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Saperi e linguaggi umanistici nella riforma dell'istruzione: 1. Storia e storie nelle aule italiane; 2. Quale storia dell'arte per la scuola italiana; 3. La scuola nello specchio del nostro rapporto con il passato
di Vittoria Fiorelli; Tommaso Montanari; Adolfo Scotto di Luzio

1
Storia e storie nelle aule italiane
*


«I bambini che arrivano a scuola a 6 anni non sanno scrivere ma sanno parlare, no? E raccontano, raccontano di sé e degli altri. Un maestro comincia da lì, dalla parola». Questa citazione dagli scritti di un bravo insegnante dei nostri tempi come Mario Lodi è stata utilizzata per presentare un programma che aveva come scopo l’introduzione della filosofia nei primi cicli scolastici. Un’iniziativa che non è un unicum nel panorama formativo italiano e che, anzi, è solo un segnale tra tanti dell’attivismo degli studiosi di filosofia impegnati a promuovere la loro scienza nel dibattito pubblico a partire da una consuetudine con la disciplina costruita nelle scuole, coinvolgendo bambini sempre più piccoli.
Senza voler sostenere che all’attivismo dei filosofi corrisponda l’inerzia degli specialisti di altre discipline di area umanistica, tralasciando progetti e iniziative extracurricolari, è un fatto che lo spazio dedicato a queste ultime nella programmazione scolastica ordinaria degli ultimi anni ha subito in Italia un progressivo ridimensionamento sul quale è bene interrogarsi anche in una più ampia prospettiva. Come ricordava meritoriamente Lodi, infatti, se è vero che il maestro deve cominciare dalla parola, è altrettanto certo che questa non può essere considerata unicamente pensiero, ma anche storia, riflessione critica e argomentazione.
È dunque necessario che, in un momento in cui la scuola si trova al centro del dibattito pubblico e dell’agenda politica, si torni a riflettere sull’insieme del sistema educativo in un’ottica che si ponga soprattutto il problema di ripensarne contenuti e percorsi formativi. Senza sottovalutare la centralità della questione della governance e del reclutamento, infatti, una radicale ridefinizione dei cicli scolastici e, dunque, una nuova modulazione della professionalizzazione dei docenti dovrebbe essere affrontata in una prospettiva ampia di progettazione culturale che sappia coniugare il problema dell’ordinaria organizzazione del settore nelle sue diverse articolazioni, con quello assai più importante della tenuta civica di una società che non voglia rinunciare alla consapevolezza della propria tradizione intellettuale.
La centralità dell’innovazione e la necessità di garantire istruzione e competenze per un numero crescente di cittadini, punti programmatici dei bandi europei dei prossimi anni e vera sfida della democrazia in Occidente, hanno imposto ai sistemi educativi degli Stati di assumere il potenziamento dell’istruzione e della ricerca tra gli obiettivi strategici del futuro più prossimo. In Italia, gravi segni di sofferenza, evidenti soprattutto nei segmenti superiori del percorso scolastico e nell’università, rendono dunque indifferibile l’intervento di riforma calendarizzato dal Governo, ma anche il serio ripensamento dell’iter e dei contenuti della formazione di ogni ordine grado, non esclusa quella – fondamentale – degli stessi insegnanti e la questione, ad essa indissolubilmente collegata, dell’aggiornamento e della riqualificazione in servizio del corpo docente nel suo complesso.
Come ben sa chi si prepara a svolgere professionalmente il ruolo di docente, nel corso degli ultimi anni si sono inseguiti progetti di riforma della scuola nei quali è stato colpevolmente ignorato il tema di fondo. La questione della preparazione degli insegnanti, infatti, è sempre rimasta ai margini, oscillando tra una prospettiva burocratico-istituzionale, legata alla determinazione dei percorsi di accesso alla professione, e una frammentazione delle competenze culturali che ha avuto come unica conseguenza quella di sostituire una sovrabbondante preparazione sulle metodologie della didattica a un’irrinunciabile comprensione dei contenuti delle singole discipline.
Se, come sembra dalle notizie dell’ultima ora, nella nuova proposta di legge che definisce l’accesso alla professione docente, il legislatore mantenesse l’orientamento a riequilibrare l’attenzione ai metodi della formazione con un ritorno a una solida preparazione sui contenuti disciplinari di base da acquisire attraverso la formazione universitaria, andrebbe ancora una volta affrontato, all’interno dei singoli percorsi, il nodo strategico della comunicazione scientifica della quale la trasmissione didattica va considerata parte integrante.
Mentre la necessità di acquisire una capacità rigorosa di diffusione delle scienze “dure” è diventata a tutti gli effetti materia di dibattito e di studio, per le humanities fa sempre fatica ad affermarsi la centralità della questione dei linguaggi utilizzati per la loro diffusione e quella della loro visibilità che, nello stato attuale del sistema della ricerca, ha forti ripercussioni sulle opportunità di finanziamento offerte agli studiosi di queste branche disciplinari. Anche una superficiale analisi dei bandi connessi al programma europeo Horizon 2020 conferma la progressiva marginalizzazione dei temi collegati agli studi umanistici, mentre il ridimensionamento dei numeri degli studenti che scelgono corsi di studio storico-artistici, letterari o filosofici fin dalla fase scolastica costituisce la spia più evidente della caduta progressiva della sensibilità necessaria a valorizzare l’apporto degli studi classici nella percezione media di chi affronta la delicata decisione di individuare percorsi professionalizzanti coerenti con il mercato del lavoro. Una realtà oramai evidente anche in Italia, paese tradizionalmente ancorato alla formazione umanistica della sua classe dirigente, dove alla riduzione dei numeri complessivi degli allievi, si affianca una marcata femminilizzazione e meridionalizzazione della scelta, indice dello scarso appeal di questi percorsi.
