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“Il diritto di avere diritti” di Stefano Rodotà nella lettura di un giuslavorista.
di Mario Rusciano
1.Oltre ad essere ad effetto, il titolo del libro di Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti, è quanto mai efficace! Esprime in poche parole un’istanza autentica, intuita dall’illuminismo europeo a metà del ’700 e oggi sentita diffusamente nei tormentati contesti socio-economici del mondo intero: quella di riconoscere alla persona umana un insieme universale di diritti fondamentali intangibili.
Nel divenire storico del nostro tempo, globalizzato e dominato dalla tecnologia (tanto da definirsi “epoca del digitale”!), questo insieme è costituito non solamente da diritti discendenti dall’ordine naturale o dall’alto – octroyés da un sovrano oppure derivanti da un potere legislativo – bensì da diritti che germogliano, in piena spontaneità e con grande vitalismo, dal pullulare di iniziative diverse e da una molteplicità di soggetti collettivi non disposti a collocarsi in schemi istituzionali tradizionali.
Tutto parte, comunque, dal bisogno naturale dell’essere umano di reperire meccanismi di difesa di sé nell’interagire con altri esseri umani. Ed è ovvio che più l’individuo si sente socialmente debole e solo, più aspira ad acquisire o a difendere strenuamente il suo diritto di avere diritti. Si potrebbe dire che questo diritto “primario” funga da “scudo del soggetto debole” contro la prepotenza del potere politico e della forza economica.
Perciò – secondo Rodotà – si può parlare, oggi, di una “globalizzazione attraverso i diritti” e non più soltanto “attraverso i mercati”, ossia attraverso la forza bruta dell’economia, egemonizzata dal mercato allo stato puro. Si riconosce così al diritto di avere diritti una valenza unificante, fino a intravedere un’universalità dal basso dei diritti fondamentali della persona, assunti a “patrimonio comune dell’umanità”, compensando (e, anzi, scongiurando) la potenziale dispersività di un mondo globalizzato, privo di un centro e dei tradizionali riferimenti istituzionali.
Ma Rodotà va anche oltre. Nel nuovo assetto planetario delle relazioni umane – plasmato sulla rivoluzione telematica e sulla c. d. “interconnetività” sociale della rete – la produzione di norme può essere guidata dall’intrecciarsi di pratiche messe a punto da una platea assai larga di soggetti. Nel corso di questo processo, non certo facile e tutt’altro che istantaneo, si potranno avere vari risultati, magari parziali, ma comunque senza precedenti: a cominciare dall’integrazione tra codici di autoregolamentazione e altre forme di disciplina, a finire a normative comuni per singole aree del mondo. Del resto, non è forse questa la prospettiva dell’Unione Europea, cioè della Regione del pianeta dove storicamente è più avvertita la tutela di questi diritti?


2. Le suggestioni del discorso di Rodotà sono numerose ed intense, specialmente per i giuristi. Se si allarga la gamma delle fonti dei diritti che richiedono una nuova definizione e, soprattutto, una nuova legittimazione, i giuristi devono interrogarsi circa la perdurante esistenza di un “sistema delle fonti del diritto” stabile e consolidato, finendo con l’accorgersi di una verità elementare: che, di questi tempi, a cambiare non è soltanto il Dizionario della politica, ma anche il Dizionario del diritto. Con effetti imprevedibili sul mutamento (e sulla relativa comprensione) degli ordinamenti statuali, degli ordinamenti sociali e persino dei concetti elementari con cui i giuristi solitamente ragionano.
Risistemando i concetti giuridici, ci si imbatte in un problema cruciale: se il riconoscimento di una sorta, per così dire, di super-diritto – appunto, il diritto di avere diritti – non abbia, almeno per ora, una valenza più etica e culturale che propriamente giuridica. Si sa che, per il giurista, “diritti” in senso tecnico sono le situazioni soggettive scaturenti da una fonte primaria giuridicamente vincolante: tale da consentirne la c. d. giustiziabilità, in sede civile o amministrativa e, all’occorrenza, anche in sede penale (e ovviamente senza entrare qui nel problema del buon funzionamento e della tempestività della giustizia, che pure incidono parecchio sul reale soddisfacimento dei diritti).
A ben vedere, se si amplia troppo (in qualità e quantità) il catalogo dei diritti, c’è il rischio di sbiadirne la nozione e di arricchirne soltanto la retorica. Il vero rischio cioè è che l’affermazione del diritto diventi più che altro un ideale, privo di reali effetti sulla difesa degli interessi e sulla rivendicazione dei bisogni: in una parola, sul miglioramento dell’esistenza delle persone. Come avviene, ad esempio, per i diritti che nascono dalla rete Internet e/o sono suscettibili di essere prioritariamente promossi – secondo Rodotà – mediante nuove forme di aggregazione orizzontale universale dal basso (ad esempio: il diritto di accesso ad Internet; il diritto all’acqua e al cibo adeguato; il diritto ad un’esistenza dignitosa; il diritto alla conoscenza; il diritto alla verità; il diritto all’oblio; il diritto all’autodeterminazione ecc.).
