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La libertà personale dell'imputato e la responsabilità civile del giudice*
di Achille Battaglia
Questo saggio fu pubblicato da Achille Battaglia nella «Rivista penale», nov.-dic. 1949, fasc. 11-12. Lo ripresentiamo qui, a distanza di sessantasei anni, per la sorprendente freschezza di attualità e di argomentazioni che esso presenta nelle interminabili, e, per lo più, inconcludenti discussioni, ancor oggi, sullo stato della giustizia in Italia e sui suoi problemi. Il che – se da un lato attesta la grande acutezza e dottrina dell’autore – dall’altro dice fin troppo sulle paradossali difficoltà che si frappongono in Italia a un’azione seriamente, fecondamente e positivamente riformatrice anche quando si tratta di problemi primarii e macroscopici come quello della giustizia, e che condannano il paese a restare indefinitamente nella retroguardia delle grandi democrazie europee.

[g. g.]





1 - Alcune mie osservazioni sulla libertà personale dell’imputato, sulle norme di legge che la garantiscono, e sulla responsabilità del giudice che volontariamente le violi, hanno richiamato l’attenzione, per me lusinghiera, di Ernesto Battaglini1. Egli afferma recisamente che nel diritto positivo vigente la responsabilità del giudice è limitata al caso di dolo, e non può estendersi a quello di colpa, lieve o grave che sia; e dice le ragioni per cui «questa limitazione della responsabilità civile del giudice in confronto di quella di altri funzionari dello Stato» non debba considerarsi un ingiustificato privilegio, ma sorga necessariamente dalla stessa natura della funzione giurisdizionale, che è esplicazione diretta della sovranità dello Stato, e pone il giudice al di sopra dell’obbligo di render conto alle parti della diligenza o della perizia con cui ha esercitato la sua funzione.
Trasferita su questo piano, la discussione investe direttamente alcuni problemi fondamentali dello Stato moderno: le prerogative della magistratura, il suo ordinamento, e l’affermazione che in questo stesso ordinamento dovrebbe ricercarsi non solo la tutela dell’indipendenza del giudice, ma anche quella dei diritti del cittadino. Ma prima che la controversia si dilati, e prima che io mi lasci vincere dalla tentazione di esporre qualche modesto rilievo in proposito, mi preme ricondurla al punto di partenza.


2 - Il punto di partenza è nella «antipatia» che incontra presso alcuni giudici istruttori «l’istituto della scarcerazione per decorrenza di termini», e, soprattutto, è negli espedienti illegali a cui essi talvolta ricorrono per eludere questa modesta guarentigia della libertà personale dell’imputato. Ne ho citato qualche esempio. Ho scritto che si tratta di atti intenzionalmente diretti alla violazione di diritti garantiti dalla carta statutaria; ho indagato sulle sanzioni che la legge stabilisce contro queste intenzionali violazioni di diritti; ed ho concluso che la sola sanzione efficace, prevista e consentita dalla legge, e solennemente confermata dall’articolo 28 dalla Carta Costituzionale, e appunto da ricercarsi nella responsabilità civile del giudice per i danni arrecati all’imputato.
Sono caduto in errore? Ernesto Battaglini contesta in modo particolare un mio augurio: l’augurio, cioè, che l’articolo 28 della Carta Costituzionale induca la giurisprudenza «a interpretazioni meno restrittive di quelle fornite finora, sia affermando la responsabilità dei funzionari anche per gli atti “jure imperii”, sia estendendola ai casi di colpa lieve o, lievissima». Qui siamo in tema di previsioni: e, su questo terreno, possono anche consentirsi le speranze più infondate! Ma a prescindere da ogni aspettativa per il futuro, fondata o infondata che sia, (io stesso tra l’altro, scrivevo: «non mi illudo che le resistenze della burocrazia, e, quindi, della giurisprudenza, vengano meno: diverranno, forse, più tenaci»!); a prescindere da ciò, può disconoscersi che oggi – alla stregua del diritto positivo vigente – nei casi da me prospettati – l’imputato abbia il diritto di chiedere conto dell’illecito compiuto ai suoi danni, e di ottenere un risarcimento?
Mi sembra che neppure il mio illustre contradittore voglia contestarlo. Egli dice, bensì, che il giudice risponde dei danni soltanto nei casi di dolo, e non in quelli di colpa: ma nei fatti da me denunciati non ricorre affatto un caso di colpa, appunto perché si tratta di una condotta intenzionalmente diretta a violare la legge e a cagionare l’evento!
Quel giudice istruttore, per esempio, che, decorsi i termini di custodia preventiva, non provveda alla scarcerazione dell’imputato, e ne disattenta ogni istanza in proposito, fino al giorno in cui, emettendo la sentenza di rinvio, non si creda in condizione di poterlo nuovamente catturare nel momento stesso in cui lo escarceri, non è in colpa. È in dolo: anche se questo dolo non sia colorato da alcun interesse personale, e anche se l’«animus nocenti» non sia del tutto a fuoco nella sua coscienza, o vi sia sopraffatto dall’«eccesso di zelo». E sarebbe errato parlare invece di semplice colpa, e cioè di evento non voluto, appunto perché il giudice, sovrapponendo la propria volontà a quella della legge, che gli era ben nota, ha cagionato di proposito la illegale permanenza in carcere dell’imputato che sapeva di dover escarcerare.
In questo caso, dunque, e in tutti gli altri del genere, il giudice sarebbe sempre tenuto al risarcimento dei danni, anche se fosse certo, e pacifico, che la legge lo esoneri da ogni responsabilità per colpa.


