di tutto rispetto. In qualche critico più intelligente, anzi, il dissenso su alcuni corollari della dottrina crociana non implicava il rifiuto dei postulati che la reggevano. Degno di essere citato al riguardo sembra il caso del critico ed estetologo Sir Herbert Read, autore, come si ricorderà, di una recensione nella quale veniva rimarcata la «sordità» di Croce in fatto di poesia e arte moderna. Apparsa sul numero di dicembre del 1933 della rivista «New Verse»39, la recensione prendeva spunto dalla pubblicazione della versione inglese della conferenza Difesa della poesia che Croce aveva tenuto aOxford qualche mese prima40. In questo scritto, come si sa, il filosofo aveva, tra l’altro, denunciato le nuove tendenze in campo poetico, le quali auspicando una «poesia pura» finivano per avallare una «impura concezione della purità poetica», nella quale
si prescinde, o si assevera di prescindere, in poesia, da ogni significato delle parole, e ci si attiene al mero suono, che per altro, privato del suo significato, non se ne rimane in questa solitudine di privazione, ma procaccia un certo proprio contenuto mercé la sua “suggestione”, la quale non induce nello spirito nessuna immagine determinata, ma apre la via a infinite immagini e pensieri, vari da lettore a lettore e da momento a momento, e legati l’uno all’altro coi fili della contiguità, del contrasto e di simili modi della cosiddetta associazione psicologica41.

Il rifiuto di riconoscere la cittadinanza artistica alla poesia “moderna” nel Croce era coerente col principio di identità intuizione/espressione che era alla base, come si sa, di tutto il suo sistema di pensiero; ma per il Read esso era il segno di una costitutiva «insensibilità» che avrebbe impedito al filosofo napoletano di apprezzare gli esiti più moderni della poesia e dell’arte. Eppure lo stesso studioso, in un volume pubblicato l’anno precedente aveva mostrato di condividere non solo quel principio di identità, ma aveva definito la concezione crociana del carattere intuitivo dell’arte «much more illuminating than any previous theory»42.
Il riferimento alla intuizione come categoria fondante del fatto estetico permette di citare due altre opere che nel corso degli anni Trenta diedero risonanza al nome di Croce nel mondo anglosassone. La prima si intitolava proprio Intuition, ed era uno studio di carattere storico filosofico sulle diverse accezioni e funzioni che il concetto di intuizione esplica in una serie di filosofi: Spinoza, Bergson, Jung, Whitehead, e, ovviamente in Croce, al quale è dedicato uno dei primi capitoli del volume. L’autrice discute con cognizione di causa la portata e le implicazioni del concetto d’intuizione elaborati nell’Estetica, nel Breviario d’Estetica e nella Logica, e anche se molte volte non si dichiara convinta (per esempio, dalla tesi che il prodotto finale dell’artista sia solo quantitativamente diverso dalle prime originarie intuizioni; o, ancora, dalla opposizione tra intuizione e concetto), mostra di cogliere in pieno il concetto crociano di intuizione quando lo riassume nei seguenti termini: «Il signor Croce, dunque, come tanti altri filosofi, coglie l’ultimo e inesplicabile miracolo che avviene nella percezione, quando il meccanico diventa parte dello spirituale, quando l’impressione diventa espressione, quando il fatto diventa conoscenza, e chiama questo processo intuizione»43.
Molto più ricca e complessa la testimonianza della seconda opera che verso la fine degli anni Trenta diede risonanza al pensiero estetico di Croce nei paesi di lingua inglese. Ci riferiamo a The Principles of Art pubblicata nel 1938 dallo storico e filosofo George Robin Collingwood, l’«amico e compagno di pensiero e di fede» secondo il ricordo che di lui trasmise lo stesso Croce44.
