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La strana concezione degli ammortizzatori sociali
di Mario Rusciano
1. In questo periodo di grave crisi economica e sociale, con conseguente perdita di un gran numero di posti di lavoro soprattutto nel Mezzogiorno – si parla molto di “ammortizzatori sociali” dal punto di vista economico-finanziario e molto meno della logica in cui collocarne l’indispensabile funzione, appunto, “sociale”.
Perciò vale la pena chiarire qualche aspetto di fondo; e di farlo partendo, banalmente, da una definizione elementare di “ammortizzatore sociale”, inteso come qualsiasi misura volta a fronteggiare e attutire i drammatici contraccolpi sui lavoratori di fenomeni negativi per l’impresa e socialmente pericolosi, causati da scelte organizzative e produttive o di politica economica (e talvolta da calamità naturali). Negativi tanto per l’organizzazione produttiva delle aziende quanto per il sistema economico di un territorio, che non può prosperare se non in un ordinato contesto di stabilità e di tranquillità sociale (più o meno relativa) del sistema medesimo. Pericolosi sia per lo stato di bisogno in cui vengono a trovarsi i beneficiari delle misure, sia per la convivenza civile e per l’ordine pubblico, cioè per l’interesse della collettività nel suo complesso.
Il concetto di “ammortizzatore sociale” finisce dunque con l’essere, specie per il giurista, molto ampio e generico, per non dire ambiguo, e comunque dal significato polisenso. Questo capita quando un termine viene sbrigativamente mutuato dal lessico sociologico, economico o sindacale. Tuttavia questo termine è ormai entrato nel linguaggio corrente e lo stesso legislatore ha finito col consacrarlo giuridicamente, circoscrivendone però il significato a quegli interventi monetari – di cui si fa carico (in prevalenza) il bilancio pubblico – per sostenere il reddito di quanti non possono percepire una retribuzione, poiché allontanati dal lavoro (temporaneamente o definitivamente) per una qualsiasi ragione legata al cattivo andamento del ciclo economico e che si riverbera sui risultati produttivi dell’impresa.
Partendo però dal concetto in senso lato, forse è utile ricordare in apicibus che, per le sue radici storiche e per la sua evoluzione, lo stesso diritto del lavoro si può considerare ontologicamente il vero grande “ammortizzatore sociale” del ventesimo secolo. Nel tutelare chi, per sopravvivere, è costretto a dipendere da (o a coordinarsi con) un’organizzazione altrui, cui presta le proprie energie psico-fisiche nelle forme più diverse, il diritto del lavoro esprime tuttora la carica sociale della sua ratio originaria: apprestare misure di tutela onde evitare che l’esasperazione e il rivendicazionismo di chi lavora (all’inizio soprattutto dei contadini e degli operai ipersfruttati) compromettano la crescita del capitalismo, che procede in parallelo con lo sviluppo industriale. Dalle prime leggi sul lavoro (specie per donne e fanciulli e sulle limitazioni per tutti dell’orario di lavoro) fino a quelle dei giorni nostri, pur se con alterne vicende, è tutto un susseguirsi di misure – molte delle quali stimolate dagli stessi lavoratori, attraverso le loro lotte e le loro rappresentanze sindacali – tese ad umanizzare ogni tipo di prestazione d’opera personale e a conciliare, per quanto possibile, vita e lavoro.



2. Dai primi anni del secolo scorso in poimolta acqua ha cominciato a scorrere sotto i ponti. Si pensi, ad esempio, alle progressive conquiste del c. d. Welfare, nato anch’esso come ammortizzatore sociale per tener conto appunto delle esigenze vitali della persona che lavora: dalla tutela della maternità all’assistenza sanitaria, agli asili nido e via di questo passo.
Eppure oggi si parla degli ammortizzatori sociali quasi nell’unico senso delle misure a sostegno del reddito, benché negli stessi testi normativi queste misure vengano associate immediatamente (ma quasi sempre solo a parole) alle misure a sostegno del lavoro e dell’occupazione. E difatti anche l’ultimo disegno di legge delega, attualmente in discussione, mette assieme Disposizioni in materia di ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro e politiche attive del lavoro (al capo I).