3 - Altro discorso sarebbe se il giudice mantenesse in carcere l’imputato oltre i termini di legge per un semplice errore nel computo di esse. Ecco un vero caso di colpa: ed è esatto che, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti, egli non dovrebbe risponderne.
Senonché, altra cosa è la dottrina ed altra è la legge. E non riesco a condividere le recise affermazioni del mio illustre contradittore, sia in relazione al diritto positivo vigente, sia, e tanto meno, all’antico diritto Romano.
Può ben darsi, infatti, che la lex «si filius familias» – citata, dalla maggior parte degli autori, a sostegno della responsabilità del giudice romano nel caso di colpa – debba invece interpretarsi secondo quanto vuole l’Albertario ed accetta il Battaglini. Non ho competenza a giudicare. Ma sta di fatto che tutti i trattatisti ricordano numerosi altri passi e frammenti su cui si fonda l’opinione da me citata2; ed oso dire che non può aprirsi un trattato od un capitolo sulla colpa senza vedere ricordato, fino alla noia, che «la legge romana indiceva la responsabilità del giudice anche per colpa»3.
Certo, bisognerebbe distinguere il periodo repubblicano (durante il quale i giudici disponevano di imperium, ed i cittadini ebbero a propria difesa la «provocatio»), dal periodo augusteo e giustinianeo durante il quale si attuò il processo di accentramento di tutto l’imperium nelle mani del principe, e questi, nel proprio interesse, intese la necessità di liberare i magistrati da ogni responsabilità per l’ufficio e le funzioni esercitate in suo nome. E questa distinzione ci aiuterebbe a comprendere ciò che avvenne durante l’inverso processo centrifugo dell’era barbarica e feudale, e ancora, e poi, durante il periodo in cui si andò formando lo Stato moderno, nuovamente e superlativamente accentrato.
Certo è che i rapporti tra Stato, giudici, e cittadini, non furono sempre gli stessi: e talvolta i cittadini difesero le proprie libertà appellandosi al Re o alla Chiesa, contro i giudici, e talvolta si appellarono ai giudici contro il Re4. Ma quando i governi e le amministrazioni si posero risolutamente dinnanzi al proprio funzionario per fargli scudo, e con una apposita legge comune, o, addirittura, con legge costituzionale, sancirono solennemente impedimenti e limitazioni alle loro responsabilità in sede giudiziaria, fu un giorno di grande importanza nella storia della libertà moderna5. Le ragioni giuridiche, filosofiche ed etiche che vennero addotte non hanno soverchia importanza. Ciò che importa notare è che la limitazione di responsabilità dei funzionari (compresi i giudici), è un fenomeno correlativo a quello dell’accentramento, sia nella storia romana che in quella moderna, e che questo progressivo accentramento è, a sua volta, la nota più caratteristica dell’epoca nostra. Esso ha continuato ad attuarsi e ad intensificarsi anche mentre filosofi e giuristi discutevano della separazione e contrapposizione dei poteri, e comunque elaborassero contrastanti teorie, o dello «Stato di diritto», o dello «Stato etico» o della «Ragion di Stato», e sembra giunto al vertice nella teoria e nella pratica dello Stato socialista6.
Non può dunque meravigliare che nei nostri codici non esista più traccia delle sanzioni che una volta colpivano il giudice, per il «ritardo» di solo 48 ore nell’interrogatorio dell’imputato detenuto7, e che non sia più stabilito l’indennizzo dovuto al cittadino «per ciascun giorno di detenzione illegale». Ciò non significa, tuttavia, come vorrebbe il mio contradittore, che, secondo la legge attualmente vigente in Italia, la responsabilità del giudice sia espressamente limitata ai casi di dolo o di frode, e sia escluda nei casi di colpa. In verità non riesco a convincermene! E pur convenendo che un gran numero di trattatisti insegni ancora così, oso dire, in compendio, le ragioni del mio opposto pensare.