Il pensiero dell’a., perciò, è molto stimolante dal punto di vista storico critico (soprattutto) sul piano antropologico-culturale, ma appare debole quanto alla precisa individuazione dei percorsi tecnico-giuridici per il reale soddisfacimento dei diritti. Percorsi che appaiono tutti in salita, pietrosi e impervi.
Ciò non vuol dire che esso non riesca a trasmettere immediatamente un messaggio capace di provocare un nuovo dinamismo intellettuale: quello di ritenere che, a fondamento dei diritti, c’è sempre un diritto coessenziale non tanto alla “natura” della persona, quanto piuttosto alla “cultura”, intesa come sistema di relazioni, comportamenti e stili di vita degli individui nei contesti economici, sociali e tecnologici, nei quali si sviluppano le esistenze umane in determinate epoche storiche.


3. Tra i giuristi indotti a riflettere sul rapporto tra l’approccio descritto e il diritto positivo, particolarmente sollecitati dal pensiero di Rodotà, per intuibili ragioni, sono i giuslavoristi.Nessuno meglio di un giurista del lavoro, infatti, può comprendere – direi in linea di principio – la logica in cui si muove l’a., almeno per due ragioni.
La prima è che al centro di questo ramo “speciale” del Diritto civile c’è un rapporto obbligatorio derivante da un contratto in cui la parità tra i contraenti è soltanto formale e l’adempimento di una delle obbligazioni – quella fondamentale – implica l’impegno della persona del contraente più debole. Questi, spendendo le sue energie psicofisiche a favore dell’interesse del creditore, nella cui sfera organizzativa viene attratto, per giunta in uno stato di subordinazione, è costretto inevitabilmente a subire nella propria sfera giuridica l’intrusione del potere del creditore medesimo, con il rischio di una costante compressione dei suoi diritti personali.
La seconda ragione è scritta nella storia dell’ordinamento che dal lavoro trae origine e linfa: il Diritto del lavoro è stato un antesignano della produzione spontanea e dal basso delle regole dei rapporti tra lavoratori e imprese. Tanto da far dire che esso ha una matrice prevalentemente extralegislativa: non soltanto per l’apporto della giurisprudenza, indispensabile in un settore dove è frequente l’uso di principi e clausole generali, ma soprattutto per l’espandersi del fenomeno sindacale, imperniato sull’aggregazione degli interessi dei lavoratori (specie dell’industria), in nome di un comune interesse collettivo (frutto della sintesi degli interessi individuali di un gruppo omogeneo).
Tramite le azioni di lotta e i successivi accordi per mettervi fine, le organizzazioni rappresentative dei contrapposti interessi hanno dato vita, nel corso del tempo, ad un vero e proprio ordinamento sociale, parallelo ed autonomo rispetto all’ordinamento dello Stato (ma, in parte, addirittura precorritore dello stesso, e in ogni caso con esso collegato). Tale ordinamento, identificato da Gino Giugni (nel 1960) come ordinamento intersindacale, è provvisto di logiche e di meccanismi propri, mediante i quali i soggetti collettivi (sindacati e organizzazioni datoriali) stabiliscono (in accordi ai vari livelli) regole dotate di un’intrinseca forza giuridica. Quella forza che deriva appunto dall’autonomia dei contraenti – cioè dalla libera determinazione degli stessi soggetti tenuti ad osservarle – grazie alla speciale rappresentanza dei lavoratori e datori di lavoro (c. d. rappresentatività sindacale), che i contraenti medesimi democraticamente esercitano.
L’organizzazione sindacale, nelle sue articolazioni orizzontali e verticali (di azienda, di mestiere, di categoria e confederale), riesce così – se necessario sostenendo le rivendicazioni con mobilitazioni e lotte, talora anche aspre (sciopero, ecc.) – a contrattare collettivamente sia con la controparte datoriale, sia coi poteri pubblici, migliori condizioni di lavoro e di vita e a ottenere – consensualmente – il riconoscimento e la garanzia di sempre nuovi diritti dei lavoratori: tanto nei confronti del creditore di lavoro, quanto nei confronti dello Stato (che, non a caso, si qualifica come “Stato sociale”). La via consensuale di acquisizione di tali nuovi diritti influenza di solito l’ordinamento statuale, fino al punto che questo recepisce nella legge le tutele inventate dall’autonomia collettiva.


4. C’è poi da ricordare un altro tratto originario del Diritto del lavoro italiano, di grande interesse storico-giuridico ai fini del nostro discorso: l’essersi esso costruito gradualmente mediante le soluzioni di singole questioni pratiche o di controversie di lavoro insorte tra operai ed industriali. Soluzioni inventate dai Collegi dei probiviri, tra la fine dell’800 e i primi del ’900.
