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Un anno di governo Renzi
di G. G.
Si è compiuto, senza quasi che ci si avvedesse del trascorrere di un breve, ma – in un regime parlamentare, per giunta coi problemi che nel sistema politico italiano si lamentano ormai da più di un ventennio – molto significativo periodo di tempo.
La mancata o carente sensazione del trascorrere di questo tempo può essere stata provocata dalle moltissime novità che si sono dovute nel frattempo registrare da molti e importanti punti di vista. Tra le quali novità la prima e, forse indiscutibilmente, la maggiore è stata certamente Renzi stesso in quanto uomo di governo.
Egli ha innanzitutto portato avanti finora la figura del presidente del Consiglio dei ministri in congiunzione con quella di segretario del suo partito, il Partito democratico. È un’operazione tentata ai tempi della Democrazia Cristiana, e non riuscita, né con Fanfani, né con De Mita, e ai tempi del centro-sinistra, con D’Alema. Vi riuscirà ancora per molto Renzi?
Le apparenze sembrerebbero dire di sì. A differenza dei predecessori, Renzi si è mosso e si muove sulla solida base della larga maggioranza assicuratagli nel partito con la sua elezione a segretario nel dicembre 2013. Questa maggioranza non è a sua volta una federazione più o meno omogenea di gruppi disparati che si riconoscono in varii cacicchi o capiclan, come di ordinario in certe vecchie tradizioni di partito, bensì una maggioranza formata e coagulata sul solo nome del segretario. Da allora questa maggioranza non è venuta mai meno al suo eponimo leader, anzi si è confermata più che solida e coerente nelle varie occasioni che di provarlo si sono presentate, e, semmai, ha dimostrato di tendere a espandersi piuttosto che a restringersi.
Se la cosa durerà, una importante modificazione si sarà introdotta nella dialettica del regime democratico in Italia. Sarà diventata, cioè, consuetudine quella riunione delle funzioni di capo del partito e di capo del governo, che contraddistingue alcuni dei maggiori e più funzionali e stabili sistemi democratici dell’Occidente. Si eviterà la ricorrente necessità che il capo del governo debba guardare al capo del suo stesso partito, in quanto partito di maggioranza, e guardarsi da lui in tutta la sua azione di governo come potenziale elemento di debolezza e causa di caduta del governo. Nulla di più eloquente la qualifica di “governo amico” che ai tempi della Democrazia Cristiana i segretari del partito davano del governo espresso dal loro stesso partito. Paradossalmente, Renzi stesso si è trovato a rinfrescare questo ricordo. Tutti ricordano il suo “sta sereno, Enrico” rivolto da lui come segretario del partito a Letta presidente del Consiglio, proprio nel momento in cui stava per succedergli in questo alto ufficio.
Questo dato di fatto si è accompagnato in Renzi, fin dal primo momento, all’idea della necessità di un rinnovamento profondo delle istituzioni italiane alla luce dell’esperienza ultrasessantennale fatta dell’ordinamento costituzionale entrato in vigore il 1° gennaio 1948 e sancito dall’ancora vigente Costituzione repubblicana. Di questa necessità molti avevano parlato (Bettino Craxi negli scorsi anni ’80, poi varii altri), ma nessuno è riuscito a portare la questione allo stadio cui finora l’ha portata Renzi.
Bisognava, oltre tutto, superare la forte barriera che a toccare l’ordinamento costituzionale vigente proveniva da una nobile convinzione dell’importanza e della originalità della Costituzione italiana del 1948 (e, a nostro modesto avviso, anche per il suo rapporto ideale con Costituzione delle Repubblica Romana del 1849). Una convinzione non nata nel vuoto, poiché quella Costituzione ha accompagnato l’Italia nella sua radicale trasformazione politica e culturale, economica e sociale dal 1948 a oggi, allargando in misura senza precedenti il quadro della partecipazione dei cittadini alla vita delle istituzioni in una nuova coscienza politica e nazionale. Anche questa convinzione appariva ormai rosa, però, da varii tabu e da varie pigrizie, non sempre disinteressati gli uni e le altre. Anche la retorica della «Costituzione più bella del mondo» e del «la Costituzione non si tocca» non era facile da superare. Poi si è opportunamente distinto fra i principii e le norme della Costituzione, chiarendo di lasciare del tutto intatti i primi, e ciò ha agevolato non poco le cose.
Tralasciamo qui i molteplici aspetti e punti della riforma costituzionale che sta andando avanti. Ne ricordiamo solo qualche elemento. Ad esempio, il passaggio dal bicameralismo integrale a un bicameralismo che assegna le funzioni essenziali politiche e di governo alla Camera dei Deputati e trasforma il Senato in camera non elettiva, ma rappresentativa di viarie, determinate istanze, soprattutto territoriali, e con limitate funzioni istituzionali e politiche. Si aggiunga la soppressione del più che discutibile Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, il quale, invece di diventare, come qualcuno vagheggiava, una sorta di terza camera dell’ordinamento repubblicano, si è dimostrato un sostanzialmente inutile orpello del regime democratico e quasi un ufficio di collocamento per uomini politici in disarmo, sindacalisti e altre presenze ingombranti dello scenario politico e parapolitico.