A voler essere precisi, bisogna anzi dire che, nella disastrosa congiuntura economica che attraversiamo, l’espansione progressiva delle misure per il reddito – seguendo un percorso che parte dalla Cassa Integrazione “ordinaria”, passa per la Cassa Integrazione “straordinaria” e arriva infine alla Cassa Integrazione “in deroga” – ha in pratica finito per lasciare in ombra le misure a sostegno dell’occupazione e del lavoro vero e proprio, cioè appunto quelle che si è soliti chiamare le “politiche attive”. Tanto che ormai, appena si parla di interventi incisivi nel mercato del lavoro per far fronte all’aumento inarrestabile della disoccupazione, ad altro non si pensa che alla estensione della Cassa integrazione a tutte le categorie di dipendenti e a tutte le imprese in difficoltà (le c. d. politiche passive).
Ma a dire il vero, in quella parte più o meno recente della nostra storia economica sul lavoro, si ritrovano forme di ammortizzazione sociale (non dichiarate, o addirittura camuffate) legate a precise (ma tutt’altro che felici) scelte di politica economica, delle quali il nostro paese ancora paga le conseguenze perniciose. E non è un caso che tutti tali ammortizzatori sociali per così dire “impropri” siano sempre legati all’acquisizione di consenso politico da parte di partiti e di uomini di governo e riguardino per lo più il Mezzogiorno d’Italia. Ma questo è un aspetto che meriterebbe una trattazione a parte; ora ci porterebbe fuori strada, sebbene non sia estraneo alla problematica di cui ci occupiamo. Se non altro perché talvolta è addirittura la stessa politica a fare da ammortizzatore sociale: non solo attraverso il finanziamento pubblico dei partiti, ma soprattutto attraverso la penetrazione nelle istituzioni e nelle amministrazioni pubbliche, specie degli enti locali e delle c. d. società partecipate.
Questo d’altronde è un vecchio discorso. Possiamo ricordare, ad esempio, la scelta – implicita ma chiara, specie nel secondo dopo-guerra – di fare del “pubblico impiego” una spugna per assorbire la disoccupazione meridionale e agevolare così (in aggiunta all’emigrazione dal Sud al Nord), l’industrializzazione dell’Italia settentrionale. Ed ancora, si pensi alla scelta di concedere con leggerezza a soggetti deboli sul mercato del lavoro pensioni sociali e pensioni di invalidità (sempre e specialmente nel Mezzogiorno): un’altra forma camuffata di ammortizzatore sociale, di cui ora tutti giustamente si scandalizzano.
Come non ricordare, inoltre, i c. d. “lavori socialmente utili”, nati da un’idea di marca keynesiana, tutto sommato neppure tanto peregrina, arenatasi però a causa dell’incapacità del potere pubblico di gestirne proficuamente e con il dovuto rigore l’organizzazione; sicché tali lavori, alla fine, sono stati avviati sul binario morto del puro assistenzialismo. Rimane tuttora, a questo proposito, il mistero del perché si siano spesi e si spendano tanti soldi in sussidi e non si riesca ad utilizzare le tante persone “assistite”, specialmente nel Mezzogiorno, come risorse per far fronte ai tanti bisogni della collettività (ad esempio: valorizzazione dei beni culturali con l’apertura e la vigilanza di musei, chiese e dimore storiche, siti archeologici ecc.; e ancora: manutenzione urbana; recupero di centri storici; servizi sociali; assistenza ai disabili ecc.). Insomma il mistero del perché la collettività debba accollarsi il costo di un assistenzialismo diffuso e debba farlo a fondo perduto, senza avere nulla in cambio. Laddove lo scambio potrebbe tranquillamente avvenire sotto la forma, poniamo, di una sorta di servizio civile, ferma restando l’equa proporzione tra prestazione del servizio e indennità percepita.
Che dire, infine, della folle idea di trasformare in ammortizzatore sociale addirittura la formazione, vale a dire uno dei più importanti fattori della crescita e dello sviluppo economico nei paesi di capitalismo maturo. È da tempo che esistono in tutta Italia, ma sempre specialmente al Sud, finti corsi di formazione. A cominciare dai vecchi “cantieri-scuola”: attraverso i quali, oltre a corrispondere indennità ai corsisti, si è riusciti (e purtroppo in parte ancora si riesce) a “sistemare” tanti formatori (veri o presunti). E ritorna qui il discorso dei costi della politica per la collettività!