L’opera dei probiviri costituisce un esempio emblematico di creazione di nuovi diritti ad opera di regole provenienti dal basso attraverso un “giudizio di equità”, in assenza di norme legali di riferimento. Solo impropriamente, infatti, le pronunce dei probiviri possono considerarsi una “giurisprudenza”. In realtà i Collegi non interpretano né applicano la legge in quanto sono costituiti non da giudici togati (ad eccezione del Presidente), bensì da rappresentanti dei lavoratori e degli industriali, in composizione paritetica, chiamati a formulare regole totalmente nuove, secondo valutazioni di buon senso dei casi concreti. Regole che non riguardano solo i rapporti individuali di lavoro, ma pure le nascenti relazioni sindacali e le prime forme di contrattazione collettiva. Quasi naturale, dunque, che esse siano state in larga parte recepite nella successiva legislazione, anche di matrice corporativa, fino a costituire il nucleo centrale della disciplina del contratto di lavoro confluita poi nel libro V del codice civile del 1942.
Quella probivirale è stata dunque un’esperienza originale di grande importanza per il Diritto del lavoro italiano, basata proprio sulla presunzione che la debolezza contrattuale di «quanti lavorano alle dipendenze di altri» richiedesse una speciale tutela giuridica. In altre parole, partendo dal presupposto che il lavoro, pur volendolo considerare una merce, non è paragonabile a qualsiasi altra merce, i probiviri con le loro pronunce hanno contribuito ad individuare, ed in alcuni casi a proclamare e tutelare specificamente, nuovi diritti dei lavoratori e appunto a riconoscere in pratica, alle categorie di operai della nascente industria, un diritto di avere diritti.
Eloquente, in proposito, una decisione sullo sciopero, che vale la pena richiamare: «[…] l’astensione collettiva degli operai dall’opera, intesa ad ottenere l’osservanza od il miglioramento del contratto di lavoro, costituisce un diritto, senza del quale il contratto di lavoro sarebbe imperfetto, perché verrebbe a mancare la parità fra i due contendenti»; pertanto, «la partecipazione dell’operaio allo sciopero non può mai costituire, contro di lui, causa di risoluzione» (Alimentari, Milano, 9 settembre 1901 – Beretta c. Pagani).
Questa massima è importante per il discorso che qui si va facendo. L’affermazione dello sciopero come diritto certamente assume, all’epoca, un valore straordinario; ma, alla fin dei conti, un valore più morale che giuridico. Infatti, quanto agli strumenti concreti di esercizio di tale diritto, a garanzia dei lavoratori, i probiviri non possono far altro che limitarsi a stabilire che «l’operaio, licenziato alla ripresa dei lavori, ha diritto a un’indennità pari a otto giorni di salario» e, per giunta, «detratte le spese per la sua momentanea sostituzione sostenute dall’imprenditore durante lo sciopero»: dunque un “diritto” sì, ma più conclamato che effettivo! In sostanza, qui il termine “diritto” sta a significare che il lavoratore ha la «libertà di astenersi dal lavoro» per protestare contro il potere datoriale, ma non può sottrarsi ai relativi rischi (a cominciare nientemeno da quello del licenziamento).
Solo circa mezzo secolo dopo lo sciopero diventerà un diritto vero: quando, attribuito ai lavoratori dall’art. 40 della Costituzione repubblicana del 1948, avrà l’essenziale effetto giuridico di vietare al datore di lavoro il licenziamento degli scioperanti (in forza del principio qui iure suo utitur neminem laedit, e in deroga al principio generale del diritto comune dei contratti, per cui inadimplenti non est adimplendum).


5. In realtà, quando si parla di affermazione e di garanzia di diritti, il giurista è portato, direi naturaliter, ad accertare in primo luogo gli effetti concreti del riconoscimento formale di essi. Nel diritto del lavoro questo problema si presenta ancora più complesso, perché non sono in gioco i soli diritti civili e politici,ma soprattutto i c. d. “diritti sociali”, attribuiti a singoli soggetti, appartenenti a grandi masse di persone che lavorano e che, proprio perché traggono il loro reddito dalle prestazioni personali al servizio di altri, l’ordinamento presume economicamente subalterni e socialmente deboli.
Ora, specie al giuslavorista (ma non solo) non possono sfuggire alcuni aspetti problematici della figura del diritto quale situazione soggettiva forte, cui guardare da varie prospettive per metterne a fuoco la qualità di posizione giuridica consolidata.