4 - La tesi dell’irresponsabilità del giudice nei casi di colpa è stata accolta con molta riluttanza dalla dottrina italiana del secolo scorso che la giudicò contraria «alla nostra tradizione storica». Anche coloro che ne divennero sostenitori (basandosi su una norma di legge che è, quanto meno, equivoca) non mancarono di muovere censure alla legge e di avanzare proposte di modifiche per l’avvenire. Primo, fra tutti, lo stesso Pisanelli, che a chiusura dell’argomento, augurava l’avvento di «una legge migliore che non solo allarghi ma renda anche reale ed efficace la responsabilità del giudice».
E chi come il Chironi accoglieva la tesi intermedia della responsabilità del giudice nei casi di colpa lata, sentiva tuttavia il bisogno di proclamare:
«Certo, sarebbe desiderabile che il magistrato dovesse rispondere non solo della colpa grave, ma di qualunque colpa a lui imputabile, essendo tale l’altezza del suo ministero, che male potrebbe essergli scusata la più piccola negligenza. Non è con disposizioni di privilegio – che possono condurre alla irresponsabilità per imperizia, condannabile specialmente nel giudice, chiamato a decidere questioni delicatissime e gravissime – bensì con l’estendere ad ogni pubblico ufficiale il principio ordinante la responsabilità per i danni dati colposamente che si rafforzano meglio le istituzioni».

«L’obbligazione di risarcire, come è guarentigia potente all’inviolabilità del diritto, dà pure sicurezza che nell’adempimento del pubblico servizio il funzionario ponga tutto lo zelo necessario. La liberazione da tale responsabilità è tutela ingiusta pei funzionari incapaci o negligenti, e non contribuisce alla dignità e al decoro dell’autorità giudiziaria».
E persino chi caldeggiava la interpretazione più restrittiva, come il Piola Caselli, e limitava la responsabilità del giudice ai soli casi di dolo, sentiva il bisogno di aggiungere: «la limitazione sostanziale della responsabilità giudiziaria ai soli casi di denegata giustizia, dolo e concussione non è razionale, e rappresenta un privilegio contrario allo spirito dei tempi. Essa giova solo ai magistrati negligenti, a danno, quindi, non solo delle parti, alle quali si nega il diritto al risarcimento del danno, ma della magistratura ed in genere della giustizia: perché magistratura e giustizia avrebbero un legittimo interesse a che i magistrati non consci della importanza e gravità della loro missione, siano soggetti all’efficace sindacato dei privati interessi. Il legislatore italiano adottando questo principio del diritto francese, disconobbe la nostra tradizione storica, che, a differenza della francese, mai coprì la magistratura di questa irresponsabilità privilegiata».
Dopo tutto ciò, è naturale che quanto ci si faccia ad esaminare il testo di legge da cui si fa discendere, così controvoglia, da tanti egregi giuristi, la limitazione della responsabilità giudiziaria ai soli casi di dolo, si resta profondamente meravigliati: appunto perché questo testo legislativo, e cioè l’art. 783 del Codice di procedura non giustifica affatto, e tanto meno costringe, alla interpretazione così concordemente … deplorata!
Dice infatti, l’art. 783 C.P.C. 1865:
«Le autorità giudiziarie e gli ufficiali del P. M. sono civilmente responsabili:

1 quando nell’esercizio delle loro funzioni siano imputati di dolo frode o concussione;

2 quando rifiutino di provvedere sulle domande delle parti o tralascino di giudicare o concludere sopra affari che si trovino in stato d’essere conclusi;

3 negli altri casi dichiarati dalla legge».