È in questo quadro che s’impone la necessità di interrogarsi sulla crisi d’identità che, negli ultimi anni, sta investendo le discipline umanistiche, oscurate dal predominio delle materie scientifiche e dei saperi tecnologici, indebolite dalla moltiplicazione degli specialismi e dalla diffusa aspettativa dell’utilizzo pratico dei risultati della ricerca. La frammentazione dei codici della conoscenza e la progressiva perdita di consapevolezza del valore dei linguaggi, intesi come struttura fondamentale della connessione critica ai contesti, le sta infatti condannando a una progressiva perdita di visibilità e a una crescente marginalizzazione, tanto nel dibattito pubblico che negli spazi accademici.
Non ci sembra il caso, in questa sede, di ritornare ancora una volta sul valore dei metodi di osservazione e di rielaborazione garantiti dalle culture umanistiche rispetto a quelli definiti come cientifici tout court o sulla porosità degli sguardi educati a cogliere consapevolmente la struttura dei processi e non soltanto il percorso del loro svolgimento che generazioni di intellettuali hanno sostenuto a vantaggio delle culture storico-artistiche o filologico-letterarie. Questo non solo per superare la prospettiva ancillare che si nasconde in questo approccio tradizionale, ma anche per rigettare ogni concessione all’implicazione utilitaristica degli studi che è stata spesso veicolata nel dibattito pubblico degli ultimi anni.
Nonostante la retorica dell’interdisciplinarietà, a dispetto della rivendicazione del ruolo formativo e culturale delle humanities in contrasto con la logica economicista oramai in crisi tanto nel confronto intellettuale nordamericano che in molta parte di quello dei Paesi emergenti, appare oggi ancor più necessario riflettere, dentro e fuori gli incontri dell’Accademia, sulle potenzialità d’innovazione garantite dalle discipline umanistiche a ogni campo della progressione culturale. Un’assunzione di responsabilità che non può non coinvolgere chi si occupa della divulgazione di temi e risultati scientifici, ma anche il mondo della comunicazione incline a rispondere alla domanda culturale proveniente da pubblici diversi con un progressivo appiattimento dell’offerta. Uno scadimento di contenuti e di messaggi certamente avallato dalle logiche che governano il settore dei mass-media, ma soprattutto da valenti studiosi divisi tra l’altera presa di distanze dal fruitore non specialistico e un approccio alla diffusione che troppo spesso si traduce in banalizzazione.
Se solo si guardasse alla presenza della storia nel dibattito pubblico contemporaneo, per esempio, tralasciando la delicata questione dell’uso politico che troppo spesso si fa del passato e che andrebbe a toccare ambiti molto diversi da quelli di cui si sta discutendo, apparirebbe in tutta evidenza come la storiografia, che aveva costituito uno dei capisaldi della costruzione dell’identità culturale italiana ed europea, abbia subito una costante marginalizzazione alla quale si contrappone una persistente presenza di soggetti storici nel mercato della divulgazione. Una diffusione di argomenti che solo apparentemente dialogano con le ragioni e con i meccanismi argomentativi propri del pensiero storicista e della pratica della ricerca. Privati dello spessore argomentativo, proiettati nella dimensione della narrazione omogenea ai bisogni e ai codici del contemporaneo, essi contribuiscono a rendere più profondo il divario tra il consumo di prodotti mediaticamente strutturati, siano essi libri, produzioni televisive o cinematografiche, e opere che, strettamente ancorate a una prospettiva scientifica o di riflessione teorica, sono destinate ad arretrare nelle logiche di un consumo indefinito e generico.
Lungi da ogni semplificazione, tenendo insieme comunicazione e formazione, urge dunque una riflessione sulla necessità di recuperare la presenza delle pratiche e delle strategie discorsive promosse dai saperi umanistici, rinnovandone le capacità di interlocuzione che determinano la resistenza del pensiero critico, strumento strategico, al di là della loro funzione meramente pedagogica, per la costruzione del tessuto civico e culturale delle società contemporanee.
Senza tornare a vecchie e oramai desuete contrapposizioni tra cultura scientifica e studia humanitatis, per garantire ai giovani in formazione la comprensione delle grandi sfide del nostro tempo, ci sembra dunque indispensabile abbandonare il vagheggiamento di piani meta-disciplinari nei quali una spuria sintesi tra metodo, tecnologia e lessici settoriali rischia di accantonare contenuti e specificità disciplinari. Potenziare la consapevolezza della ricchezza del nostro patrimonio intellettuale, affermare la centralità di quella costruzione logica e discorsiva che ne costituisce l’imprescindibile connotazione e che nulla ha a che vedere con la mera settorializzazione degli idiomi o con l’illusione della tecnicalità della comunicazione, sono oggi alcune delle priorità non rinviabili per la modernizzazione del Paese, su cui vale la pena interrogarsi.