Provo a sintetizzare qualcuno di questi aspetti: (a) la storicità, (b) la relatività, (c) la elasticità e, soprattutto, (d) la effettività. Sono aspetti con i quali sempre si scontra la (pur illuminata) proclamazione di principio di questo o quel diritto. Insomma, è dalle ricadute pratiche, in termini di concreto godimento del diritto e di conseguente miglioramento delle condizioni personali del suo titolare, che si può distinguere la giuridicità dalla pura moralità del diritto medesimo.
a) La storicità va intesa in un duplice senso: per un verso, attiene alla fase genetica dei diritti, perché le regole giuridiche sono frutto della realtà di un certo momento storico; per un altro verso, attiene alla fase applicativa dei diritti medesimi, che, a sua volta, risente del contesto socio-economico di riferimento. Se sono i fatti a stimolare il riconoscimento dei diritti e a condizionarne la concreta attuazione, è pregiudiziale per l’interprete storicizzare gli istituti giuridici e valutare se e fino a che punto i diritti riconosciuti, frutto della realtà, riescano davvero a proiettarsi quasi meccanicamente dal riconoscimento formale alla sfera giuridica di chi ne è titolare.
Ora è evidente che, tra i vari caratteri di un dato periodo storico, ha grande rilievo la interdipendenza tra diritto ed economia. Che spicca in particolare per il Diritto del lavoro, la cui tessitura normativa è condizionata dall’andamento dei cicli economici. Anzi, secondo alcuni, le regole del lavoro sono sempre subalterne ai fatti economici: specie quando, in periodi di crisi (come quello che attraversiamo), prende piede l’idea che, nel rapporto di forza tra politica ed economia, è sempre la seconda a prevalere, specie poi se la teoria neo-liberista passa per essere l’unica ricetta per superare ogni crisi.
Inevitabilmente si accentua così la visione del Diritto del lavoro quale ordinamento imperniato sul “conflitto distributivo” della ricchezza prodotta, perché è la struttura del rapporto di lavoro a basarsi su posizioni conflittuali: tra chi domanda il lavoro altrui e ne vuole contenere il prezzo (datore di lavoro); e chi offre le proprie energie psicofisiche, volendo ricavarne il maggior prezzo possibile con la minore fatica (il lavoratore). Come dimostra la storia, il conflitto tra i soggetti di questo rapporto cambia la sua morfologia, appunto, a seconda del contesto economico-produttivo di riferimento, ma è immanente a qualsiasi tipo di contesto. Tanto è vero che i diritti dei lavoratori vengono per lo più acquisiti in periodi di espansione economica, mentre vanno paurosamente riducendosi in periodi di crisi.
Perciò oggi come oggi la ratio essenziale dell’ordinamento lavoristico è sempre meno quella di tutelare comunque il lavoratore e sempre più quella di mantenere un costante equilibrio tra l’interesse dell’impresa, nella logica economicistica della produzione di ricchezza, e la tutela del lavoro, che deve controbilanciare quell’interesse: non solo al fine di una più equa distribuzione della ricchezza medesima – se non altro come fattore di salvaguardia della pace sociale – ma anche al fine di aumentare la diffusione e il livello dei consumi tra gli individui che lavorano, vero motore dell’economia capitalistica.
Se questo è vero, è vero anche che, oggi più che mai, parlare del rapporto tra diritto ed economia significa valutare la compatibilità economico-finanziaria di ciascun diritto e, dunque, la sostenibilità del costo dei diritti.
Tutti i diritti costano, ma quelli sociali costano più degli altri – certamente più dei diritti civili e politici – perché consistono in prestazioni che lo Stato sociale deve assicurare. Non è un caso che attualmente – più o meno in tutta Europa – in nome delle ragioni dell’economia e in un’epoca di forte stress fiscale dello Stato, si assista al sostanziale smantellamento del Welfare e a una regressione dei diritti dei lavoratori, parallelamente alla (ma anche per effetto della) diffusione eccessiva della c.d. flessibilità – o meglio della precarietà – del lavoro, il quale così torna ad essere sempre più parificato ad una qualsiasi merce.
Non è facile resistere – giuridicamente – a codesta regressione, anche se i giuristi non si perdono d’animo e tentano di arginarla, con buoni argomenti, mediante una precisa classificazione dei diritti, che non hanno tutti lo stesso rango. E così i diritti fondamentali di libertà civile e politica sono intangibili, perché derivano direttamente dalla Costituzione e, senza riserve, vengono qualificati diritti di cittadinanza. Ma in tale categoria si tende ad annoverare altresì taluni diritti del lavoratore: sia nei confronti del datore di lavoro (giusta retribuzione, limiti di orario, ferie, riposi, sicurezza del lavoro), sia nei confronti dello Stato (previdenza e sicurezza sociale). Tutti diritti che, in effetti, sono scritti in Costituzione e preesistono al contratto di lavoro; e anzi, in taluni casi, ne prescindono. Nasce da qui, ad esempio, l’idea del c. d. “reddito di cittadinanza”.