Nulla da osservare sulla ipotesi del numero 1. Su quella del numero due, invece, si è detto da più parti che il «rifiuto di provvedere» integra certamente un’ipotesi di dolo, mentre il «tralasciare di giudicare o concludere» può ben integrare anche un’ipotesi di colpa!
L’osservazione era pregnante, e poteva avere gli sviluppi più convincenti. Ma, a mio modesto avviso, i fautori di questa tesi si sono lasciati sviare da un terreno per verità solidissimo ed hanno preferito ricercare argomenti meno convincenti nella terza ipotesi dell’art. 783: «gli altri casi dichiarati dalla legge». Quali sono, si è detto, questi altri casi? Poiché essi non si rinvengono in norme di carattere particolare8, non può trattarsi che dei casi previsti dalla norma generale dell’art. 1151 C.C. che regola appunto la responsabilità per colpa. Ma si è replicato facilmente che se il legislatore avesse ritenuto applicabile la norma di carattere generale, non avrebbe inteso il bisogno di creare quella di carattere particolare. E d’altra parte l’inconveniente che si voleva evitare – e di cui concordemente si riconosceva la fondatezza – era appunto quello di lasciare esposti i giudici ad ogni azione di responsabilità, anche per pretesa «imperizia», da parte di litiganti accaniti o in mala fede: e a questo inconveniente non si sarebbe opposto alcun riparo «qualora si fosse lasciata aperta la grande via comune dell’art. 1151 C.C.».
Assai acutamente replicò il Saredo, dicendo che «le disposizioni del codice di procedura hanno per oggetto non di derogare all’art. 1151, ma soltanto di determinare alcuni fatti speciali, e di tracciare il procedimento da seguire nell’azione di danno». Ma, una volta messi su questa via bisognava giungere sino in fondo: e riconoscere che si trattava, invece, proprio di una deroga, sia pure di carattere quantitativo, e non qualitativo! Insomma, l’art. 783 C.P.C. non deroga già all’art. 1151 stabilendo che il giudice non debba rispondere mai per colpa: vi deroga stabilendo che debba risponderne soltanto nei casi espressamente indicati nella legge, e che sono tutti compresi o nel n. 2 dello stesso articolo 783 C.P.C., o nelle altre norme di legge (art. 294, ad es.) richiamate genericamente dal n. 3.
Questa costruzione che appare più fondata e più convincente d’ogni altra, non ha trionfato. Ma agli argomenti validissimi proposti dal Seredo dal Mattirolo dal Cesareo Consolo ecc., io mi permetto di aggiungerne un altro che, con qualche meraviglia, non ho visto esposto o ricordato da nessun trattatista e che, per mio conto, deve bastare da solo a dirimere ogni questione.


5 - Come è noto, l’art. 783 C.P.C. sostituiva, con una formulazione quasi identica, i precedenti articoli 622 e 623 del Codice Sardo, ed i consimili articolo 569 e 570 del Codice delle Due Sicilie. Trascrivo letteralmente i primi due:

«Art. 622 - i giudici e gli ufficiali del Pubblico Ministero sono civilmente responsabili nell’esercizio delle loro funzioni:

1° se vi fu dolo, frode, ecc.;

2° se vi fu denegata giustizia;

3° negli altri casi in cui la legge li dichiari responsabili».