Vittoria Fiorelli






2
Quale storia dell’arte per la scuola italiana


Buonasera e grazie per questo invito a discutere su un tema particolarmente urgente. Sono molto felice che le nostre università, di quando in quando, alzino la faccia dal proprio ombelico. Hanno molte ragioni, le nostre università, per stare piegate su se stesse a contemplare i propri mali, ma non sarebbe sbagliato ogni tanto pensare, invece, di poter essere utili al Paese, o almeno alla sua comunità intellettuale: per esempio ponendo dei problemi di fondo, che troppo spesso tendiamo ad eludere.
Entro in medias res per dire che, sulla scuola, come sapete, in questo momento è in corso una discussione incandescente, che ha a che fare con la proposta di riforma, per ora più un annuncio o una richiesta di delega, che non una vera riforma, avanzata dal governo di Matteo Renzi. A preoccuparmi, tra tante altre cose, c’è proprio la questione dell’orientamento culturale e del ruolo della Storia, che mi pare fortemente e radicalmente messo in discussione: e per questo credo che l’idea di Vittoria Fiorelli e di Maria Pia Donato, che ringrazio molto, sia un’idea importante: discutere della storia e delle storie nelle aule delle scuole italiane.
Una delle più recenti interviste al sottosegretario all’istruzione Davide Faraone, che è uscita pochi giorni fa, dice che: «La Buona Scuola punterà ad una alfabetizzazione all’arte, alle tecniche, ai media di produzione e diffusione delle immagini e che sono fondamentali l’arte e la musica perché la scuola deve muovere le passioni dei suoi studenti. Uno storico dell’arte di fronte a una dichiarazione del genere si preoccupa, perché avrebbe preferito sentir dire che è fondamentale la storia dell’arte per alimentare il cervello degli studenti, per fornire agli studenti degli strumenti. Non l’arte senza la storia «per muovere le passioni degli studenti»: e questo è un primo problema. Tralascio i problemi che non hanno a che fare con la storia, ma con la scuola in sé: ricorrere a finanziamenti esterni e sponsorizzazioni. Invito chi voglia farlo a leggersi un bel libro di Michael Sandel Quello che i soldi non possono comprare1, tradotto in italiano da Feltrinelli, che ha un lungo capitolo sulle sponsorizzazioni delle scuole negli Stati Uniti.
E infine il sottosegretario conclude quest’intervista dicendo: «Non possiamo pensare se non ad una scuola centrata sul contemporaneo e declinata al futuro». Allora anche di fronte a questa dichiarazione ci si interroga, e io mi interrogo, su quale sia l’idea che in generale la nostra classe dirigente ha della storia e della sua funzione all’interno di un progetto di formazione.
Pensando alle parole con le quali credo si possa e si debba rispondere, ho ripensato inevitabilmente ad uno dei libri chiave della mia formazione, e me lo sono portato dietro, è Apologia della storia2 di Marc Bloch, che è un libro che mi è venuto in mente subito quando ho letto il tema di questo incontro: non perché si debba necessariamente fare un’apologia della storia, pensavo più al suo sottotitolo: il mestiere di storico. Che cosa vuol dire? Questo libro si apre con la domanda di un figlio a un padre. È una domanda che a me è molto cara. Da essa ho preso spunto, si parvissima licet, per intitolare un mio libro sullo stato della storia dell’arte in questo paese, A cosa serve Michelangelo?3: dalla domanda che appunto apre il libro di Bloch, «“Papà, spiegami allora a cosa serve la storia”. Così un giovinetto, che mi è molto caro, interrogava, qualche anno fa, il padre, uno storico». Sono le prime parole del libro di Bloch, il quale scrive durante la Guerra, senza i suoi libri, mentre è attivo nella Resistenza. Di lì a pochi mesi abbandonerà, troncherà brutalmente il manoscritto perché sarà fucilato dai nazisti. Il libro di Bloch è un libro che aiuta a rispondere, tra tante altre possibili, alle domande che dovremmo provare a fare a noi stessi, per poi estenderle al discorso pubblico di questo momento: davvero a che cosa serve la storia? E che cos’è la storia? Dice Bloch: «L’oggetto della storia è, per natura, l’uomo». Dentro il ragionamento di Davide Faraone, e di molti altri dei nostri politici, c’è l’idea che la storia sia la scienza del passato, allora giova ricordare che non è vero. «L’oggetto della storia è, per natura, l’uomo. O meglio: gli uomini. Più che il singolare, favorevole all’astrazione, il plurale […]. Dietro i tratti concreti del paesaggio, dietro gli scritti, dietro le istituzioni, sono gli uomini che la storia vuol afferrare. Colui che non si spinge fin qui, non sarà mai altro, nel migliore dei casi, che un manovale dell’erudizione. Il bravo storico, invece, somiglia all’orco della favola. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda».
Il progetto, oltre che l’oggetto, della storia è l’uomo tutt’intero. «Scienza degli uomini», abbiamo detto. È ancora troppo vago. Bisogna aggiungere: «degli uomini, nel tempo», allora cominciare a declinare così la storia, l’oggetto della storia, è un modo che forse può aiutare a orientarsi nel dibattito che abbiamo difronte.