Naturalmente per i diritti sociali il discorso si fa più complesso quando, presupponendo essi una prestazione a carico della finanza pubblica, non possono non risentire dell’andamento negativo del ciclo economico (basti pensare ai settori della sanità, della formazione e dei trasporti, ma anche a quello degli ammortizzatori sociali: che, in mancanza di una politica strutturata di medio-lungo periodo, vede la sicurezza sociale ridursi ad una sorta di estemporanea elemosina istituzionalizzata).
(b) Si può allora parlare di elasticità dei diritti come effetto della storicità e della interdipendenza tra diritto ed economia. Quando l’assenza di una politica economica espansiva ostacola la crescita e l’occupazione, nei fatti è l’economia a comprimere l’oggetto del diritto, pur se i diritti dei lavoratori sono, come appena ricordato, costituzionalizzati. In un simile contesto, logicamente, diventa difficile (se non impossibile), ad esempio, tutelare il diritto alla professionalità dei lavoratori, messo continuamente a dura prova. Senza dire di altri fenomeni preoccupanti legati al lavoro, nei quali i diritti, più che comprimersi e riespandersi, si potrebbe dire che brillano per assenza: lavoro sommerso; finto lavoro autonomo (quello delle c. d. “partite Iva” e dei lavoratori “a progetto” ecc.); dilagante “proletarizzazione” delle professioni intellettuali, con scarsi compensi e diritti negati.
Dunque, la precarietà del lavoro, dovuta ad una concezione perversa della flessibilità ed alla maggiore libertà di licenziamento, aumenta la subordinazione dei lavoratori e, con questa, la loro paura di difendersi esercitando i diritti di libertà sindacale: che, come vedremo, sono strumentali all’effettività degli altri diritti.
Da parte sua il sindacato (quello storicamente organizzato), nei periodi di congiuntura economica sfavorevole, viene contagiato anch’esso dalla subcultura del “burocratismo” e dell’interesse dell’apparato, contiguo al potere politico. Miopia e paraocchi lo rendono più capace di difendere interessi indifendibili che di aggregare interessi nuovi e frammentati, sicché incontra obiettive difficoltà ad entrare nei luoghi di lavoro e, quindi, a farsi portatore rappresentativo ed autorevole delle istanze dei lavoratori. E così i diritti si affievoliscono in attesa che, migliorando il contesto economico-produttivo, possano riespandersi, sebbene l’elasticità non giovi comunque all’integrità di un diritto.
(c) L’elasticità dei diritti apre un altro punto di vista, che serve a capire il profilo della relatività dei diritti, vale a dire la mutevolezza del grado di concreta possibilità di godimento degli stessi, in quantità e qualità, rispetto al contesto. La relatività può essere legata alle contingenze territoriali – basti pensare al divario tra Nord e Sud (del mondo, ma anche nei singoli Paesi) – e/o alla differente evoluzione delle forme di organizzazione sociale (e, dunque, ordinamentale).
Essa arriva a determinare una diversa percezione delle condizioni di garanzia di un medesimo diritto della persona umana, pur se magari definito “fondamentale”. Di facile evidenza è l’esempio del “diritto all’acqua”: nelle società avanzate esso (come del resto molti altri diritti attinenti ai cc. dd. “beni comuni”) è oggetto di un livello alto di tutela, mediante un complesso apparato organizzativo, funzionale alla creazione e alla fruizione di quelli che si potrebbero definire i “diritti di organizzazione sociale”, dai quali dipende il tranquillo e ordinato svolgimento della vita quotidiana dei cittadini. Ma nelle società arretrate o in via di sviluppo, lo stesso diritto si considera goduto solo perché geograficamente si vive in insediamenti vicini a corsi d’acqua; e la disponibilità di acqua corrente pare addirittura una grande conquista.
La relatività dei diritti si coglie, inoltre, anche sul piano culturale. Nel senso che determinate situazioni soggettive sono considerate veri e propri diritti in determinati contesti culturali, ma non in altri: dove vengono visti addirittura come disvalori. Gli esempi sarebbero molti: uno per tutti è il diritto al lavoro delle donne in società arretrate.
(d) C’è, infine, da considerare l’aspetto di certo più rilevante, che è quello della effettività dei diritti, per la quale il giuslavorista ha una carta in più da giocare, potendo invocare un dato testuale: il disposto dell’art. 4, comma 1, della Costituzione, secondo cui «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Il Costituente sa che il riconoscimento formale di un diritto (in questo caso il diritto al lavoro) è necessario, ma non sufficiente. Anzi, sarebbe una ridicola proclamazione se non fosse accompagnato da una locuzione per così dire strumentale: in questo caso, dall’impegno della Repubblica di «promuovere le condizioni che rendano effettivo» il diritto medesimo. È ovvio, infatti, che, in una economia liberale, se non è pensabile garantire a tutti un posto di lavoro, certamente è possibile adoperarsi in tutte le direzioni per assicurare la piena occupazione, assurta a interesse generale. E allora riconoscimento del diritto e modo di assicurarne l’effettività vanno concepiti come due facce della stessa medaglia.