Come è risaputo, lo studioso inglese, allievo dello Smith, si era avvicinato fin da giovane al pensiero del napoletano, tanto che nel 1912-13 aveva tradotto La filosofia di G.B. Vico. Successivamente, nel 1922, aveva rivisto, o rifatto ex novo, la traduzione dell’Estetica dell’Ainslie ormai considerata improponibile per una nuova edizione dell’opera45. Nel 1926 aveva tradotto per la Clarendon Press il Contributo alla critica di me stesso (pubblicato nel 1927 col titolo An Autobiography), e l’Aesthetica in nuce, col titolo Aesthetics per la quattordicesima edizione della Encyclopedia Britannica. Questo impegno traduttivo non era che parte infinitesimale di una ricca e intensa attività didattica e di ricerca, che quando non si riversava nello studio dei reperti archeologici della civiltà romana in Inghilterra, sosteneva e alimentava due grandi interessi speculativi che appassionarono il Collingwood per tutta la vita: l’arte e la storia. Da questi interessi nacquero moltissime opere tra le quali non si può non citare almeno Speculum mentis or the Map of Knowledge (1924), Outlines of a Philosophy of Art (1925), The Principles of Art (1938) An Autobiography (1939), The Idea of History (che apparve postuma). Sono opere che si muovono tutte, e in vario grado, nell’orbita della speculazione crociana, ma la libertà ed originalità di lettura di cui dà prova il loro autore è notevole, e non poche volte arricchisce la lezione del maestro di potenzialità insospettate46. Tutto questo ovviamente è tanto più da apprezzare nel momento in cui il pensiero filosofico, e segnatamente a Oxford e Cambridge, chiudendosi a riccio contro lo storicismo, si consegnava quasi universalmente al metodo analitico.
Un esempio eloquente di questa capacità del Collingwood di seguire la lezione del napoletano simultaneamente con fedeltà e libertà interpretativa, e di approfondirla rivendicando il diritto alla specificità della sua prospettiva ermeneutica, è rappresentato proprio da The Principles of Art. Significativamente, nella lettera con la quale preannunciava al Croce l’arrivo di una copia del volume, lo studioso inglese riconosceva il debito «(troppo grande e troppo complesso da mai essere riconosciuto nei particolari), che io ho con voi in ogni parte del pensiero e più specialmente nell’estetica». In quel volume, egli continuava ancora, «la dottrina esposta è in tutto l’essenziale, la vostra stessa ed io l’ho appresa da voi e ricostruita nella mia mente, in termini della mia propria esperienza lungo un periodo di vent’anni […] perché il mio tema centrale è l’identità di arte e linguaggio e il mio libro è nient’altro che l’esposizione di questo tema e di alcune conseguenze[…] in pochi particolari ho modificato o anche contrastato dottrine sostenute nella vostra originale Estetica, ma sempre stimando che le mie modificazioni sono fedeli allo spirito della vostra opera e ai principi ai quali voi avete dato l’espressione classica»47. Ma l’importanza di quest’opera ai fini del nostro discorso non sta tanto nell’entità del debito contratto dallo studioso inglese con il pensiero estetico del Croce in senso lato, quanto nel tentativo dell’inglese di sondare e sancire l’applicabilità del metodo crociano alle opere artistico-letterarie generate dalla sensibilità europea tra le due guerre, quelle per le quali, lo abbiamo visto, il Croce si era guadagnato la nomea di filosofo “sordo”. Non a caso forse la trattazione in The Principles of Art si chiude con una disamina di The Waste Land di Eliot, con argomentazioni che Croce sicuramente non avrebbe avuto difficoltà a sottoscrivere in pieno, e che riportiamo per intero anche a conclusione del nostro discorso.