Queste parole le scrive Bloch nella stessa situazione di Guerra, in cui un grande storico dell’arte, Ernst Gombrich, per pagarsi, per mantenersi a Londra fa lezioni di storia dell’arte alla BBC. È l’inizio di quello che diventerà il miglior manuale di storia dell’arte, che si chiama The story, non “the history”, Il racconto dell’arte4, e Francis Haskell, in una famosa intervista concessa al museo del Louvre per la serie dei ritratti dei grandi storici dell’arte del ’900, inizia dicendo: «Durante la guerra si ha più bisogno della storia» – sono gli stessi anni, è lo stesso momento.
Non la scienza del passato; c’è un altro passo famoso che forse può aiutarci. Racconta Bloch: «Accompagnavo a Stoccolma, Henri Pirenne. Appena giunti mi disse: “Che cosa andiamo a visitare come prima cosa? Sembra che vi sia un Municipio nuovissimo. Cominciamo da lì”». Poi, come se volesse prevenire un mio moto di meraviglia, aggiunse: «Se fossi un antiquario non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma sono uno storico. Ed è per questo che amo la vita». Bloch scrive: «Questa capacità di afferrare il vivente, ecco davvero, la qualità sovrana dello storico. Lo studioso che non abbia il gusto di guardare intorno a sé, né gli uomini, né le cose, né gli avvenimenti, meriterà forse, come diceva Pirenne, il nome di prezioso antiquario. Opererà saggiamente rinunciando al nome di storico». Questo non vuol dire andare incontro alla retorica di Davide Faraone, che dice che la scuola deve prendere le passioni, la pancia degli studenti. Vuol dire che la storia si occupa degli uomini nel tempo anche nel nostro tempo, il che non vuol dire che va schiacciata sul contemporaneo, ma che dà degli strumenti per comprendere il nostro tempo, e, vorrei dire, la misura umana – o disumana – del nostro tempo. «Non v’è dunque che una scienza degli uomini nel tempo, la quale senza posa necessita di unire lo studio dei morti a quello dei vivi. Come dobbiamo chiamarla? Ho già detto perché l’antico nome di ’storia’ mi paia il più comprensivo, il meno esclusivo, il più pregno», ancora «c’è bisogno di storia» dice Bloch: e lo stesso possiamo e dobbiamo dire noi.
La scienza degli uomini del tempo che unisce lo studio dei morti a quella dei viventi, cioè che riconnette i fili di un senso: e questa la conoscenza del presente attraverso la conoscenza del passato, e soprattutto attraverso la strumentazione critica, perché se questo dice di cosa si occupa la storia, forse è interessante notare, e poi lascerò Marc Bloch naturalmente, perché dobbiamo farlo oggi, con parole che sono scritte nel ’44, ma che potrebbero davvero essere scritte oggi. Perché dobbiamo farlo? A che serve? Come si risponde alla domanda del figlio di Bloch? «Nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria», accendete la televisione, leggete un giornale, «che vergogna che il metodo critico», cioè il metodo della storia, «non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento»: e questo, forse, è il motto vero di una giornata come questa. È il metodo critico che ci serve, quello che serve a, se dovessi dirlo in una parola, esercitare la nostra sovranità di cittadini, ad applicare l’articolo 1 della nostra Costituzione. «La sovranità appartiene al popolo»: non si esercita, questa sovranità, senza consapevolezza culturale, senza un embrionale possesso, meglio se non troppo embrionale, del metodo storico, del metodo critico della storia. Lo dice ancora molto bene Bloch, quando dice che in fondo il metodo critico dei padri bollandisti, di Mabillon, dei benedettini è lo stesso metodo che ci consente di orientarci nella selva delle false notizie della guerra. Potremmo riportare al presente, attraverso mille strade, queste affermazioni di Bloch. Io da storico dell’arte noto che, noi stessi come storici dell’arte, abbiamo abbandonato la dimensione della storia. L’invenzione dei beni culturali – io credo che dobbiamo incominciare a dircelo molto francamente – è un tradimento della disciplina. Non ci possiamo lamentare del fatto che il sottosegretario della scuola parli di educazione all’immagine, quando abbiamo smontato i corsi di storia dell’arte per inventarci una categoria che non ha nulla di storico, come i beni culturali. Rinunciando addirittura alla parola patrimonio, che invece è la parola della Costituzione ed è una parola carica di storia. Vengo da Montréal dove ho visto nei musei i bambini delle scuole partecipare a un corso che si chiama “La storia attraverso il patrimonio”: quello che bisognerebbe fare in Italia, quello che la scuola dovrebbe dare – non quello che danno i nostri manuali, poi spero in un secondo giro possiamo parlare di strumenti, per esempio dei manuali, per esempio degli orari, per esempio di come in concreto una materia come la storia dell’arte può stare dentro la scuola.
