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Parigi, 12 gennaio 2015: "Je suis Charlie"
di Ernesto Cilento
Difficile sottrarsi alla pressione degli avvenimenti parigini. Dell’evento, direi piuttosto, poiché tutto è sembrato costruirsi nei tempi e nei modi di un grande evento, con una regia sicura anche se del tutto imprevedibile, dal 7 gennaio, giorno del massacro nella redazione del Charlie Hebdo, al 12 gennaio, giorno dei “milioni” in piazza. Tutto corredato d’immagini e suoni carichi di pathos, di terrore, poiché è apparso subito evidente che si trattava di una biopic, di un drammatico documentario sulla complessità di una moderna metropoli.
Dalle prime immagini degli avventurosi giornalisti penetrati sui terrazzi adiacenti la sede di Charlie Hebdo, a quelle di altri che hanno riportato lo scontro tra gli djihadisti e la polizia accorsa sul luogo, ancora ignara della drammaticità dell’aggressione, fino alla barbara esecuzione del poliziotto ferito e in seguito trucidato. Poi i soccorsi per i numerosi feriti e i corpi dei morti trasportati fuori dall’immobile, più lasciati all’intuizione che visti sullo schermo.
In poche ore si riesce a documentare la caccia all’uomo da parte di un esercito di poliziotti perfettamente schierati, armati e seguiti da un gran numero di giornalisti. Informazione scarna e in contrasto con il rapido sviluppo degli avvenimenti.
Quel che sembrava contare, per la regia occulta, era il tempo in cui il cerchio si sarebbe chiuso. L’inchiesta, sviluppata in parallelo, lasciava capire che i fuggiaschi non avevano alcuna speranza di sfuggire alla caccia, la loro identità era già nota, come le loro facce trasmesse da tutti i telegiornali del mondo. Due fratelli, la cui giovinezza era trascorsa tra piccoli crimini, galera e approdo al riscatto grazie all’islam djihadista. Brevi permanenze nei campi di addestramento siriani ed eccoli pronti ad agire come una cellula del terrorismo odierno, un po’ come la cellula di un tumore, assolutamente anarchica e imprevedibile.
La reazione del corpo sano non poteva mancare. Un giovane eroe non fugge di fronte al pericolo, ma fornisce le informazioni utili al finale dell’azione drammatica. Il telefono cellulare, espressione simbolica della potenza tecnologica diffusa e alla portata di tutti, conferma il suo ruolo centrale, non solo nella documentazione, ma anche nello sviluppo dell’azione. Le informazioni trasmesse dall’eroe arrivano via sms alla polizia e permettono all’esercito di chiudere l’operazione con successo. I due terroristi sono uccisi dopo un rapido scontro a fuoco.
Nel frattempo un altro terrorista, complice di un piano che rasenta la follia, penetra in un supermercato ebraico e prende in ostaggio tutti i clienti. L’ultimo atto sarà il salvataggio di tutti dopo l’uccisione di quattro sventurati e dello stesso terrorista, che tuttavia lascerà traccia delle sue intenzioni in una sorta di testamento affidato a un video, che la regia riproporrà, al fine di rendere evidente che l’azione aveva un carattere militare ed era ideologicamente predeterminata.
Le piazze, fin dal primo giorno, diventano “noires de monde”, espressione francese che rende bene il fatto che una moltitudine di donne e uomini riempiono le pubbliche vie ed intendono reagire, ricordare le vittime della follia omicida. Immancabili fiori sui luoghi dell’aggressione. Piccole candele accese dappertutto in Francia. Dopo quattro giorni l’emozione dei cittadini è al culmine. Tutti sono chiamati a darsi una risposta, a fornirne una a qualcuno, magari ai propri figli. Anche la parte politica appare del tutto incapace di trovare una risposta immediata. Tutti prendono coscienza dell’enormità dei contorni dell’evento.
Certo non si tratta degli aerei lanciati sulle torri, apparsi in qualche secondo sugli schermi di tutto il mondo, non è l’attacco ai simboli dell’odierno impero.
È, invece, sotto attacco il ruolo di Parigi nella prima definizione dei diritti del cittadino, nella creazione delle costituzioni che aprono l’orizzonte della nostra coscienza, del nostro vivere collettivo, dei diritti dei popoli, del rispetto delle culture, del tentativo di comprenderne l’intima struttura, dal linguaggio alle credenze.