Una forma parecchio anomala di ammortizzatore sociale si può infine individuare persino nella diffusa pratica del c. d. lavoro sommerso o lavoro nero, che spesso viene alimentato proprio dall’assistenzialismo di Stato. Ma anche questo è un capitolo a parte, sul quale non ci si può qui soffermare. Si deve dire però, non senza una punta di preoccupazione, che nel Mezzogiorno la situazione sociale sarebbe ancora più esplosiva se non ci fosse una dose massiccia di lavoro nero, più o meno nascosto, ma, tutto sommato, ampiamente tollerato: se non altro perché percepito, alla fin dei conti, appunto come ammortizzatore sociale.



3. Ma come dicevo, appena si esce dal generico, per ammortizzatori sociali si intendono quasi esclusivamente i vari tipi di indennità comunque riconducibili alla logica di fondo della Cassa Integrazione Guadagni, pur se nel tempo con nomi e meccanismi diversi (come nel caso della c. d. “indennità di mobilità” o, più di recente, della c. d. Aspi). Si sa che, in origine, la Cassa risponde alla semplice (e giusta) logica prevalentemente previdenziale, alla stregua dell’art. 38 della Costituzione: quella di assicurare i lavoratori dal rischio di una sospensione temporanea dal lavoro, causata dalla contrazione della domanda di prodotti di una certa impresa sul mercato. Ovviamente, nel garantire i lavoratori, la Cassa Integrazione viene incontro pure all’interesse dell’impresa a non sopportare i costi del lavoro in periodi di rallentamento (o addirittura di sospensione) della produzione e, di conseguenza, a non diminuire i profitti. E difatti la CIG si alimenta con i contributi a carico tanto dei lavoratori quanto delle imprese, oltre che dello Stato.
Un punto da non trascurare, specie quando si parla della Cassa Integrazione ordinaria, è la sua compresenza con il “lavoro a tempo parziale” e con i “contratti di solidarietà”. Questi, assieme alla “redistribuzione dell’orario di lavoro” e alla “rotazione” dei lavoratori cassintegrati, sono l’esempio della c. d. “flessibilità buona”. E configurano un quadro virtuoso dell’ammortizzazione sociale: con il quale, nel sostenere temporaneamente il reddito del lavoratore che, sempre temporaneamente, non viene utilizzato, gli si conserva il rapporto di lavoro e si evita di prolungarne per troppo tempo la lontananza dall’impresa. Se in contemporanea ci fosse anche una vera formazione per la riconversione professionale dei cassintegrati, il quadro virtuoso si potrebbe dire (ma purtroppo non si può dire) completo.



4. Il discorso si fa più complicato quando le crisi di mercato, da cicliche e sporadiche, divengono endemiche, fino a comportare talora la scomparsa di molte imprese dal mercato: con massicce ristrutturazioni aziendali e con altrettanti esuberi di personale. La Cassa Integrazione, da ordinaria, diventa straordinaria. Di solito, in tale forma, essa si accompagna anche ai c. d. “prepensionamenti”, perché sostiene il reddito dei lavoratori (vicini all’età pensionabile) fino al momento in cui costoro maturano il diritto alla pensione. Salvo che non si commettano errori madornali, come quello recente dei c. d. “esodati”, cioè di quel cospicuo numero di persone – addirittura non quantificabile – che si è trovato privo di reddito: allontanato dal lavoro, infatti, si è scoperto “non pensionabile”.
Ma l’intervento della Cassa, comunque, perde pian piano il suo carattere di eccezionalità per diventare un intervento di puro sostegno del reddito, anzitutto nei molti casi in cui, per i beneficiari, non c’è alcuna prospettiva di reimpiego. Ed anche qui ritorna il discorso della necessità di un efficiente sistema di formazione e riconversione professionale.