Nel 1977, chiudo con questa citazione, Giulio Carlo Argan, che era uno storico dell’arte – e che ha la responsabilità di essere autore di uno, secondo me dei più impervi, controproducenti manuali della nostra disciplina, su cui ho studiato anch’io, desiderando ogni giorno di darlo alle fiamme, ma che però (le contraddizioni della materia!) è stato anche un sindaco di Roma importante, ed è stato uno storico dell’arte capace di declinare la storia dell’arte in una dimensione impegno-civile e politico – scriveva: «La storia dell’arte è materia storica e la cosiddetta classe dirigente, che la scuola dovrebbe formare, ha più bisogno di coscienza storica, che di talenti creativi» – Questo andrebbe, come dire, scolpito sulle porte delle nostre scuole. «Che l’attuale» – l’attuale del ’77, l’attuale del 2015 – «ne sia sprovveduta si vede dal modo con cui ha vergognosamente dilapidato il patrimonio artistico di cui ora, affinché seguiti a farne scempi senza scrupoli e rimorsi, si progetta di sopprimere lo studio», il nesso che c’è tra la formazione, l’alfabetizzazione alla storia dell’arte e alla lettura del patrimonio, che manca, e la facilità con cui il patrimonio viene aggredito e distrutto. Continua Argan: «Logico, nella sua filosofia, la proprietà privata è sacra e inviolabile. Ogni limite della disponibilità dei beni posseduti offende il principio. La legge che tutela i beni culturali ne limita la disponibilità, dunque contraddice ai decani primi del diritto. La borghesia vuole che i suoi figli seguitino come i padri a inquinare allegramente mari e fiumi, a speculare rapacemente sul suolo delle città e delle campagne, a esportare impunemente capolavori nel baule della fuoriserie. A questo la riduzione della storia dell’arte nella scuola secondaria serve egregiamente». Si potrebbero cambiare alcune parole, alcuni toni evidentemente, ma il punto di fondo, cioè che la mancata educazione alla storia dell’arte è prodromica e funzionale alla distruzione del patrimonio del paesaggio, uniti nel secondo comma dell’art. 9 come una cosa sola, è ancora, direi, profondamente vero ed è per questo che, invece, nelle scuole ci vuole il metodo critico della storia anche applicato alla storia dell’arte.
Questo metodo critico dovrebbe nutrire la formazione di tutti i cittadini, e certamente quelle della cosiddetta classe dirigente. Il libro di Christopher Lasch5, sul tradimento delle élites, è fondamentale da questo punto di vista, anche dal mio punto di vista di storico dell’arte, perché è uno dei discorsi più profondi sul rapporto fra spazio pubblico e democrazia e sullo sradicamento delle élites dai luoghi e dalla difesa di uno spazio pubblico, la separazione crescente, le gated communities per cui siamo divisi sempre di più, nella città, in nuclei socialmente omogenei, economicamente omogenei. Questo mina veramente il futuro possibile di una democrazia, e naturalmente la scuola separata è il passo immediatamente successivo: la scuola su misura o addirittura l’istitutore privato, credo che siamo già al precettore di famiglia, siamo già tornati al precettore di famiglia. Da questo punto di vista non c’è dubbio che c’è un tradimento, un disfacimento delle élites e direi che in Italia, accanto alla morte dello Stato, diciamo come obiettivo di tutti i governi ormai in maniera omogenea (Renzi all’ultima Leopolda ha scritto sul muro, senza metterci l’autore perché forse non lo sapeva o forse gli avevano sconsigliato di metterlo, ha scritto: «Lo Stato non è parte della soluzione, è parte del problema», che è una citazione del primo discorso di insediamento alla Casa Bianca di Reagan, c’è il problema di che cosa sono i privati di questo Paese: non la leva di mecenati descritti dai giornali, ma un’indecorosa abbuffata intorno ai resti dello Stato, l’appropriazione degli avanzi. Prima lo si distrugge e poi ci si appropria di ciò che è rimasto, delle rovine: non c’è una costruzione di qualcosa di alternativo (che pure che non mi troverebbe d’accordo perché siamo in un altro modello). C’è un bel libro di Giovanni Moro che si chiama Contro il non profit6 che, come dire, parla di questa alleanza sostanziale fra, diciamo, neoliberismo e beneficenza ai danni della persistenza di una essenza di pubblico e Moro ha avuto forti responsabilità in quel campo e ne parla con cognizione di causa. Mi pare che però da noi si sommi una retorica contro la conoscenza, un disprezzo, una teorizzazione del disprezzo della conoscenza (che ha una tradizione fascista importante, ma che, diciamo, è risorta negli ultimi anni fra Berlusconi e Renzi con una retorica che meriterebbe di essere analizzata: la retorica contro i professori, contro i gufi). Siamo tornati a questo punto, al «culturame» di Scelba, e a Mussolini che dovendo accompagnare Hitler alla Galleria Borghese dichiara ad un giornalista sulla porta: «Quanto a me sarò entrato al massimo due volte in un museo». Ora, su questo forse i filologi dovrebbero affilare le armi, sarebbe bello, diciamo un’analisi vera di queste retoriche. E sarebbe interessante analizzare la formazione, per l’appunto, di queste classi dirigenti: analizzare le radici di questa difficoltà col passato, che è indubbia. La narrazione opposta alla conoscenza è qualcosa che ha attraversato fortemente anche i ranghi delle discipline umanistiche, cioè non è solo l’opposizione dello storytelling renziano o berlusconiano alla storia, come pericolosa forma di conoscenza che può portare a smontare lo storytelling: però, mi interessa come gli storici, gli stessi storici dell’arte abbiano pericolosamente abbassato la guardia. Siamo difronte ad una riforma del Ministero dei Beni Culturali che teorizza la preminenza del museo sul patrimonio diffuso, musei che non sono evidentemente concepiti come luoghi di conoscenza, di