Vengono evidenziate le contraddizioni del rapporto con la componente araba da lungo tempo radicata nel tessuto culturale e urbano della città. La migliore integrazione a fianco della peggiore ghettizzazione. L’istituto del mondo arabo sotto la direzione di un uomo simbolo della gauche, Jack Lang, e la banlieue in fiamme che produce manodopera per la djhiad, per il terrorismo dell’Isis.
È violentato il potere evocativo di Parigi, la città simbolo del piacere costruito nei secoli, del perfetto weekend di milioni di viaggiatori, del profumo e del cibo che addolcisce la vita, della torre illuminata e dei quais che fanno da scenografia ai bateaux mouches e ai film di Woody Allen. C’è tutto ed è questa complessità che immediatamente salta agli occhi. Una complessità che non si lascia rinchiudere, all’americana, nella abusata semplificazione dei buoni e dei cattivi.
Ci si rende conto, tutti, che Parigi è un cuore del mondo, una capitale storica del mondo, un patrimonio della coscienza del mondo. Siamo di fronte ad un attacco che cerca di minarne le basi, che si fonda sull’idea di un suo rapido declino nella crisi economica, di una decadenza dell’intera cultura occidentale, incapace di rinnovarsi, di trovare risposte, in primo luogo alle vecchie e nuove forme di contraddizioni con il mondo arabo.
Bisogna reagire, immediatamente. Con i tempi dettati dalla regia dell’evento.
Una marcia, che sembra un risveglio, una manifestazione di una complessità che non si lascia rappresentare, qualcosa che sfugge alla stessa regia, che mostra il nocciolo duro del problema che non si riesce a risolvere, ma che tutti siamo chiamati per lo meno a identificare. Anche la politica sceglie di marciare, chiamando a raccolta altri governanti solidali e, perfino, i due esponenti simbolo dell’incapacità occidentale ad affrontare la difficoltà del rapporto con la cultura araba: Netanyahou e Abou Mazen. L’esercito tutela l’incolumità di tutti i partecipanti ma la sicurezza sembra essere piuttosto frutto di quel fiume inarrestabile di persone che invade ogni piccola strada, ogni grande piazza, ogni schermo televisivo, di tutte quelle bandiere che sventolano accostate ai piedi della statua di Marianne: turche, marocchine, tunisine, francesi, tedesche, brasiliane, messicane…
Tutti si sentiranno protagonisti dell’evento, parte di quella complessità da analizzare, ognuno nel suo racconto cercherà di rifiutare quella stessa complessità, cui nessuno riesce a sottrarsi.
Nella cabina di regia la consolle riporta lo stesso avvenimento inquadrato da infinite telecamere, le diverse prospettive moltiplicano la visione come in uno specchio deformante. La regia finisce con lo scegliere del tutto casualmente le immagini da lanciare sullo schermo. L’avvenimento sembra restare lo stesso per i numerosi particolari che contribuiscono a identificarlo, eppure l’osservatore non riesce a fissare l’immagine e l’evento perde i suoi connotati definiti, si sottrae a una definizione certa.
Quale condizione migliore per verificare che la regia era già determinata, l’evento non poteva che avere quello sviluppo, che la scenografia è stata scritta con la partecipazione di tutti. Che i ruoli restavano attribuiti e fissati da lungo tempo. Il risultato resta indefinito, poiché esprime una cultura di fronte ai suoi problemi, un insieme complesso di fronte alle sue incapacità.
Francesi e Arabi, intellettuali e giornalisti, politici e poliziotti, credenti e atei, giovani e anziani attoniti, cercano la forza per accettare quanto sta avvenendo, ricorrendo ai concetti fondamentali di libertà, fraternità, uguaglianza. Si alza il canto della marsigliese, triste. La complessità frutto della diversità cerca un momento di unità profonda e lo trova in una forte dimensione emotiva.
Quel che, alfine, la regia può verificare con certezza è l’assenza di un concetto univoco di verità dell’evento. Quale condizione migliore per offrire a tutti, finalmente, un terreno di costruzione di verità, della verità di ciascuno, di quella di cui occorre rendersi responsabili, di quella che ci serve per vivere.
Le foto restano ora lì, mute, a mostrarci qualcosa, uno spaccato che rimanda all’esperienza che ognuno ha condiviso con milioni di altri. Una folla colorata, una citazione che permette al ricordo di funzionare, di collegare quell’immagine a una forte sensazione, a una domanda, quella che ciascuno non dovrebbe mai evitare di porsi: “E ora?”.
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