Certo, un conto è che la collettività si accolli l’onere del mantenimento di dipendenti da imprese ormai decotte e irrecuperabili; un altro conto è che vengano mantenuti lavoratori in esubero per consentire alle aziende di ristrutturarsi e di realizzare nuovi piani industriali. Tanto è vero che, in questo secondo caso, ovviamente preferibile, si può dire che cambi addirittura il riferimento costituzionale: da ricercare non tanto nell’art. 38 quanto piuttosto nell’art. 41 della Costituzione. Con la non piccola variante, però, che è soprattutto lo Stato a farsi carico dell’onere di assicurare che l’esercizio della libertà d’impresa, contemplata dal 1° comma di tale disposizione, non sia “in contrasto con l’utilità sociale” e non arrechi «danno alla sicurezza, libertà e dignità umana» (di cui parla il 2° comma). Come dire che lo Stato interviene sì a tutela dei lavoratori, ma lo fa per salvaguardare anche la libertà d’impresa e il livello dei profitti: nella speranza di incentivare possibili – benché soltanto promessi e quindi non sicuri – nuovi investimenti e di mantenere l’occupazione. Perciò, a questo proposito, non di rado si dice che gli imprenditori tendono a privatizzare i profitti e a socializzare le perdite.



5. Oggi come oggi, a seguito dei fattori che tutti mettono in luce quando parlano di un nuovo mondo dell’impresa e del lavoro – la trasformazione dell’organizzazione produttiva dovuta all’evoluzione tecnologica, alla globalizzazione e ad una crisi economica senza precedenti che ci affligge da più di sette anni – la situazione appare in effetti del tutto mutata. Le crisi aziendali ormai non si contano più: sono frequenti e strutturali. Molte imprese chiudono, altre passano di mano, altre ancora trasferiscono la produzione all’estero, rami d’azienda vengono esternalizzati ecc.. In tutti questi casi spicca anzitutto il taglio dei costi dell’impresa e – guarda caso – i primi tagli riguardano sempre il personale, talora persino di livello manageriale. Nel Mezzogiorno poi la c. d. deindustrializzazione si trasforma in un vero e proprio tracollo industriale.
Per altro verso, è bene avere consapevolezza – pur senza arrivare a condividere il paradosso di Rifkin sulla “fine del lavoro” – che tutti questi cambiamenti comportano, comunque e inevitabilmente, una diminuzione per così dire fisiologica del lavoro, caratteristica della società post-industriale. Perciò a dominare sempre più lo scenario degli ammortizzatori sociali è la Cassa integrazione in deroga, il cui costo è completamente a carico dello Stato ed assorbe risorse immense. Di modo che gli ammortizzatori sociali, dovendo fronteggiare soprattutto la c. d. «flessibilità in uscita senza alcuna plausibile prospettiva di reimpiego», sono destinati a perdere la loro natura previdenziale e ad assumere definitivamente natura assistenziale. È vero che aumenta pure l’intervento della Cassa integrazione in costanza di rapporto di lavoro (ordinaria e straordinaria), ma il suo aumento non è paragonabile a quello della Cassa integrazione in deroga. E si sa che l’assistenzialismo è comunque un fenomeno esiziale: non fa crescere l’economia, non fa crescere professionalmente le persone e, da ultimo (ma non per importanza), impoverisce la democrazia. Senza dire che l’inevitabile contrazione delle risorse finanziare costringe ad una continua e spasmodica ricerca di copertura dei costi della Cassa integrazione in deroga: con il conseguente distogliere ingenti somme ed energie dagli investimenti produttivi alle misure assistenziali.



6. Si capisce allora perché è oggi necessario recuperare il senso proprio degli ammortizzatori sociali, al di là della pura corresponsione di un reddito a quanti perdono il lavoro “per fatto dell’impresa”. A ben vedere, per seguire con coerenza il cambiamento del sistema produttivo in tutte le sue implicazioni, è necessario allargare il discorso, inventando una nuova politica del lavoro, della quale quella degli ammortizzatori sociali costituisce soltanto un aspetto, importante ma non assorbente. Come dire che non può esistere una filosofia degli ammortizzatori sociali estranea alla filosofia del diritto del lavoro e che quest’ultima, a sua volta, non può essere disgiunta dalla filosofia di un vasto e razionale progetto di politica economica. Un progetto nel quale non si accetti supinamente il pensiero unico neo-liberista – tuttora dominante, seppure criticato, non solo in Italia – secondo cui le regole di tutela del lavoro costituiscono il maggiore ostacolo alla crescita e alla competitività: tanto da auspicarne la lenta destrutturazione fino, in pratica, all’abolizione, magari mediante mostruose tecniche giuridiche (come, ad esempio, quella allestita dall’art. 8 della legge 148 del 2011, che affida ad una non meglio identificata “contrattazione di prossimità” lo smantellamento dei diritti dei lavoratori).