produzione di conoscenza, ma di intrattenimento. Mi fa impressione che anche uno storico avvertito come Ernesto Galli della Loggia ci dica: «Facciamo un museo dell’Italia», quando il museo dell’Italia è il patrimonio diffuso. E la colpa non è degli storici, ma degli storici dell’arte. Noi abbiamo smesso di occuparci di un palinsesto contraddittorio e, per forza di cose, spiazzante, che non consente una narrazione unitaria e che ha bisogno di essere filologicamente smontato nelle sue contraddizioni. È stato Antonio Paolucci, storico dell’arte e pessimo Ministro per i Beni Culturali, a scrivere un libro che si chiama Museo Italia7, il cui punto di vista è un’aberrazione radicale. L’Italia non è un museo, non si può pensare alla sua museificazione. L’industria delle mostre come unico modo di accesso del grande pubblico alla storia dell’arte contro il contesto complesso, cioè, diciamo un accesso attraverso un prodotto pulito ed omogeneo, invece di dare gli strumenti per orientarsi in un palinsesto contraddittorio, ce ne priva ulteriormente. La storia dell’arte stessa ha rinunciato, sta rinunciando come disciplina scientifica, progressivamente, alla sua dimensione storica. Noi abbiamo avuto negli ultimi anni un enorme esplosione della storia dell’arte descrittivistica, la trasformazione di interi archivi in biblioteche senza interpretazione, senza giudizio storico. Le riviste di storia dell’arte sono piene di utilissimi inventari, che nessuno interpreta e legge storicamente: forse li ammassiamo per il futuro, benissimo! Qualcuno, prima o poi, cercherà di leggerli, oltre che trascriverli. L’iconologia, come dire, più selvaggia della nostra tradizione, una storia dell’arte sempre più astratta, e sempre meno capace di fare storia veramente. Per non parlare di altre contraddizioni di cui siamo, invece, al di là della storia dell’arte, tutti molto consapevoli: la scissione radicale fra ricerca e didattica nelle università.
Allora io credo che, perché questo tipo di riflessioni abbiano un senso produttivo, credo che si debba un po’ cominciare a riflettere sulle contraddizioni, cioè su quanto noi abbiamo consentito che tutto ciò avvenisse attraverso una serie di tradimenti. Io credo che, parlo per me, per la mia corporazione, chiamiamola col suo nome, la storia dell’arte accademica abbia delle enormi responsabilità nell’aver permesso, e anzi cavalcato, l’abbandono della storia e lo screditamento della conoscenza, come dimensione generale. Se ci raccontiamo che la cittadella dei saperi umanistici e della scienza storica è stata espugnata non ci raccontiamo tutta la storia: diciamo che abbiamo abbattuto le porte dal di dentro, con una serie di tradimenti su cui è bene cominciare a riflettere. Dobbiamo cominciare da una capacità di ripensare radicalmente il nostro mondo, i nostri corsi di laurea, i nostri strumenti, la formazione degli insegnanti che è, come dire, è complicato forse dirlo qua, ma io trovo per esempio che il TFA sia un errore grave e credo che sarebbe stato meglio riflettere sull’importanza che ha, per chi dovrà insegnare nelle scuole, il contatto con una vera esperienza di ricerca: per esempio all’idea di frequentare un dottorato come condizione ineludibile per andare ad insegnare in una scuola superiore. Invece ci siamo impantanati in un’orgia di vuoto pedagogismo. So che sono temi controversi e non ho verità in tasca: però credo che la strada che abbiamo imboccato non sia rassicurante e non sia quella giusta. E credo che la discussione vada aperta, diciamo così, in casa nostra innanzitutto: come facciamo oggi.

Tommaso Montanari







3
La scuola nello specchio del nostro rapporto con il passato


Nelle molteplici dimensioni di quella che siamo abituati a chiamare la crisi della scuola il posto fatto ai saperi storici e più in generale al ruolo della conoscenza storica nel modello educativo nazionale è sicuramente un aspetto tra i più rilevanti. È bene mettere subito avanti che non si tratta di una questione specificamente italiana. Ed è bene anche aggiungere che non è, a guardare le cose con un po’ di attenzione, un problema genericamente risolvibile come «marginalità culturale». Non si capisce infatti la questione scolastica alla fine del XX secolo se non si tiene conto del ruolo che la disputa sul passato ha giocato nei progetti di riforma dell’istruzione in Occidente durante gli anni Novanta. È allora che, come effetto di dinamiche di portata globale, che rilevano dalle dimensioni dell’economia e della demografia, la storia nazionale torna ad infiammarsi e con essa le tematiche che più intimamente le sono connesse, la cittadinanza, i confini, i diritti. Il passato diventa allora l’oggetto di una feroce contesa pubblica che sulle due sponde dell’Atlantico infiamma i dibattiti sull’educazione e ne segna profondamente modalità ed esiti. Gli anni Novanta sono forse gli ultimi in cui la riforma della scuola si presenta sotto il punto di vista di ciò che deve essere insegnato. Da allora in avanti, la questione si proporrà essenzialmente in termini gestionali, di controllo e messa a punto della macchina dell’istruzione di massa. Valutazione, formazione e reclutamento degli insegnanti saranno la voce principale dell’agenda pubblica in Italia e non solo.
Questo accade perché, se una lezione le guerre culturali degli anni Novanta l’hanno lasciata, è proprio l’estrema difficoltà di individuare il terreno comune per una discussione su quello che definisce il nostro passato. È precisamente la natura di guerre culturali che assume, soprattutto nei paesi anglosassoni, Stati Uniti in testa, il dibattito sulla riforma dell’insegnamento a sconsigliare ad élite di governo sempre più deboli e meno autorevoli di intraprendere un cammino che sicuramente si presenta pieno di trappole.
