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Vecchi e nuovi
di Giuseppe Galasso
Quando proprio non si sa più cosa obiettare a certe analisi e a certi giudizi, si esibisce spesso la terribile obiezione che quelle analisi e quei giudizi sono elaborati in base a categorie di alcuni decenni o di un secolo fa. Lo si sente ripetere sia in materia politica, sia fra gli storici che fra i politologi.
Si tratta, invero, di una osservazione che, specialmente fra i meno esperti, fa sempre un po’ di impressione. L’oggiornamento di tecniche e metodi di ricerca e delle logiche disciplinari è una esigenza primaria di ogni lavoro di studio in qualsiasi campo di studio. E, tuttavia, come suol dirsi, c’è sempre un ma.
Nel nostro caso il ma è costituito dalla circostanza indiscutibile che vi sono elementi nucleo forti di merito e di metodo per cui in ogni disciplina ci si deve e si deve rispondere, ineluttabilmente, a determinate domande; e, se non lo si fa, si va senz’altro fuori di strada, sia rispetto al passato che rispetto al presente.
Nel caso, poi, specifico del Mezzogiorno si è spesso invocato e, sebbene (mi sembra) un po’ di meno, si torna spesso a evocare un nuovo discorso. Si ripeteva, e anche in ciò un po’ meno si ripete oggi, che al Mezzogiorno si deve guardare con altri occhi, con altri criteri: occhi e criteri freschi, di giornata.
La predica è legittima, se vogliamo. Spesso nasconde, però, intenti polemici, che non meritano attenzione, oppure la convinzione o un wishful thinking di rappresentare il Mezzogiorno in modi, secondo moduli o in proiezioni che non possono essere accettati, perché fuorvianti e perfino dannosi all’immagine del Mezzogiorno stesso e alle sue esigenze nel contesto nazionale.
Così è accaduto negli anni scorsi, quando si diceva che la “questione meridionale” era obsoleta che il divario fra le due Italie non fosse più il caso di parlare: era un criterio vecchio di mezzo secolo. Così quando si diceva che al Mezzogiorno bisognava guardare come a un “qualsiasi altro pezzo di mondo”; e che, perciò, chi rivendicava la necessità di considerare specificamente gli aspetti storici e strutturali per cui il Mezzogiorno è il Mezzogiorno e non è un “qualsiasi altro pezzo di mondo”, seguiva moduli vecchi, categorie non più accettabili. Così viene ritenuta passatista e (ahimé!) “risorgimentale”, e persino antimeridionale. Il semplice richiamo a considerare che la “questione meridionale” ha una genesi molto più complessa di quella riassunta nella “rapina” e immiserimento del Mezzogiorno a seguito della “invasione piemontese” del 1860. E peggio ancora se poi si osa ricordare che in questa più complessa genesi i meridionali hanno una parte non minore, anzi più determinante, che non il Nord.
Fatto sta, però, che l’articolazione territoriale dei processi di sviluppo, le strutture economiche e sociali dualistiche, i rapporti di subalternità e dipendenza e, insieme, di complementarità che tali strutture determinano, lo “scambio ineguale” come logica mercantile dei rapporti fra aree a diverso livello di sviluppo: tutti questi, e altri simili, criteri di analisi e di giudizio, che ricorrono quando si parla di Mezzogiorno e di questione meridionale, non sono categorie, o linee di ricerche e di elaborazione economica o storico-economica, in ritardo di cinquant’anni e più. Se si vuole, sono anche alquanto più vecchie. Nascono, infatti, con tutta la prima grande fase del pensiero economico moderno, tra la metà del ’700 e la metà dell’800. Non si vede, però, come di tali categorie, che formano un hard core imprescindibile di presupposti teorici e tecnici, si possa fare a meno.
Poi, certo, il pensiero economico conosciuto dalla metà dell’800 a oggi ha avuto uno sviluppo non minore che tra ’700 e ’800, e il suo panorama di concetti, di idee, di strumenti operativi si è formidabilmente arricchito. Nessuno, però, ha mai detto che quel nucleo duro o hard core cui abbiamo accennato debba essere abbandonato. Ci mancherebbe altro.
Nel pensiero economico così progredente e avanzato sono rientrate molto per tempo anche una teoria dello sviluppo e molte (e anche molto diverse) indicazioni degli strumenti e delle varie normative ed economico-finanziarie che possono portare dello sviluppo.
È il caso delle politiche speciali e degli interventi straordinari a cui si pensa per il Mezzogiorno dai primi anni del ’900 e soprattutto dopo il 1945. È stata una pagina importante, e anche meritoria della storia italiana. Una pagina che si ha torto a ritenere tutta di fallimenti e di inconcludenze, per giunta costosi. Ed è anche una pagina che molti dei “motivi”, di coloro che reclamano la necessità di rinunziare a vecchie categorie e di pensare a cose nuove, vorrebbero riaprire, auspicando un rinnovato (e, naturalmente, nuovo) intervento nello Stato.
Si dà il caso, intanto, che molti di quelli legati alle vecchie categorie meridionalistiche non pensino più (e noi ci ascriviamo fra questi) ai “vecchi” strumenti delle politiche speciali e degli interventi straordinari, e non pensino neppure più che dello sviluppo del Mezzogiorno debba essere promotore e protagonista indiscusso lo Stato. Hanno altre idee, altri punti di vista. Pensano a una politica per il Mezzogiorno totalmente compresa nella generale politica dello Stato, senza farsi del Mezzogiorno un problema a sé, ma risolvendolo nella scelta della politica nazionale in modi e in misure convenienti al rilievo e alla natura dei problemi meridionali. Così per le tasse, così per le infrastrutture, così per ogni altro investimento produttivo, così per le verità: così, insomma, per tutto.
Pensano che di effettivamente nuovo nella generale problematica meridionalistica vi siano soprattutto i tre grandiosi fenomeni della seconda metà del ’900: la fine del mondo bipolare; L’Unione Europea; la rivoluzione informatica e tutti i progressi mirabili dalla tecnologia in ogni campo; e la forte accelerazione di quella che chiamiamo globalizzazione, già in corso da molto tempo, ma che ora ha assunto una estensione generale e un ritmo incalzante. Nessuna questione italiana, e quindi, neanche quella italiana, può prescindere da un tale contesto, e all’interno di esso vanno, perciò, collocate e studiate le specificità italiane e meridionali.
Questo cambia il quadro fondamentale delle categorie che costituiscono i punti più fermi del pensiero economico moderno? Occorrerebbe che qualcuno ce lo dimostrasse. Lo stesso Picketty, che tanto rumore ha sollevato col suo libro, svolge le sue interpretazioni e questioni sul XXI secolo partendo da quelle categorie e tenendole ben ferme. Né avrebbe potuto fare altrimenti.
Come si vede, il problema non è di essere nuovi o vecchi per principio. Nelle cose del mondo serve tutto, il nuovo e il vecchio; e una delle ragioni determinanti per cui così spesso i “nuovisti” falliscono è proprio in ciò, ossia nella loro scarsa considerazione del complesso rapporto, da cui non si può prescindere, fra nuovo e vecchio.
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