«Art. 623 - la denegazione di giustizia consiste nel rifiuto di provvedere sulle domande delle parti, o sulla trascuranza di giudicare gli affari in stato di essere decisi».
Ora, mi sembra certo, e non si può seriamente contestare, che la trascuranza di giudicare costituisca un caso caratteristico di responsabilità per colpa. E ciò non solo perché nella trascuranza o negligenza è proprio l’archetipo soggettivo della colpa, ma anche perché, in questo articolo, la trascuranza di giudicare è contrapposta al rifiuto di giudicare, che costituisce la corrispondente ipotesi di dolo9. Si deve dire di più: si deve dire che tutto l’interesse della norma in esame consisteva, appunto, nella enunciazione di questa ipotesi colposa: giacché quella di «denegata giustizia dolosa» poteva senz’altro considerarsi compresa tra le ipotesi del n. 1 dello stesso articolo (a meno che non integrasse, addirittura, il reato di denegata giustizia, previsto e punito dai codici penali del tempo, e indicente sempre la responsabilità civile del giudice).
Non senza ragione, dunque, il Piola Caselli parlava di una tradizione giuridica italiana contraria alla irresponsabilità privilegiata dei giudici! Avrebbe potuto aggiungere che nei codici in vigore fino al 1865 la loro responsabilità per colpa era, anzi, espressamente dichiarata in numerosi casi particolari, e nel caso generale di «denegata giustizia colposa».
Orbene, basta leggere l’art. 783 C.P.C. per accorgersi che il legislatore del 1865 non volle con esso introdurre alcuna immutazione o modifica alle norme dei codici precedenti: eliminò la definizione contenuta nell’art. 683 Codice Sardo, ma ne ripetette, fedelmente, le due ipotesi di dolo e di colpa in esso contenute: il «rifiuto di giudicare o di provvedere sulla domanda delle parti», corrisponde, infatti, letteralmente, alla prima; e la espressione «tralasciare di giudicare o concludere sopra affari che si trovino in stato di essere decisi» corrisponde quasi letteralmente, e, ad ogni modo, sostanzialmente, alla «trascuranza di giudicare gli affari in stato di essere decisi».
Su cosa si fonda dunque la opinione che ha trionfato, poi, nella dottrina e nella giurisprudenza del secolo scorso, e secondo la quale il codice del 1865 avrebbe disconosciuto la nostra tradizione storica, ed avrebbe escluso, in ogni caso, la responsabilità del giudice per colpa? A mio modesto avviso si fonda soltanto su un errore di interpretazione, e sulla tendenza a non contrastare l’ulteriore processo di accentramento di poteri (inducente, naturalmente, la irresponsabilità dei funzionari) che si è svolto in Italia dopo la sua unificazione.


6 - L’Art. 783 del C.P.C. 1865, che ha dato luogo a tante discussioni, è stato ora abrogato e sostituito dall’Art. 55 del C.P.C. 1941. E l’esame di questa norma e, soprattutto, il suo confronto con quella dell’Art. 74 non solo mi conforta nella fondatezza della tesi, ma potrà indurre a considerazioni generali di qualche interesse.
L’Art. 55 detta: «il giudice è civilmente responsabile soltanto […] 2) quando senza giusto motivo rifiuta, omette o ritarda di provvedere sulle domande o istanze delle parti, e, in generale, di compiere un atto del suo ministero. Le ipotesi previste dal n. 2 possono aversi per avverato soltanto quando la parte ha depositato in cancelleria istanza al giudice per ottenere il provvedimento o l’atto, e sono trascorsi inutilmente dieci giorni dal deposito».
Quando si abbia sotto gli occhi il testo dell’Art. 783 e si continui il suo raffronto con l’Art. 55 attuale, e con gli articoli 622 e 623 Cod. Sardo, e 579 e 570 Cod. Napoletano, appare chiaro che non v’è ancora nulla di mutato: il «rifiuto di provvedere» corrisponde senza dubbio alla ipotesi di dolo, e il «ritardo di provvedere» corrisponde ancora una volta, puntualmente, al «tralasciamento» e alla «trascuranza» di giudicare: e cioè ad una ipotesi di colpa.
L’unica innovazione del codice attuale è nelle condizioni occorrenti perché «possa aver luogo l’azione civile» (come diceva il vecchio codice) o perché «le ipotesi del numero 2 possono aversi per avverati»10, come dice il nuovo. Mentre una volta era necessario che fossero state previamente notificate al giudice, per mezzo d’usciere, due istanze di parte, ora è soltanto necessario che siano decorsi dieci giorni dal deposito in cancelleria di una sola istanza, diretta ad ottenere il provvedimento del giudice. E non può negarsi che questa innovazione, nella mente del legislatore, implicasse soltanto un maggior rigore verso il giudice ed una maggiore liberalità verso la parte11.