La virata gestionale alla svolta del nuovo secolo, il trattamento della scuola come mero apparato burocratico, macchina rispetto alla quale l’unica richiesta plausibile è che funzioni, si spiega anche sul terreno di questa vera e propria impasse ideologica riguardo al passato.
Se questo è vero e se è lo scenario, ancorché sommariamente tratteggiato, dell’estrema transizione novecentesca, è perché nello specchio del nostro rapporto con il passato e delle difficoltà del suo insegnamento è possibile leggere tratti specifici della crisi culturale italiana.
In particolare a me pare vengano al pettine qui tutta una serie di nodi ideologici che si lasciano interpretare alla luce di un mito ricorrente nella nostra storia politica, quello del cambiamento, che a diverse altezze cronologiche della nostra vicenda nazionale si ripresenta con una straordinaria capacità di richiamo di massa.
È un tema che attraversa tutta la storia dell’Italia contemporanea e si risolve nella difficoltà del potere che si autodefinisce come nuovo di stabilire un rapporto proficuo con il passato reale attivo del Paese, tale cioè da definire l’orizzonte concreto dell’esperienza storica nazionale in una fase determinata del suo svolgimento. La questione dunque si può classificare come una dimensione della storia psicologica delle classi dirigenti italiane.
Il paradosso di questo rifiuto dall’alto del passato è, naturalmente, la sua permanenza. Più interessante però è cogliere la fenomenologia di questa relazione elusiva. Il mito oggi di largo corso della grande bellezza, l’idea cioè che l’Italia per salvarsi debba attingere energie al suo straordinario patrimonio monumentale, è la versione ingentilita e aggiornata alle regole del marketing politico turistico di una vecchia attitudine del potere nuovo italiano: il culto delle mitiche origini.
In maniera solo apparentemente sorprendente, cioè, il bisogno di azzerare tutto, di installare il nuovo potere in uno spazio in cui non ci sono legami di continuità, in cui il passato viene ridotto ad un fardello di cui sbarazzarsi, o a un ferro vecchio inservibile, si risolve nel ricorso ad un tempo fuori del tempo, dell’immobile e sempiterna identità italiana misurata da un arco che, scavalcando il tempo storico, mette direttamente in contatto il presente con un passato immaginario.
Immaginario, questo passato, perché ridotto letteralmente ad un magazzino di immagini cui attingere arbitrariamente per abbellire di volta in volta la scena che il potere nuovo sceglie per la propria autorappresentazione.
Di qui il primato che la narrazione assume rispetto alla storia e in fondo il ritorno, prepotente, del mito.
La nostra situazione culturale si può dunque riassumere in questi termini: tra un passato eluso e un passato immaginato, coltiviamo sogni di un primato senza riuscire a dare realmente i conti con le ragioni reali del nostro declino.
Ora, dal mio punto di vista, questo nesso tra perdita del passato e autorappresentazione del potere ripropone una questione sulla quale da molto tempo abbiamo smesso di riflettere in maniera adeguata e cioè la possibilità di preservare, contro la duplice pressione che viene dall’economia e dalla politica, uno spazio all’autonomia della sfera educativa. La possibilità della storia e più in generale dei saperi umanistici nell’istruzione è infatti legata al rifiuto di ogni argomento di tipo «funzionale». È evidente, e non chiede ulteriori spiegazioni, il potere distruttivo esercitato dalla subordinazione dell’intero sistema dell’istruzione al tema dell’impiegabilità dei giovani. Nessun sapere umanistico, e con esso la storia, trova spazio sulla base di questo tipo di presupposti. Altrettanto distruttivo, tuttavia, si è rivelata in questi anni un’altra richiesta, avanzata questa volta nei confronti della scuola dalla politica: l’esplicita volontà cioè di far servire la scuola alle esigenze della coesione nazionale. L’idea infatti che il modello educativo possa risultare funzionale alla difesa della nazione di fronte alle sfide della globalizzazione espone le materie che più delle altre sarebbero chiamate a questo compito, le discipline cioè storico-letterarie, ad una serie infinita di conflitti di legittimazione, sulla base di una riduzione degli insegnamenti umanistici a «discorso di parte».
Questa richiesta avanzata dalle nuove destre nello scorso decennio è infatti speculare a quella politicizzazione dell’ethos che da sempre è stato ed è la richiesta pressante delle posizioni democratico progressiste all’interno dell’educazione. L’idea in altri termini che storia e sapere umanistico debbano servire a qualificare il perfetto democratico, aggiornato ai tempi del multiculturalismo e del grande dibattito sul cosmopolitismo.
Di fronte a queste richieste nessun programma di insegnamento è al riparo da catture di parte e dalla conseguente delegittimazione pubblica.
Quello che si perde è infatti il valore profondo di ciò che significa studiare in rapporto alla crescita personale, quella dimensione di conquista e di sorpresa che solo l’assenza di una esplicita finalizzazione dei contenuti dell’insegnamento è in grado di garantire.
Cosa significa rivendicare l’autonomia della sfera educativa nel contesto dell’attuale dibattito scolastico?