Ai lettori che nell’arte non ricercano «il facile svago, o la magia, e che vogliono capire la possibile natura della poesia, sostiene dunque il Collingwood, la risposta è offerta da The Waste Land». La risposta è che la poesia deve avere valore «profetico»; non però, si affretta subito a precisare, nel senso che l’artista debba predire le cose a venire, ma nel senso che deve «suo malgrado, svelare al pubblico i segreti dei loro cuori». Il compito dell’artista è rivelare, «svuotare il sacco. Ma quello che deve proclamare, non sono, come vorrebbe farci credere la teoria individualistica dell’arte, i suoi segreti. Come portavoce della sua comunità, i segreti che deve svelare sono quelli di tutti. La ragione per la quale loro hanno bisogno di lui è che nessuna comunità presa nel suo insieme conosce il proprio cuore; e con il venir meno di questa conoscenza una comunità si inganna sull’unico argomento la cui ignoranza significa la morte. Per i mali che provengono da quella ignoranza, il poeta in quanto profeta non suggerisce rimedi, perché ne ha già dato uno. Il rimedio è la poesia stessa. L’arte è la medicina di una comunità per il peggiore male dello spirito, la corruzione della coscienza»48.









NOTE
1 E. Cutinelli Rendina (a cura di), Carteggio Croce-Spingarn, Bologna, il Mulino, 2001, p. 6. Il testo crociano al quale allude lo Spingarn è La critica letteraria. Questioni teoriche, pubblicato nel 1896.^
2 Ivi, p. 14.^
3 Ivi, p. 16.^
4 Ivi, p. 22.^
5 Cfr. lettera allo Spingarn del 7/6/1903.^
6 Cito dall’edizione dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale curata da G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990, p. 178.^
7 G. Santayana, Croce’s Aesthetics, in «Journal of Comparative Literature», vol. 1, n° 2, april-june 1903, p. 191. Trad. mia.^
8 Ivi, p. 195. Trad. mia.^
9 V. lettera a Spingarn del 13maggio 1903, e del 25 maggio dello stesso anno a Vossler (E. Cutinelli Rendina, a cura di,), Carteggio Croce-Vossler 1899-1949, Napoli, Bibliopolis 1991, p. 40.^
10 Lo scritto è presente nella raccolta Obiter scripta.^
11 Per questo aspetto mi sono avvalso di D.D. Roberts, Croce in America: Influence, Misunderstanding, and Neglect, in «Humanitas», vol. VIII, N° 2, 1995.Non si può non riferire qui, però, il fatto che in una lettera del 6 marzo 1941 al filosofo Arthur Schilpp che lo aveva invitato a contribuire con un suo scritto a un libro su Croce, il Santayana rispose che non poteva accettare, poiché «dei libri di Croce riteneva di non sapere abbastanza per scriverne». Cfr. W.G. Holzberger [Ed. by], The Letters of George Santayana. Book Seven: 1941-1947, Massachusets Institute of Technology, 2006.Ma si confronti anche quanto fa rilevare M.E.Moss [Ed. by], Benedetto Croce: Essays on Literature and Literary Criticism, State University of New York Press, Albany, 1990, p. 20.^
12 Nella lettera al Vossler del 13 maggio, il proponimento di rispondere al Santayana, «se ne avrò voglia», viene seguito dall’osservazione «Non è cosa divertente, ma bisogna proteggere i propri figliuoli dopo averli messi al mondo».^
13 Carteggio Croce-Spingarn, cit., p. 79.^
14 La lettera si conserva nell’archivio Croce.^
15 Proprio recentemente A. Dawson (The Identification of Ainslie, in «The Magic Door», vol. 14, n° 2 Summer 2012) ha individuato nell’Ainslie il destinatario di molte missive di Conan Doyle. Nell’archivio Croce è conservata una lettera in francese dell’Ainslie, datata 26 gennaio 1908, nella quale egli si definisce «ami de Walter Pater».^
16 D. Ainslie, Mirage: Poems, London, 1911, p. IX.^
17 Ivi, p. X.^
18 B. Croce, Nuove pagine sparse, serie II, Napoli, Ricciardi, 1948, vol. I, p. 26.^
19 Ibidem.^