7 - Ben diversamente si esprime, invece, la norma riguardante la responsabilità degli ufficiali del pubblico ministero:
«Art. 74 - le norme sulla responsabilità del giudice e sull’esercizio dell’azione relativa si applicano anche ai magistrati del pubblico ministero, che intervengono nel processo civile12 quando nell’esercizio delle loro funzioni sono imputabili di dolo, frode o concussione.
O m’inganno di grosso o in quest’ultima espressione è contenuta un’esplicita conferma di quanto sono andato finora scrivendo. Vi si dice infatti che le norme sulla responsabilità del giudice non si applicano sempre al P.M. (nel qual caso l’Art. 74 si sarebbe arrestato alla prima proposizione); gli si applicano soltanto quando ricorrono casi di dolo frode o concussione. Negli altri casi (ed in quali, dunque, se non nei casi di colpa? Non gli si applicano!
Ciò risponde esattamente al processo storico con cui sono sorte e si sono andate estendendo le varie immunità dei funzionari, da me ricordate alla n. 4. Ed infatti, secondo l’Art. 77 del R.D. 30 dicembre 1923, «il pubblico ministero è il rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria, ed è posto sotto la direzione del ministero della giustizia». Cosicché occorre concludere che quando lo Stato italiano ha voluto esonerare, per la prima volta, un funzionario dell’ordine giudiziario da ogni responsabilità per colpa, ha cominciato proprio da quello che rappresenta, ed impegna più direttamente, la responsabilità del potere esecutivo. È la stessa strada già percorsa: prima i funzionari dell’amministrazione, e soltanto più tardi i giudici, e man mano che essi andranno perdendo la propria indipendenza sovrana.
Che la strada sia pericolosa, non solo per la libertà dei cittadini, ma anche per quella dei giudizi è, insieme, per la retta amministrazione della giustizia – non occorre rilevare. Sarebbe più interessante discutere del suo rimedio: e cioè di quella «indipendenza sovrana» dell’ordine giudiziario che non si concilia affatto con una sua particolare protezione o tutela. La protezione non è indipendenza, è servaggio! «Sunt in servitutem coloro che non si sentono abbastanza protetti».


8 - Rifacendomi daccapo, mi sembra di poter concludere:

a) I casi di mancata scarcerazione dell’imputato, nonostante l’avvenuta decorrenza dei termini, che da più parti si lamentano, e di cui al mio scritto precedente, non integrano soltanto un fatto colposo del giudice. Son fatti volontari e dolosi: ed il giudice che li ha posti in essere deve sempre rispondere civilmente dei danni arrecati al detenuto, checché si pensi della questione sulla sua responsabilità nei casi di colpa;
b) I codici vigenti in Italia prima del 1865 indicevano concordemente la responsabilità del giudice, anche per colpa: sia nei casi di «denegata o ritardata giustizia», sia in altri casi particolari espressamente dichiarati;
c) L’Art. 784 del C.P.C. 1865 non ha fatto che riprodurre la corrispondente norma dei codici precedenti, confermando, quindi, la responsabilità civile del giudice sia nella ipotesi di «denegata giustizia colposa» sia «negli agli casi dichiarati dalla legge» (che, tuttavia, erano già stati quasi completamente eliminati). La dottrina che ha prevalso in proposito, nonostante energiche resistenze, rappresenta un’interpretazione di legge non consentita, perché diretta ad estendere una norma eccezionale oltre i casi stabiliti dalla legge stessa;
d) L’Art. 55 del C.P.C. vigente non porta innovazioni all’Art. 783 C.P.C. abrogato, almeno per quanto riguarda la estensione della immunità nei casi di colpa. Ben diversamente, invece, ha innovato in proposito l’Art. 74, affermando esplicitamente e per la prima volta in Italia, che i funzionari P.M. rispondono soltanto «in caso di dolo frode o concussioni».