In una parola, occorre un progetto che elimini ovviamente i privilegi e le iperprotezioni immotivate, ma riconosca al diritto del lavoro la sua funzione costituzionale di ordinamento che serve a mantenere in costante equilibrio, con spirito storicista, tutela del lavoro e interesse dell’impresa.
Se infatti si considerano gli ammortizzatori sociali null’altro che un costosissimo alibi dell’incapacità di progettare la crescita mediante la strada delle politiche attive nel mercato del lavoro, e ci si trincera dietro un asfittico assistenzialismo di Stato, si cade nel paradosso di preferire la difesa della disoccupazione alla difesa del lavoro.



7. Perciò si rimane perplessi di fronte agli interventi di riforma degli ammortizzatori sociali. Interventi che si susseguono senza sosta l’uno dopo l’altro, con l’ossessione di “riordinarli” (e difatti anche la legge delega in discussione insiste sul “riordino”). Come se non bastasse, spesso si aggiunge quell’espressione che – chissà se per amara ironia – accompagna ormai quasi ogni grande riforma, non solo in materia di lavoro (ma che indirettamente tocca pur sempre anche il lavoro): «senza ulteriori oneri a carico della finanza pubblica». In sostanza, si ignora – o si finge di ignorare – che, per mantenere migliaia e migliaia di lavoratori vittime della continua voragine di posti di lavoro, non possono che aumentare le esigenze finanziarie della Cassa integrazione in deroga.
Non parliamo poi se davvero si arrivasse a istituire il c. d. “reddito minimo di cittadinanza”: un intervento importante, certo, per il contrasto alla povertà, ma da introdurre con cautela, contestualizzandone la corresponsione a seconda dei vari settori produttivi e dei diversi territori. Perché, andando ben al di là della protezione economica del solo lavoro “dipendente”, data la sua caratteristica di “universalità”, comporta enormi stanziamenti pubblici di assistenza sociale.
Una cosa è certa: non ha senso parlare di universalità della protezione assistenziale senza affrontare realmente i nodi vecchi e nuovi della politica economica, dai quali dipendono a cascata sia i veri problemi del mercato del lavoro sia le tecniche di ammortizzazione sociale. Si stenta a credere che, per limitare gli effetti negativi di un processo complicato come il calo della domanda e della produzione, e quindi dell’occupazione – aggravati dalla crisi globale – gli ammortizzatori sociali possano risolversi nella pura e semplice corresponsione di un reddito a tutti i cittadini in difficoltà economica, a carico della stressata fiscalità dello Stato. Ripeto che l’idea di un reddito minimo garantito – a carattere universale, basato sulla solidarietà sociale (meglio se in cambio di un servizio di pubblica utilità) – non può che trovare consenso, a due condizioni però: che si tratti di una misura temporanea e che sia supportata da coperture finanziarie certe e adeguate. Il carattere definitivo della misura, infatti, non farebbe altro che accentuare una sorta di temibile indolenza sociale, mentre le poche risorse disponibili non farebbero altro che sostenere soggetti inclini, alla fin dei conti, a dividersi la povertà per poi rifugiarsi nel lavoro sommerso.
Qui davvero soccorre una lettura attenta dell’intero 1° comma dell’art. 4 della Costituzione, norma che – si può intuire – in questo discorso è centrale: non tanto perché afferma che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro» – proclamazione importante,ma tutto sommato abbastanza retorica! – quanto piuttosto perché impone alla Repubblica di promuovere «le condizioni che rendano effettivo questo diritto». È su questa formula che va posto l’accento se davvero, per dirla con Massimo D’Antona, si vuole «prendere sul serio il diritto al lavoro».
Ciò significa che si potrà parlare in modo appropriato di ammortizzatori sociali solo dopo aver parlato di nuove e più efficaci misure di politica economica in una fase di acuta crisi finanziaria dello Stato. Si va dal sostegno alle politiche industriali e dal ruolo delle banche nel (troppo a lungo denegato) credito alle piccole e medie imprese, fino agli investimenti pubblici, che servono al paese e aumentano effettivamente l’occupazione (ad esempio: nelle infrastrutture per la difesa del territorio; nella c. d. nuova economia; nell’economia verde; nelle energie alternative; nell’economia della conoscenza; nella ricerca; nel terzo settore, nei beni culturali ecc.).