20 Nel commentare l’edizione, lo Spingarn si disse dispiaciuto che la parte storica fosse stata «emasculated». Cfr. Carteggio Croce Spingarn, cit., p. 83.^
21 Tutte le citazioni sono tratte dalla prima edizione del 1909. La traduzione è mia.^
22 Significativamente tutti questi panegirici furono espunti dalla prefazione alla seconda edizione che, riveduta e corretta (o rifatta?) dal Collingwood, fu pubblicata nel 1922. V. qui nota n° 45.^
23 La lettera è presente nell’Archivio Croce.^
24 Vale forse la pena di ricordare a proposito che questo atteggiamento dell’Ainslie si sarebbe replicato anche nelle prefazioni ad altre traduzioni. Per esempio, in quella della Logica come scienza del concetto puro, nel 1917, il traduttore, dopo aver detto che quel «capolavoro sostituisce e supera tutte le Logiche che si sono avute finora», si augura che esso «possa servire a mostrare al mondo anglosassone dove giace il futuro della civiltà mondiale, e cioè nella antica linea di discendenza della cultura latina, che include in sé il più alto pensiero ellenico». Stessa esagerazione è da leggere nella prefazione alla traduzione di Ariosto, Shakespeare e Corneille nella quale del saggio crociano viene detto che «così originale e così profondo […] servirà da guida a generazioni ancora non nate […] e inaugurerà ovunque una nuova era nel campo della critica letteraria». La prefazione si attirò giustamente gli strali del Robertson il quale in Croce as Shakespearean Critic (1922) ribadì che «Croce non aveva bisogno di tali strombazzate per guadagnarsi la nostra rispettosa attenzione, e che Ainslie avrebbe fatto meglio a servire il suo eminente maestro attenendosi con più scrupolosa attenzione al lavoro di traduzione».^
25 Sulla rivista «The Journal of Philosophy, Psychology and Scientific Methods», vol. 7, n° 18, September 1910.^
26 Significativo, al riguardo, mi sembra quello che lo stesso Spingarn scrisse a Croce a proposito della traduzione dell’Ainslie in data 12 dicembre 1909. «Ainslie’s work is very dilettantish, and yet (this is my hope) it may reach the wider cultivated audience on that account». Cfr. Carteggio Croce-Spingarn, cit., p. 84. Questo giudizio diventò ancora più severo qualche anno dopo, nel 1918, in The Rich Storehouse of Croce’s Thought, una recensione apparsa sul numero LXIV della rivista «The Dial» e con la quale lo Spingarn salutava l’uscita di W. Carr, The Philosophy of B. Croce: The Problem of Art and History, uno dei primi studi sistematici dedicati alla filosofia crociana da uno studioso di lingua inglese. Nella recensione lo Spingarn definisce Croce «sfortunato per il modo in cui è stato presentato al pubblico di lingua inglese. I suoi libri sono stati tradotti in un gergo che non solo è una caricatura del suo stile lucido e penetrante, ma a volte non si può definire nemmeno inglese».^
27 Forse vale la pena ricordare che con lo stesso titolo The New Criticism John Crowe Ransom pubblicò nel 1939 un volume di saggi che arricchiva il panorama critico di apporti e suggestioni che non sempre si muovevano secondo la linea Croce-Spingarn.^
28 E. Phillpotts, The Joy of Youth, Boston, 1913, pp. 129-130. Poco oltre vengono ricordati anche i meriti dello Spingarn.^
29 I.N. Spingarn, The new Criticism: Lecture Delivered at Columbia University, Norwood Press, Norwood, 1911, pp. 18-19.^
30 A. Clutton-Brock, The Ultimate Belief, New York 1916, p. 100. Trad. mia. Va segnalato che questo studioso ammirò anche Croce come critico shakespeareano, come risulta da Essays on Life and Literature, pubblicata a Londra nel 1926, un cui capitolo è intitolato “The Razor of Croce”.^
31 Ivi, p. 19.^
