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Waterloo e Napoleone
di
Giuseppe Galasso
Su Waterloo Napoleone, a Sant’Elena, non aveva alcun dubbio. Diceva di essersi chiesto innumerevoli volte che cosa egli avesse sbagliato in quella giornata per lui non solo decisiva ma conclusiva. La risposta era sempre la stessa. Di sbagliato, nulla. La conduzione strategica e tattica della battaglia era stata ineccepibile. A ripeterla, avrebbe fatto lo stesso di tutto quanto aveva fatto allora. L’esito sfortunato, e per lui catastrofico, di quella giornata era stato tutto e soltanto effetto della sfortuna, della cattiva sorte che lo aveva atteso a quel drammatico appuntamento.
Si può capire. Un uomo come lui era stato condannato dalla cattiva sorte in quella battaglia a ingannare quotidianamente il tempo fino «al tacito morir d’un giorno inerte», pensando e ripensando alla febbre di azione che era bruciata in lui per vent’anni; pensando e ripensando «le mobili – tende, e i percossi valli, – e il lampo dei manipoli, – e l’onda dei cavalli, – e il concitato imperio, – e il celere obbedir», come suona la superba, potente strofe manzoniana. E tutto questo era venuto meno per qualche errore commesso nel punto e nel momento decisivo? Non lo si poteva ammettere. No, non era solo una banale spinta all’autogiustificazione per quella seconda e definitiva caduta nella polvere, dopo di essere stato per due volte sul più potente trono d’Europa. Non era un ancor più banale «scusa non richiesta», che per ciò stesso si possa considerare una «accusa manifesta». Era qualcosa di intimo, molto più profondo. Nasceva da un colloquio col suo destino: un colloquio che egli aveva tenuto da sempre in se stesso, e dal quale era stato sorretto nella sua marcia trionfale ai vertici della grandezza storica e politica, sentita come un destino immancabile di vittoria su tutto e su tutti, un decreto incontrastabile del fato. Poi le nevi di Russia e la polvere di Waterloo lo avevano dissolto. Ma egli poteva mai credere che quel destino gli avesse mentito, facendogli sbagliare l’ultima e decisiva mossa?
Fuori da ogni sondaggio più o meno pretenzioso e ipotetico nello spirito del grande sconfitto di Waterloo, la sua opinione che in nulla egli avesse sbagliato quel giorno non era del tutto infondata. Si sa che dopo le prime tre o quattro ore di battaglia la sua vittoria si era tanto nettamente delineata che si cominciava a fargliene le congratulazioni; e nessuno può fare a meno di pensare che, non fossero intervenuti i prussiani di Blűcher ma Grouchy che errava a vuoto a non grande distanza, l’armata di Wellington sarebbe uscita distrutta dallo scontro. Del resto, si è sempre notato che le perdite francesi a Waterloo non furono in sostanza maggiori di quelle inglesi e prussiane, e che le forze di Napoleone uscirono battute e piegate, ma non annientate. Che poi, pur vincendo a Waterloo, le cose non sarebbero potute andare per lui, dopo, in modo drasticamente diverso da quel che accadde, e che vincere una battaglia era ancora molto lontano dal vincere quella guerra, è un altro discorso.
Che non vi fosse proprio nulla da osservare sulla conduzione della battaglia del 18 giugno, non si può, tuttavia, dire. La guerra in Spagna e Portogallo gli avrebbe dovuto far valutare meglio la tattica di Wellington, che schierava i suoi quadrati costantemente dietro il crinale di una qualsiasi anche piccola altura, ed evitava così parecchi effetti immediati di un attacco frontale. Allo stesso modo, avrebbe potuto valutare meglio la differenza, di circa tre volte, nella potenza di fuoco dello schieramento in linea retta degli inglesi rispetto a quello dello schieramento e dell’attacco in colonna: la magnifica resistenza dei quadrati della Guardia imperiale quando le cose erano ormai decise lo conferma. Ed era poi necessario tutto quell’indugio e quell’accanimento sulla fattoria della Belle Alliance, che costò molto tempo agli attaccanti, quando la si poteva, secondo alcuni, lasciare bloccata assediandola con un moderato impiego di forze?
Già : il tempo. Se fosse cominciata tre o quattro ore prima delle undici, quando iniziò, la battaglia avrebbe potuto concludersi prima dell’arrivo dei prussiani? È un’ipotesi difficile a farsi per quei giorni di pioggia e di terreno molle. Invece, alcuni rilevano che Napoleone, contrariamente al suo solito («in guerra, la perdita di tempo è un male irreparabile», scriveva nel marzo del 1806 al fratello Giuseppe) parecchio tempo lo perse prima della battaglia.
Un napoleonista convinto, militare di professione, nota che il 15 giugno aveva perduto cinque ore, dando modo di fuggire ai prussiani che aveva battuto. Aggiunge che «nella notte fra il 16 e il 17 ha perso quindici ore» e, «invece di inseguire fino all’ultimo l’armata battuta di Blűcher, l’ha lascata raggiungere Wavre, e poi se l’è ritrovata a Waterloo». Anche il 17, alla vigilia, invece di operare una delle sue geniali mosse che poteva avere a portata di mano, «si attarda a Fleurus, visita in vettura il campo di battaglia, passeggia a cavallo a Ligny e a Brye, consola i feriti, intrattiene i suoi generali sulla politica giacobina, liberale, gioca all’imperatore secondo l’immagine di Épinal» (Henry Lachouque, La battaglia di Waterloo, ed. Castelvecchi). E lo stesso autore nota pure che, sempre contro i suoi stessi principii, egli seguì il nemico sul campo di battaglia da lui scelto, invece che sceglierlo egli stesso, e non operò il massimo concentramento possibile delle sue forze.
Sono, ovviamente, critiche del giorno dopo, che inficiano, comunque, la sicurezza professata a Sant’Elena di non aver nulla sbagliato. Critiche che confermano, insieme, il giudizio di quelli che lo videro, nei suoi Cento Giorni, diverso dal fulmine di guerra della prima campagna d’Italia o di Austerlitz e altre cento battaglie: appesantito, facile alla stanchezza, e anche un po’ torpido e lento. E, tuttavia, era ancora lo stratega di cui, quando prese a marciare su Bruxelles dividendo gli inglesi dai prussiani, Wellington diceva che faceva “onore alla guerraâ€. Contrariamente, però, alla sicurezza ostentata a Sant’Elena, «sentivo – diceva ai suoi compagni di prigionia – la fortuna abbandonarmi. Dentro di me non avevo il presentimento del successo finale. Non osare vuol dire non fare niente al momento opportuno, e non si osa se non si è convinti della buona fortuna».
Decisamente, il fato bussava alla sua porta in quei giorni del 1815, e non era il fato della sfortuna: era il respiro di una storia che stava andando già da un po’ oltre di lui.
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