NOTE
* Estratto da «Rivista penale», novembre-dicembre 1949. Fasc. 11-12.^
1 In «Giustizia penale», 1949, III, 210. L’interessante scritto, in cui si argomenta degli articoli 55 e 74 del Codice di Procedura Civile, doveva avere, per titolo: «la libertà personale dell’imputato e la responsabilità civile del giudice». Ma il proto si è permessa una maliziosa metatesi, e ha parlato, appunto, del «responsabilità del giudice civile.^
2 Il Galdi, Com. Cod. Pr. Civ., VI, 2, 1911, ricorda: L. 5, par. IV, de obligationibus: e L. 7, XIII de extr. cognit. Ulpiano, 41, de app.; Gell. VIII, XII, IV, XIV: mentre il Saredo in Com. Cod. Civ., II, CXXI, cita Cic., ad Quint. 1. 7. 21; Svet., C 25 LI; Dig. 2, 4, quæ quis iur in alt. Stat., II, 2; Macrob. Sat., II, 12: Gaio IV. 52; Paolo in D. 11, De just. et jur. I, I ecc. Cionostante sarebbe erroneo non attribuire importanza al rovesciamento di interpretazione compiuta dall’Albertario, dato che la L.15 de jud. costituisce un testo fondamentale in proposito; ed è proprio dalla espressione «iudex qui litem suam facit» che ha preso nome la prise a partie (giudice preso come parte), e cioè la speciale azione di danni contro il giudice, regolata nell’antico diritto francese.^
3 Chironi, La colpa (extracontrattuale), 1, 109; Pisanelli, Scialoia, Mancini, Comm. Cod. Proc. Civ., VI, 1216; Windscheid, Ad Pan., 470; Giorgi, Obbligazioni, VI, 202; Galdi, Comm. Com. Proc. Civ., 1192; Mattirolo, Dir. Giud., IV, 1260; Saredo, Ist. Proc. Civ., II, 1160; Piola Caselli, La magistratura (in Digesto Italiano, XV, 125). Il Toullier comincia a trattare della «prise a partie» con le seguenti parole: «il malgiudicato per imperizia del giudice è il primo esempio di quasi delitto che offra il diritto romano».^
4 La immunità dei funzionari nacque, appunto, come «difesa dell’autorità e degli interessi del Re» contro le sentenze dei giudici. Quando un cittadino conveniva in giudizio un agente del governo, interveniva in un decreto del Consiglio che avocava a sé la causa, sottraendola ai giudici ordinari. «In realtà la gente ha torto – scriveva un Ingegnere Capo dei Ponti e delle Strade all’Intendente – ma questa non è una ragione per lasciare che la causa segua il suo corso! Per l’Amministrazione, è cosa della maggiore importanza che la giustizia ordinaria non si diffonda e non accolga le querele dei servi contro gli assistenti ai lavori. Se questo esempio fosse seguito, i lavori verrebbero turbati dai continui processi» e, come aggiungeva un Consigliere di Stato, «l’autorità del Re potrebbe essere compromessa». A. de Tocqueville, L’antico regime ecc., Longanesi, 1942, pag. 99. Come ben si intende, a quell’epoca i giudici ancora si contrapponevano al re. Quando divennero anch’essi «agenti del re» (organi dell’imperium, come oggi si dice), fu naturale che la immunità dei funzionari si estendesse a proteggerli, e, data la importanza delle loro funzioni, divenisse presto la immunità più rigorosamente tutelata e difesa. E siccome veniva intanto affermato il principio della tripartizione del potere, non si parlò più di difesa della autorità del re (o dello Stato, come si tornerà a dire durante il fiorire delle dottrine totalitarie) ma di difesa del prestigio e della indipendenza dell’ordine giudiziario».^
5 La prima costituzione che abbia proclamato solennemente la immunità dei funzionari, è quella del 22 febbraio anno VIII. E Alessio di Tocqueville, che dei problemi della libertà fu il più acuto indagatore, la ricorda più volte, con amara meraviglia, tanto nella Democrazia in America (Ed. Cappelli, Bologna, 1933, vol. I, pp. 137-138). Quanto nell’Antico Regime: «i francesi credettero che la immunità giudiziaria dei funzionari costituisse una delle grandi conquiste dell’89, ed invece la sola differenza tra le due epoche è questa: prima il Governo poteva coprire i suoi funzionari solo ricorrendo a mezzi illegali ed arbitrari, mentre, in seguito, ha potuto lasciare che essi violassero apertamente la legge». (L’Antico Regime e la rivoluzione, loc. cit.).^