32 Come ci informa lo stesso Croce, a dargli man forte contro le critiche del Bosanquet provvide un altro inglese, il critico teatrale Walkley. Cfr. B. Croce, In commemorazione di un amico inglese, compagno di pensiero e di fede, in Nuove pagine sparse, cit., p. 27; Idem, Lettere di Bernardo Bosanquet in «La Critica», n° 34, 1936.^
33 Cfr. K.M. Khadye, B. Croce’s Aesthetic Applied to Literary Criticism, 1922.^
34 Per precisione di riferimenti va detto che il Papini in questo saggio criticava il Breviario di Estetica.^
35 Come si vede, l’opera anticipava, almeno nel titolo, quella che Northrop Frye avrebbe pubblicato una trentina d’anni dopo come Anatomy of Criticism.^
36 Come si ricorderà, in questo ambiente culturale, secondato proprio dallo Smith e dal Collingwood, si sviluppò un enorme interesse per la speculazione crociana. Al Magdalen il filosofo napoletano fu invitato tre volte: nel 1923, per esservi insignito della laurea honoris causa; nel 1930, quando partecipò al Settimo Congresso Internazionale di Filosofia con la conferenza “Antistoricismo”; nel 1933, quando tenne la conferenza “Difesa della poesia”. Per una ricostruzione del clima culturale imperante al Magdalen in quegli anni, e in particolare per comprendere l’atteggiamento dell’establishment accademico nei riguardi di Croce,mi permetto di rinviare a J. Patrick, TheMagdalen Metaphysicals: Idealism and Orthodoxy at Oxford 1901-1945, Mercer University Press, 1985.^
37 J.A. Smith, The Nature of Art: an Open Letter to the Professor of Poetry, Oxford, 1924, p. 20. Per l’importanza di quest’opera come testimonianza del ruolo dell’Estetica a Oxford negli anni ’20 si veda ancheM. Iritano, “Picture Thinking”, in Aa. Vv., Robin George Collingwood e la formazione estetica, Atti del Convegno di Napoli, giugno 2006, vol. 1, p. 88.^
38 H. Hazlitt, The Anatomy of Criticism: A Trialogue, New York, 1933, pp. 191-192.^
39 Come suggerisce il titolo la rivista pubblicava la produzione dell’avanguardia poetica inglese e americana, da Windham Lewis a Eliot, da Pound al Mac Neice, da Spender a Auden.^
40 La conferenza fu tradotta dal prof. F.F. Carritt col titolo The Defence of Poetry: Variations on the Theme of Shelley.^
41 Cito dall’edizione della Difesa raccolta in Ultimi saggi, 1948, p. 70.^
42 H. Read, The Anatomy of Art, New York, 1932, p. 17. Nella edizione inglese dell’anno successivo, quest’opera avrebbe assunto il titolo The Meaning of Art.^
43 E.K. Wild, Intuition, Cambridge University Press, 1938, p. 49.^
44 Nuove pagine sparse, cit., pp. 27-49.^
45 Se questa nuova edizione recava sempre il nome dell’Ainslie come traduttore, ciò era dovuto a motivi legali. Traducendo La filosofia di G.B. Vico, in effetti, il Collingwood aveva violato la legge sul copyright. Per compensare questo “infringement” la MacMillan aveva ottenuto che il Collingwood lavorasse in incognito. Devo queste notizie al prof. David Boucher, director of “The Collingwood and British Idealism Centre” operante presso l’università di Cardiff.^
46 Sulla rilevanza delle opere del “primo” Collingwood, tra gli studi italiani più recenti si segnalano:M. Iritano, Picture Thinking: Estetica e Filosofia della Religione nei primi scritti di R. Collingwood, Rubbettino, 2006; Aa.Vv., Robin George Collingwood e la formazione estetica: Atti del Convegno di Napoli Giugno 2006, Napoli, 2007.^
47 Dalla lettera a Croce del 20 maggio 1938. Cfr. B. Croce, Nuove pagine sparse, cit., pp. 32-33. Le altre lettere (22) con una del Croce si possono leggere in A. Vigorelli (a cura di), Lettere di Robin George Collingwood a Benedetto Croce, in «Rivista di Storia della Filosofia», n. 46, 1991.^
48 R.G. Collingwood, The Principles of Art, Oxford Univ. Press, London, 1970, pp. 336 et passim. Trad. mia.^
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