La effettività si realizza mediante l’intreccio di più elementi:
- il riconoscimento di un diritto in un ordinamento statale o sovranazionale (purché espressione di una istituzione provvista di adeguati poteri), ad opera di Carte fondamentali giuridicamente vincolanti (le Costituzioni nazionali, in primo luogo), mediante formulazioni specifiche, a loro volta oggetto di attuazione mediante norme primarie;
- la previsione, nell’ordinamento, di proporzionate sanzioni in caso di violazione dei diritti: “negative” (punitive), tali da costituire un efficace deterrente, oppure “positive” (incentivanti/promozionali), tali da indurre al rispetto delle norme mediante promessa di vantaggi;
- l’azionabilità in giudizio del diritto, davanti ad un organo giudicante, munito del potere di imporre il rispetto delle regole, con l’applicazione concreta della sanzione (nel caso del diritto al lavoro sarebbero da considerare censurabili costituzionalmente innanzi alla Consulta tutte le misure legislative che andassero nella direzione opposta a quella di sostenere la massima occupazione);
- infine, l’eventuale controllo, da parte di Autorità indipendenti, della concreta fruibilità dei diritti.
Solo se ricorre almeno uno di questi elementi, si può parlare di effettività di un diritto. In una parola, la effettività è il risultato del perfetto funzionamento delle tecniche giuridiche che fanno da supporto al riconoscimento di un diritto, al fine di dare al suo titolare la certezza del relativo godimento, al di là di vicende contingenti e mutevoli.


6. Il tema della effettività dei diritti merita qualche riflessione in più. La difficoltà di garantirne i meccanismi, specie nelle attuali società complesse, è un dato incontrovertibile. In proposito, secondo Rodotà, il deficit di effettività, che oggi come oggi fa assistere al crepuscolo dell’età dei diritti (intesi in senso tradizionale, cioè giuridicamente garantiti da istituzioni dotate di funzioni giurisdizionali), almeno in alcuni casi può essere colmato da azioni informali di soggetti che attingono la loro forza e la loro legittimità dalla capacità di svolgere su scala globale attività di contrasto delle violazioni di diritti fondamentali, grazie a mobilitazioni in rete e a un sistema di sanzioni informali, quali sono appunto quelle determinate da un boicottaggio dell’immagine, che le società transnazionali considerano un valore necessario alla loro attività economica.
Secondo l’a., più in generale, il nuovo contesto è suscettibile di dar vita ad una evoluzione – o, se si vuole, ad un significativo mutamento – nel sistema di produzione delle norme (e, in particolare, di garanzia dei diritti) e, con ciò, di porre in termini nuovi il tradizionale (e comunque sempre centrale, anche in questa dimensione) problema della effettività dei diritti. Rodotà, infatti, contesta la critica di chi descrive un mondo senza centro, dov’è preclusa la possibilità di garanzie comuni, come pure lo scetticismo di una cultura giuridica che non trova nella dimensione globale una concreta possibilità di rendere effettivi i diritti.
Le obiezioni tradizionali – chi è il legislatore? quale giudice renderà applicabili i diritti proclamati? – appartengono al passato, perché ormai «la valanga dei diritti umani sta travolgendo le ultime trincee della sovranità statale», come scrive Antonio Cassese commentando, nel 2007, il voto dell’Onu sulla moratoria riguardante la pena di morte.
Quelle obiezioni, secondo Rodotà, sono almeno parzialmente smentite dal progressivo costituirsi di una “global community of courts” (comunità globale di Corti), legata proprio alla tutela dei diritti; e dalla constatazione che l’effettiva tutela dei diritti non è più necessariamente affidata ai tradizionali procedimenti giudiziari,ma è resa possibile da iniziative che, partendo dalla società civile ed avendo come riferimento documenti internazionali, riescono a rendere concrete le garanzie. L’a.menziona i casi di garanzia di diritti affidati all’attivismo sociale, alla possibilità di prospettare sanzioni non formalizzate, alla trasparenza di comportamenti ritenuti illegittimi grazie all’uso del potentissimo sistema dell’informazione. Sicché non sono più le procedure giudiziarie formalizzate l’unica strada percorribile.
La lungimiranza del pensiero di Rodotà, certamente condivisibile per tanti versi – apertura a nuove forme di riconoscimento dei diritti; incisività, spesso, di sanzioni morali e sociali, ecc. – è fuori discussione. Rimane però insoluto il problema di chi (ed in che modo), prescindendo dalla sovranità statale, possa essere dotato del potere coercitivo per assicurare davvero l’esercizio effettivo dei diritti a livello planetario.