Ancora ad esempio, la trasformazione del sistema elettorale, che di fatto bandisce le tradizionali coalizioni politico-elettorali, che negli ultimi venti anni si sono dimostrate un focolaio inestinguibile di instabilità istituzionale e politica, e stabilisce un premio di maggioranza che nelle elezioni viene assegnato al partito che consegue una certa soglia di votazione, e che assicura ad esso con questo premio una solida maggioranza alla Camera dei Deputati, permettendo di sapere già la sera delle elezioni se vi sarà un governo chiaramente costituito e duraturo.
Naturalmente, può darsi che nessun partito raggiunga la soglia di votazione prevista per il conseguimento del premio di maggioranza. In questo caso, però, è più che largamente presumibile che l’esperienza della conseguente probabile instabilità e incertezza di governo induca in breve tempo il corpo elettorale, i cittadini, a rendersi conto della logica del nuovo sistema e a tenerne conto nelle successive votazioni.
In altri termini, la sostituzione del partito a una coalizione come destinatario del premio elettorale è di per sé una fortissima sollecitazione per l’introduzione in Italia di un sostanziale bipartitismo, che potrà evitare i molti inconvenienti che l’esperienza ha fatto emergere nel tradizionale parlamentarismo da “democrazia latina”, che nella Repubblica ha rinnovato in Italia quelli del parlamentarismo prefascista.
Impedisce questo la vita dei piccoli partiti? Per nulla, solo ne muta funzioni prospettive e funzioni, vietando ad essi soltanto l’aspirazione a trasformarsi, con magrissime rappresentanze parlamentari, in elementi condizionanti e determinanti delle maggioranze di governo, sottoposte al defatigante e poco costruttivo stress di innumerevoli tensioni nascenti dai giochi e dagli interessi di ristretti gruppi politici e dei loro leaders. Il piccolo partito diventa, invece, una forza politica non necessariamente modesta e marginale, se sa trasformarsi in un fermento vivo e operoso del dibattito politico e culturale e in un gruppo autorevole e significativo per forza di idee e di rappresentatività della vita politica e sociale: più importante per gli stessi partiti maggiori dei loro elementi interni adagiati nel comodo gioco della loro maggiore consistenza elettorale. E tutto ciò assume, come è ovvio, molto maggiore importanza se il premio di maggioranza non viene attribuito.
In ultima analisi, la riforma elettorale in oggetto chiama tutti, partiti maggiori e partiti minori, a un salto di qualità nel gioco politico: i primi per esercitare con vigore e successo la loro primazia, i secondi per svolgere in questo gioco una funzione più degna e concretamente positiva di quella tradizionale del dispotismo dei voti marginali in parlamento.
Si parla anche di altro, a cominciare da una revisione del sistema delle competenze delle Regioni. Basterebbero, comunque, i due esempi che abbiamo fatto per dimostrare l’importanza, quali che ne siano per essere gli esiti, del primo anno di governo di Renzi. Che, tuttavia, non è rimasto chiuso nell’ambito delle riforme istituzionali. Ha svolto un’opera di governo che promette di dare qualche risultato visibile e positivo. Ha instaurato un gioco di rapporti internazionali, di cui non è ancora chiaro il quadro, ma che potrebbe riuscire più interessante di quanto oggi non si possa dire. Ha soprattutto modificato lo stile e il linguaggio della politica: col discorso sulla rottamazione dei “vecchi” (ma precisando che la rottamazione non dipende dall’anagrafe); con l’esclusione dei sindacati dalle consultazioni per il governo; con la larga immissione di giovani anche in posti di primaria responsabilità. Ha di fatto limitato fortemente la posizione e il ruolo di Berlusconi nel gioco politico italiano, come finora non era riuscito né a politici, né a giudici. Ha aperto e portato avanti discorsi di riforma anche su terreni delicati come la responsabilità civile dei magistrati.
Naturalmente, non tutto quello che Renzi fa e dice può riuscire sempre positivo e apprezzabile anche per chi guarda a lui e alla sua azione con simpatia. Né si può prevedere se alla fine la sua parabola si possa concludere in modo negativo per lui e per il paese. Quello che non si può discutere è che col governo Renzi un sistema politico-istituzionale da lunghissimo tempo ingessato (come si suole dire) qual è quello italiano è stato messo in moto, secondo, peraltro, quel che tutti, più o meno dicevano e, soprattutto pensavano. E bisogna pur convenire che l’esito di questa messa in moto non dipende soltanto da Renzi. Chi a lui – con maggiore o minore merito lo si vedrà poi – si oppone ne è storicamente e politicamente, in sia pur varia misura, corresponsabile.
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