Dal mio punto di vista la questione principale si pone in termini di rifiuto delle nuove concezioni dell’insegnamento per competenze. In generale l’introduzione dell’idea che la conoscenza profonda di un argomento sia legata alla possibilità di una sua applicazione in un contesto diverso da quello in cui viene appreso ha portato con sé una radicale subordinazione di tutto ciò che si insegna al principio della sua utilizzabilità. Siccome è impossibile prevedere quali occasioni la vita mi offrirà per tirare fuori ciò che ho imparato, la scuola può ovviare a questa eventualità solo fingendo situazioni competenti. Se è ragionevole pensare che un approccio del genere possa risultare adeguato in casi molto specifici, come ad esempio l’applicazione di alcuni principi di calcolo e di ragionamento matematico scientifico (ma anche in questo caso i dubbi sono moltissimi), quando si tratta di insegnamenti come la letteratura o appunto la storia, la didattica per competenze si risolve in un impoverimento dei contenuti e soprattutto nella loro subordinazione a qualche schema pre ordinato, come può essere ad esempio lo studio della letteratura italiana dal punto di vista della storia di un genere o di un tema.
Non solo l’idea che viene trasmessa è che quello che si studia non vale per sé ma ricava le proprie ragioni da una qualche forma di giustificazione costruita a posteriori. In fondo è la legittimità stessa di un certo tipo di insegnamenti a vacillare. Se la letteratura merita di essere appresa solo nella misura in cui mostri le ragioni della sua impiegabilità pratica, perché allora ostinarsi a studiare la letteratura?
Il tema più generale è il primato che le pratiche hanno assunto nella scuola degli ultimi vent’anni e con esse un tema mai completamente disgiunto dall’istruzione ma oggi assolutamente preponderante, l’habitus. Non è possibile nessun discorso sulla tenuta dell’insegnamento umanistico che non metta in discussione il primato delle pratiche. Il passaggio dal sapere al saper fare ha significato nella scuola l’accettazione del principio che in fondo ciò che nella scuola conta davvero sta fuori di essa, nello spazio dell’esperienza «reale» e soprattutto del lavoro offerto dall’impresa. In linea con questi nuovi orientamenti, lo studio è stato svalutato e il compito dell’istruzione è diventato sempre meno quello di offrire l’occasione di un training effettivo ai propri studenti a vantaggio, invece, di una più generica trainability, la disponibilità nel singolo a rispondere alle richieste di conformità avanzate nei suoi confronti dal nuovo mercato del lavoro.
Attraverso le competenze insomma, il primato assunto dalla pratica è diventato il veicolo ideologico di una effettiva subordinazione dell’istruzione al sistema delle imprese e in generale della disciplina del lavoro salariato.
Ecco come si compone allora, dal mio punto di vista, il quadro della questione scolastica. Il rifiuto della storia esprime un più ampio progetto ideologico che chiede all’educazione di assoggettarsi a nuovi principi normativi avanzati nei suoi confronti, da un lato, da un potere che affida alla sua pretesa novità la propria legittimazione, dall’altro, da un’economia a spiccata trazione tecnologico cognitiva che esige un drastico riallineamento dell’istruzione alle rinnovate caratteristiche del lavoro.
Difendere la scuola in questo quadro significa difendere le ragioni della sua autonomia.

Adolfo Scotto di Luzio












NOTE
* Diamo qui i testi di tre relazioni tenute alla tavola rotonda tenutasi il 14 aprile 2015, nella Biblioteca Pagliara dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, sul tema: Storia e storie nelle aule italiane: saperi e linguaggi umanistici nella riforma dell’istruzione. L’incontro è stato focalizzato sulla crisi d’identità che negli ultimi anni sta investendo le discipline umanistiche, sulla loro progressiva marginalizzazione e sull’urgenza di un rafforzamento non solo all’interno del discorso pubblico, ma anche nell’ambito dell’imminente riforma dell’istruzione. Alla tavola rotonda, introdotta dal Preside della Facoltà di Scienze della Formazione Enrico Maria Corbi e coordinata da Vittoria Fiorelli, professore di Storia moderna della stessa Facoltà, hanno preso parte Maria Pia Donato (Università di Cagliari e CNRS), Tomaso Montanari (Università di Napoli Federico II), Mariella Pandolfi (Università di Montreal), Adolfo Scotto di Luzio (Università di Bergamo). Le tre relazioni comprovano, nella vivace dialettica da cui sono animati, sia la delicatezza che la fondamentale importanza dei problemi in esse sollevati.^
1 M. Sandel, Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Milano, Feltrinelli, 2013.^
2 M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, trad. di G. Gouthier, Torino, Einaudi, 1950; Collana Piccola Biblioteca n.117, Einaudi, 1973; Collana n.33, Einaudi, 1998; Collana Piccola Biblioteca.Nuova Serie n. 33, Einaudi, Torino, 2009.^
3 T. Montanari, A cosa serve Michelangelo?, Collana Le Vele, Torino, Einaudi, 2011.^
4 E. Gombrich, The Story of Art (1950, e successive), trad. M.L. Spaziani, La storia dell’Arte raccontata da Ernst H. Gombrich, Torino, Einaudi, 1966 e successive; Milano, Leonardo, 1995.^
5 C. Lash, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Universale economica. Saggi, Milano, Feltrinelli, 2001.^
6 G. Moro, Contro il non profit, Roma-Bari, Laterza, 2014.^
7 A. Paolucci, Museo Italia: diario di un soprintendente-ministro, Livorno, Sillabe, 1996.^
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