Non si può non tener presente, infatti, l’obiettivo ultimo in materia di diritti fondamentali universali della persona: che resta pur sempre, appunto, quello di accompagnare la dimensione planetaria dei diritti fondamentali con istituzioni provviste di altrettanta forza, in grado di assicurarne in concreto il rispetto. Pur contribuendo utilmente all’attecchimento della cultura dei diritti, non possono, infatti, ritenersi sufficienti, a tal fine, strumenti volti a diffonderne l’osservanza spontanea da parte di gruppi sempre più estesi di persone. Neppure le stesse forme di controllo sociale (la responsabilità sociale dell’impresa, o la certificazione di qualità per gli alimenti ecc.) o le “clausole sociali” inserite negli accordi commerciali internazionali in materia di condizioni minime di tutela del lavoro sono capaci di arrivare a tanto. Anzi, persino il sistema – che non può essere propriamente considerato avveniristico, benché rafforzatosi e intensificatosi negli ultimi decenni – delle Corti internazionali incontra non poche difficoltà a garantire un patrimonio di diritti condivisi ai cittadini di differenti nazionalità, per il fatto di non poter contare sul background rappresentato appunto dalla sovranità statale. Basti pensare alle note vicende delle Corti europee, vale a dire la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte europea dei diritti dell’uomo.
In ogni caso, proprio l’esperienza delle Carte dei diritti a livello europeo conferma che, per rendere effettivi i diritti, esse hanno bisogno di Corti che ne consentano l’azionabilità in giudizio. Così è per la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, azionabile davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo; e per la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000-2007, più volte evocata da Rodotà, appunto azionabile davanti alla Corte di Giustizia europea.
Esattamente Rodotà sottolinea, di quest’ultima Carta, la funzione più che altro “pedagogica”, da quando è stata approvata, nel 2000, fino a quando – nel 2007, a Lisbona – ha finalmente guadagnato valore giuridico vincolante con l’attribuzione dell’efficacia dei Trattati. Ed infatti, dal 2000 al 2007, la Carta ha impresso nuova centralità alla dimensione dei diritti nell’Unione europea. Anzi, esaltando i valori di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia, essa ha fatto da contrappeso della prevalente dimensione economico-finanziaria dell’Unione: tanto da essere spesso richiamata, pur senza avere efficacia normativa, da Corti nazionali ed europee come punto di riferimento centrale in materia di garanzia dei diritti fondamentali della persona.
L’oggettiva difficoltà di rendere effettivi i diritti, benché riconosciuti per tabulas, è dimostrata anche da un vero paradosso, che Rodotà non manca di rilevare, ma che autorizza un certo scetticismo: mentre prima dell’attribuzione alla Carta di solida efficacia giuridica, le sue prescrizioni erano richiamate a fondamento dei diritti dalla Corte di giustizia, appena divenuta essa vincolante con la forza dei Trattati, la medesima Corte ha preso a ridimensionare e a circoscrivere la portata dei diritti da essa sanciti.
Per la verità, in materia, quello appena detto non è l’unico paradosso.
Forse ancora più singolare è il fatto che, alle difficoltà tecnico-giuridiche di effettiva garanzia dei diritti fondamentali della persona, nelle forme tradizionali, faccia da contraltare sempre più spesso l’enorme potere deimezzi di comunicazione di massa (dalla televisione alla stampa agli altri strumenti telematici). A garantire l’effettiva tutela di un diritto riesce assai di più, per tempestività ed efficacia, il potere dell’informazione piuttosto che il potere giurisdizionale. Come dire che una trasmissione televisiva – tipo le Iene o il Report della Gabanelli – pur limitandosi alla semplice denuncia, vale assai di più di un giudice civile, penale o amministrativo a garantire i diritti dei cittadini!
Infine, c’è un ultimo paradosso, che forse per la sua rilevanza prevale su ogni altro, benché poche volte emerga in tutta la sua drammaticità. Mentre si tenta di individuare gli strumenti adatti a garantire l’effettività dei «grandi diritti umani fondamentali ed universali» – attraverso le decisioni di alte Corti, a livello sovranazionale – si affievolisce sempre più la capacità del sistema giuridico di garantire l’effettività dei «diritti minimi di organizzazione sociale» nelle società avanzate: dove i diritti dei cittadini vengono costantemente lesi dal cattivo funzionamento dei servizi pubblici essenziali.
Gli esempi sono numerosi: a cominciare dai diritti strumentali al diritto al lavoro e al diritto allo studio a finire a quelli che dovrebbero assicurare il diritto alla salute, specialmente nell’assistenza dei disabili. Per non parlare della compressione del diritto fondamentale ad una esistenza sicura, libera e dignitosa, che deriva: dal disordine urbanistico; dal mancato controllo e dal degrado del territorio e dei beni comuni; dall’assenza di manutenzione delle città; dalle disfunzioni dei trasporti pubblici (specie per i pendolari); dalla scadente qualità dell’ambiente; dall’ormai sempre più difficile tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e via di questo passo. Si tratta di situazioni giuridiche soggettive, delle quali i cittadini hanno il diritto di fruire in cambio dell’adempimento dei loro doveri civili (a cominciare dal pagamento di imposte e tasse): per far valere le quali però essi non hanno strumenti validi, sebbene siano fondamentali per una decente esistenza quotidiana (basti pensare a quante volte un “difensore civico” può essere assimilato ad un cane feroce che abbaia alla luna!).