8. In tutto questo l’Italia ha enormi ritardi. Perciò stupisce che, quando si parla delle riforme necessarie a cambiare il paese, subito si pensa soltanto alla riforma del mercato del lavoro. Il che si potrebbe anche lasciar passare, se non lo si pensasse nel senso sbagliato: quello di aumentare gli ammortizzatori sociali per aumentare la flessibilità del lavoro in modo sconsiderato. E così si dettano nuove norme: sui contratti a termine dalla durata (quasi) illimitata e senza causa; su un apprendistato nel quale non c’è da apprendere alcunché; sul lavoro somministrato o su lavori occasionali mediante i c. d. voucher. Nel frattempo non mancano proposte di fantasiosi modelli nord-europei – elegantemente chiamati di flexicurity – da applicare alle tormentate realtà del nostro mercato del lavoro, sebbene essi siano lontani anni-luce da queste realtà.
Eppure è opinione non contrastata – che si sente ripetere come un mantra – che l’occupazione non si crea con leggi e decreti, ma con il sostegno effettivo dell’economia reale e disincentivando l’economia finanziaria. Perciò, nel ritenere una ovvietà che il diritto del lavoro segua i processi economici, i giuslavoristi hanno il compito di richiamare l’attenzione sulla necessità di farlo nel solco della Costituzione: che anzitutto «tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35) e solo subordinatamente tutela la disoccupazione involontaria (art. 38); mentre affida poi alla legge – non dimentichiamolo – la determinazione dei «programmi e [dei] controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali» (art. 41, comma 3).
Del resto non va trascurato che, pur se con lentezza e titubanza, la stessa politica legislativa dell’Unione Europea si muove nel senso di salvaguardare e di aumentare l’occupazione nella prospettiva di garantire, soprattutto ai giovani, un “lavoro di qualità”.



9. Il sistema degli ammortizzatori sociali, in definitiva, va ripensato; e per giunta in tempi ragionevolmente brevi: nel suo insieme e secondo linee molto innovative. Tra le quali non va trascurata la linea di un’utile complementarità tra intervento pubblico e forme di assicurazione privata.
Naturalmente un processo di trasformazione, che parta da un programma di crescita economica e sviluppo produttivo, passi attraverso la rivisitazione delle regole sul mercato del lavoro, e arrivi a riformare ab imis gli ammortizzatori sociali, nell’osservanza dei principi costituzionali, è per sua natura assai complesso. Se non altro per i seguenti motivi: a) sono molte le variabili economiche (a cominciare dall’andamento dell’economia globalizzata); b) sono più d’uno i livelli decisionali (tenuto conto dei vincoli dell’Unione Europea e delle competenze regionali, legate alle diverse realtà territoriali); 3) è quanto mai intricato l’intreccio degli interessi, non di rado di natura “corporativa”, dei vari settori produttivi e delle varie categorie professionali. Di conseguenza, è difficile che le misure da adottare, a breve e a lungo termine, possano seguire una modellistica rigidamente precostituita.
Una tale complessità induce a ritenere che codeste misure non possano essere il frutto di scelte autocratiche e unilaterali dei poteri pubblici, pur volendo – ottimisticamente – confidare in una maggiore chiarezza del quadro politico e in una affermazione senza riserve del “principio di leale collaborazione” tra i medesimi poteri ai vari livelli (europei, nazionali e regionali).
In ogni caso sarà difficile prescindere dal coinvolgimento impegnativo delle forze sociali e delle rappresentanze degli interessi organizzati. Se la parola non fosse stata bandita con disonore dal dizionario delle relazioni industriali, oserei dire che proprio un processo del genere sia da considerare il classico esempio della perdurante esigenza – almeno nella fase di impostazione di un progetto ampio e articolato – di una seria “concertazione triangolare”: tra poteri pubblici, imprese e sindacati. Una concertazione cioè di alto profilo, che non ha niente a che vedere con il consociativismo e ancora meno con la prassi dei veti incrociati, cioè con i vecchi elementi che hanno fatto della concertazione una tecnica da ripudiare senza rimpianti.
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