6 I rilievi compiuti sul particolare problema della immunità dei funzionari dagli scrittori liberali, in questi ultimi 150 anni, sono, infatti, di una sconcertante uniformità. Cfr. per es., Chateaubriand, Oeuvres complétes, VII, 151, Sur l’état de la France au decembre 1814; Treitschke, La Francia (1867), vol. I, pag. 131, Laterza, 1917; Bernard de Jouvenel, Potere (1948), Rizzoli, pag. 238.^
7 Non è senza grande meraviglia e vergogna che ho letto in Toullier, l’episodio dei tre contadini di Monfort, imprigionati in un giorno di sabato e il cui interrogatorio fu rimandato, niente di meno, a lunedì, perché «il procuratore del re rispose freddamente che non aveva tempo ed era l’ora di pranzo! … Il commissario di polizia insistette, osservando che l’indomani era domenica, giorno in cui non si interrogavano i carcerati. Essi attenderanno – rispose il giudice. Ed infatti questi tre disgraziati non furono messi in libertà se non il giorno di lunedì…». «Era questo, aggiunge il Toullier un caso indubbio di azione di danni contro di lui»! O tempora o mores! Conosco processi in cui il giudice istruttore, prima di recarsi ad interrogare l’imputato detenuto ha atteso che mutassero i mesi e le stagioni!^
8 Quest’affermazione non era neppure esatta, perché nello stesso codice di procedura civile, era contenuta almeno una norma particolare in cui si dichiarava espressamente la responsabilità del giudice per colpa: e, precisamente, l’art. 285, a carico del giudice che avesse dato luogo alla nullità dell’esame testimoniale. Ma nei codici precedenti, – da cui come vedremo, è stata riprodotta, quasi testualmente, la formulazione dell’art. 783 – ed in quello francese, erano contenute altre norme particolari di responsabilità del giudice per colpa: quella dell’art. 2063 codice civile francese, che vietava di pronunciare l’arresto personale del debitore fuori dei casi di legge; quella dell’art. 15 codice procedura civile nel caso di perenzione dopo la interlocutoria «per colpa del giudice che non ha pronunciato definitivamente» nel termine di quattro mesi; e, infine, quella degli articoli 164 370 e 593 che autorizzavano l’azione civile contro il giudice ed il cancelliere nel caso in cui la minuta dei giudicati non fosse stata firmata entro 24 ore dalla pronuncia. È bene tenere presenti queste numerose norme particolari, per intendere completamente quanto poi si dirà.^
9 A sua volta l’art. 570 del Codice Due Sicilie dettava:«Si avrà per denegata la giustizia quando i giudici ricuseranno di provvedere alle istanze delle parti, o trascureranno di pronunciare sulle cause, che secondo il loro numero di ruolo, sono stati di essere giudicato».^
10 Non è qui il momento di esaminare le diversità delle due locuzioni e la sua portata pratica.^
11 Dico: «nella mente del legislatore», perché da qualche tempo in alcune cancellerie civili si è data disposizione di non ricevere le istanze di sollecito! Il che rende impossibile che «la ipotesi del n. 2 si abbia per avverata» e denuncia, tuttavia, la preoccupazione della responsabilità nei ritardi.^
12 Questa espressione lascia adito ad una tesi che non è stata, finora, accennata: e cioè alla tesi che tutte le limitazioni di responsabilità regolate nel codice di procedura civile si riferisca esclusivamente alla attività processuale del giudice civile, e non anche alle altre sue attività, tra cui quelle processuali penali. Sarebbe, in sostanza, la tesi del proto di «Giustizia Penale» di cui alla n. 1.^
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