7. Il giurista del lavoro è indotto a ricordare un meccanismo esemplare per garantire la effettività dei diritti: quello stabilito nel 1970 dalla legge 300, il c. d. statuto dei diritti dei lavoratori. Una legge che, qualificata fin dalla sua emanazione “di attuazione costituzionale”, aveva come obiettivo appunto la effettività di diritti fondamentali dei lavoratori: sia a tutela della loro libertà e dignità, sia a garanzia della libertà e attività sindacale nei luoghi di lavoro. Diritti tutti in astratto sanciti dalla Costituzione,ma concretamente conculcati, come all’epoca si diceva, «al di là del cancello delle fabbriche».
Poiché lo statuto detta regole riguardanti tanto il rapporto individuale di lavoro quanto i rapporti sindacali in azienda, ilmeccanismo viene definito a carattere bidirezionale. Da un lato, infatti, si predispongono limiti ai poteri datoriali (anche in funzione antidiscriminatoria), la cui violazione viene sanzionata con la nullità dei relativi atti datoriali, oltre che con sanzioni penali, nonché con la garanzia legale del diritto alla stabilità reale del posto di lavoro (art. 18, St. lav.). Da un altro lato, si promuove e sostiene l’attività sindacale e le relazioni contrattuali nei luoghi di lavoro con l’attribuzione alle rappresentanze sindacali aziendali di una serie di diritti sindacali e la previsione di uno strumento processuale, rapido e incisivo, per la repressione delle condotte antisindacali del datore di lavoro (art. 28, St. lav.).
La doppia anima, garantistica e promozionale, dello Statuto fa parte di un disegno unitario, nel quale diritti individuali e diritti sindacali dei lavoratori si influenzano e si integrano fra loro, rafforzando in definitiva la posizione dei lavoratori. La limitazione legale del potere imprenditoriale serve a liberare il singolo lavoratore dal timore di esercitare i suoi diritti sindacali e il potenziamento del sindacato così ottenuto serve a rendere effettivo l’esercizio dei diritti individuali. Tutela individuale e tutela collettiva interagiscono così in un sistema circolare, con l’obiettivo ultimo di garantire appunto la effettività dei diritti dei lavoratori nel luogo in cui tali diritti rischiano di essere lesi.
E la storia più recente (ad esempio, la vicenda Fiat) dimostra come, cambiato il contesto in senso sfavorevole al sindacato, le norme dello statuto siano riuscite ad assicurare il rispetto dei diritti sindacali (e, tramite questi, dei diritti dei lavoratori) da parte del datore di lavoro, pur sotto l’attacco concentrico delle “politiche globali”.
Proprio l’esperienza sindacale, dunque, rivela la fragilità di un sistema di spontaneo riconoscimento “dal basso” dei diritti, se non supportato da regole giuridiche cogenti, là dove mutino (o semplicemente si incrinino) le condizioni fattuali (particolarmente favorevoli) che lo hanno sorretto.


8. A tale ultimo proposito, occorre conclusivamente rilevare che, persino in un ordinamento strutturato come quello giuslavoristico di livello nazionale, l’effettività dei diritti è, in ogni caso, messa in pericolo dal venir meno di alcune precondizioni di realtà che, in differenti momenti storici, hanno contribuito al suo affermarsi e al suo sviluppo.
Oggi, in particolare, una effettiva garanzia dei diritti fondamentali dei lavoratori è ostacolata, oltre che da una recessione senza precedenti, dall’assenza di seria formazione dei giovani, dalla carenza di misure di orientamento professionale e dal solco persistente tra formazione e mercato del lavoro. A questo si aggiunge la continua riduzione della domanda di lavoro, da parte delle imprese, per ragioni di natura economico-produttiva, per la verità non tutte congiunturali e spesso indipendenti dalla collocazione territoriale delle attività.
Pur in presenza di un raffinato catalogo dei diritti, ciò produce un circolo vizioso e alimenta una crescente sfiducia, specie da parte dei giovani, nei confronti del futuro; una sfiducia che ne mina la qualità di cittadini e ancor più quella di lavoratori. A dimostrazione che non può esistere un equilibrato e moderno sistema politico senza diritti di cittadinanza, ma che i diritti dei cittadini e dei lavoratori sono inutilmente affermati fuori di un efficiente sistema economico-sociale, provvisto di adeguati strumenti giuridici che facciano da sentinella dell’effettività dei diritti.
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