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Ponte Vecchio
di Patrizia Boldoni
Ponte Vecchio mai così nuovo: veramente, quest’anno, l’anniversario del 25 aprile ha avuto, a Firenze, un sapore diverso. Allestito con decine di tavoli affacciati sull’Arno, il “ponte fra cultura e libertà” ha assistito all’afflusso di migliaia di persone, pronti a consumare, sulle note sempreverdi di “Bella ciao”, una merenda da pochi euro, il cui ricavato è stato destinato ad incrementare i fondi necessari al restauro del Battistero, già sostanziati dalle iniziative della campagna “Abbracciamo il Battistero” e dalle offerte raccolte nei vari supermercati. Protagonista assoluta di tutto quest’articolato sistema d’iniziative, l’Unicoop-Firenze, che è riuscita a portare avanti, per la prima volta in Italia, un’operazione di crowdfunding, ovvero di una raccolta fondi popolare con la forte finalità sociale del restauro di un monumento cittadino, un finanziamento collettivo per il bene pubblico. Questa, secondo illustri storici del settore, come Tommaso Montanari, potrebbe essere la chiave di volta del nuovo mecenatismo “popolare”, il modo corretto di difesa e sviluppo dei beni culturali italiani. “Il punto non è solo il restauro materiale - insiste Montanari - quanto il restauro dei nessi morali, sociali, costituzionali che legano il popolo alle pietre”. Come non dargli ragione? Qualche dubbio sorge, però, quando si dà per facilmente esportabile, in tutta Italia, questa possibilità d’intervento, o si porta a splendido esempio la pratica del mecenatismo in Francia, al Louvre in particolare. Ma non è forse stato lo stesso Montanari a denunciare il caso del misterioso giovane sudcoreano Ahae che ha organizzato, con l’allora direttore del Louvre, sontuose mostre fotografiche, dietro così cospicue donazioni da far apporre, come pubblica consacrazione, il proprio nome sulle pareti storiche del museo, tra quelli dei grandi benefattori? Salvo poi scoprire che questi altri non era che un maturo e ricco imprenditore sud coreano, con trascorsi giudiziari inquietanti e coinvolgimenti in vicende oscure e tragiche del suo paese. Brutta storia che deve far pensare.
Un recente incontro, tenuto all’Università Suor Orsola di Napoli, su “I nostri beni culturali. Le nuove frontiere”, nell’ambito del ciclo “Il sabato delle idee”, ha offerto, su questi argomenti, più di uno spunto di riflessione; intanto la statura dei presenti, dallo stesso Montanari, a de Castris, fino a Giuliano Volpe, presidente del Consiglio Superiore dei BB.CC., nonché il contenuto stesso, proposto come trasversale a livello europeo, hanno consentito un approfondimento allargato del tema del nostro patrimonio culturale. Che deve essere considerato, hanno fatto osservare tutti i relatori, non come altro da noi, ma come carne e sangue del nostro presente e del nostro stesso vivere civile; e, non solo, come è ovvio, chiave della comprensione del nostro passato fondante, ma anche caldo magma da cui trarre la base delle categorie di incidenza per il nostro futuro. Montanari ha a lungo insistito sul disimpegno delle strutture statali, preposte alla difesa del patrimonio artistico-culturale del nostro paese, facendo notare che altrove il problema della conservazione del patrimonio culturale è tenuto in ben altro conto, tanto da prevedere, in quasi tutta Europa, largamente più del doppio degli investimenti stanziati in Italia. Da noi, polemizza lo storico, il mantra risolutivo appare essere quello dell’ingresso dei privati, fideisticamente considerati quasi supplenti delle funzioni che in realtà dovrebbero spettare solo allo Stato, all’unico organismo collettivo che non dovrebbe mercificare la fruizione del bene culturale. Viene citato come esempio abnorme il Colosseo, “adottato” da Della Valle non per generoso mecenatismo, ma per realizzare una grande operazione di marketing e/o per trarne vantaggi fiscali. Verrebbe da pensare che non è poi gravissimo, visto che le Soprintendenze si sono riservate rigide operazioni di tutela, visto che i bilanci governativi non consentono facilmente operazioni di restauro di quel livello, visto che è meglio avere un monumento restaurato e godibile, anche se lo chi rende tale ne trae vantaggio, piuttosto che un monumento chiuso al pubblico, magari per precarietà delle strutture. Perché, poi, un bene pubblico così restaurato escluda dalla cultura le fasce povere, come Montanari esplicitamente afferma, questo non si capisce:non credo che ci saranno biglietti a costi inversamente proporzionali allo status economico dei visitatori! Piuttosto lo storico sembra avere negli occhi e nella mente solo l’esperienza del Battistero di Firenze, di cui si diceva prima. “È il popolo che torna al centro”, queste le sue parole. Ma non è il popolo, è l’Unicoop, ovvero la più importante cooperativa italiana che si è mossa, un gruppo che, con quasi un milione e mezzo d’iscritti, fa sentire con forza il suo peso sociale e politico e la sua capacità di aggregazione; il cui scopo è quello di affrontare in modo competitivo lavoro e mercato, con modelli di sviluppo sostenibile e con una progettualità di ampio respiro, calmierante, e rispettosa dei principi di solidarietà e cooperazione: è il modo moderno e più giusto di produrre e dare lavoro. Non c’è dubbio che anche a Napoli saremmo felici di affidare il restauro dei nostri monumenti o la conservazione del nostro patrimonio artistico a un gruppo di tal genere; ma il sistema cooperativistico da noi è ancora abbastanza immaturo, come immaturo è il nostro sistema sociale, frammentato e non in grado di fare corpo, perché rispecchia, come altrove, il sotteso tessuto sociale, da noi disaggregato ed incapace di riconoscersi in una precisa e solidale identità sociale, di gruppo, politica. Abbiamo bisogno di tempo; perciò, se il mecenate “interessato” è la strada per arrivare al mecenate “collettivo”, ben venga.
Nel Convegno di Suor Orsola, il più moderno e realista ci è sembrato il professor Volpe che, andando oltre la sacralizzazione del “bene culturale”, e sottolineandone la valenza come fonte di lavoro e di ricchezza per il paese, ha spiegato come la vera conservazione del nostro patrimonio culturale passi per il rinnovamento della sua fruizione. Per arrivare a tanto, è necessaria, prima di tutto, una nuova classe dirigente del settore; che andrebbe formata, secondo lui, in strutture simili a Policlinici, per avere professionisti specializzati: il bene culturale, per la sua conservazione, dovrà passare da quelli capaci di diagnosi specifiche ad altri professionisti che sappiano utilizzare terapie specifiche. Altrettanto necessario, per Volpe, è affiancare al bene culturale, quei servizi aggiuntivi, come ristoranti, spazi per bambini, oasi di riposo per anziani, strutture di supporto, che facilitino la fruizione del bene stesso, rendendolo popolare. Questa volta non in modo astratto ma reale.
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