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Heidegger e gli ebrei
di Giovanni Carosotti
Come ricorda giustamente l’autrice all’inizio del suo studio (Donatella di Cesare, Heidegger e gli ebrei, Bollati Boringhieri, Torino 2014), le polemiche relative alla compromissione di Martin Heidegger con l’ideologia nazionalsocialista costituiscono quasi un genere storiografico a sé, il quale si riproduce periodicamente in base a (presunte) nuove rivelazioni, senza peraltro mutare i termini con cui le diverse tesi si contrappongono. Un genere storiografico che solo occasionalmente investe in profondità il cuore del pensiero heideggeriano. A un Martin Heidegger sicuramente responsabile di complicità politica con il regime hitleriano, è stato facile per alcuni contrapporre un giudizio su un pensiero filosofico che solo marginalmente poteva essere interpretato secondo criteri di coerenza con i riferimenti culturali del nazionalsocialismo. Oltre al fatto che la biografia di Heidegger testimonia contatti frequenti con colleghi ed allievi di origine ebraica, segno che la sua critica a determinati aspetti della tradizione giudaica non è mai scaduta in un fanatismo intollerante sul piano dei comportamenti personali (sebbena la Di Cesare riporti alcune significative eccezioni). Non a caso, a quest’opera di distinguo hanno dato un contributo molti intellettuali ebrei, allievi di Heidegger e in qualche modo mossi dalla volontà di salvaguardare il patrimonio di pensiero che a lui risaliva. In altre parole, in tutti questi decenni, il problema delle relazioni tra Heidegger e il nazismo non è stato mai affrontato in modo approfondito sul piano filosofico, in mancanza forse di pagine che permettessero un’analisi più circoscritta. La pubblicazione, ancora parziale, degli Schwarzen Heften (Quaderni neri) ha però mutato il quadro; almeno apparentemente. In effetti, come nota Donatella di Cesare, le prime reazioni alle drammatiche e inquietanti argomentazioni heideggeriane di evidente profilo antisemita, non si sono discostate dalle impostazioni critiche precedenti, semmai ne hanno radicalizzato il tenore e il giudizio. Ma, ancora una volta, è mancata una puntuale disamina filosofica. Lo pubblicazione di Donatella Di Cesare si ripromette di colmare tale lacuna interpretativa. La studiosa, come è noto, ha avuto accesso agli Schwarzen Heften prima della loro pubblicazione; ricordiamo che trattasi di pubblicazioni voluminose le quali, nonostante uno stile in parte anomalo,«in prima persona, senza troppe reticenze, con una cruda libertà», hanno notevoli ambizioni di ordine filosofico e, dunque, devono essere considerate riferimento ormai imprescindibile per dirimere alcune ambiguità del pensiero heideggeriano. Qual è il contenuto forse più significativo, che si evince da queste pagine? In esse, e soprattutto in quelle scritte nei cruciali anni Trenta, quelli in cui, secondo alcuni, dopo l’infatuazione iniziale, Heidegger si sarebbe progressivamente allontanato da una compromissione con il nazismo, il filosofo di Meßkirch affronta il problema per lui cruciale, dopo la rinuncia a scrivere la seconda parte di Essere e Tempo: quello dell’essere e dell’oblio dell’essere, della lotta dell’essere contro l’ente che, nel suo assolutizzarsi, dispiega un orizzonte metafisico dominato dal pensiero calcolante, responsabile del declino inarrestabile dell’Occidente. La particolarità degli Schwarzen Heften sta nel fatto che in essi il filosofo riferisce in modo molto più esplicito che altrove la sua riflessione sulla metafisica al contesto storico-politico; in qualche modo, essi confermano quella che era stata un’intuizione già di Domenico Losurdo (La comunità, morte e l’Occidente, 1991) il quale aveva notato come Heridegger, dagli anni Trenta sino alla fine della guerra, segua con attenzione e interpreti le tragiche vicende della Germania a partire dalla propria visione filosofica; sino a includere lo sterminio degli ebrei nel quadro più vasto di una violenza generale del mondo originatasi dal trionfo dell’ente. In effetti, negli Schwarzen Heften appare indiscutibile il ruolo chiave attribuito agli ebrei nella questione metafisica, in quanto l’ebreo sarebbe colui in cui si incarna il dominio dell’ente, il responsabile dell’oblio dell’essere e della decadenza dell’Occidente. Non si tratta di un riferimento estemporaneo, rivoltante sul piano morale ma in qualche modo ininfluente nell’elaborazione di un pensiero che mantiene una sua indubbia grandezza; ma un presupposto centrale della riflessione sull’essere. Da questa constatazione parte il percorso originale dello studio di Donatella Di Cesare, nel momento in cui la riflessione problematica di Heidegger sull’ebraismo non viene circoscritta all’universo particolare di quest’autore, riferita a una drammatica contingenza storica, ma letta quale eredità di un «universalismo totalitario e totalizzante» che ha caratterizzato il pensiero occidentale, e in particolare la tradizione filosofica tedesca. Ragion per cui l’approfondimento di carattere filosofico imposto dalla pubblicazione degli Schwarzen Heften deve diventare una riflessione senza sconti sulla filosofia in quanto tale e, in particolare, sull’assolutizzazione della ragione che, nella sua pretesa di universalità totalizzante, ha sempre incontrato nell’ebraismo un corpo estraneo, che non permetteva di essere concettualizzato in alcuna sintesi speculativa. L’intenzione di Donatella Di Cesare, comunque, non vuole essere affatto distruttiva e autolesionistica dal punto di vista disciplinare; semmai è quella di creare consapevolezza su questo vulnus, per cui la ragione universalistica ha sempre escluso da sé l’ebraismo. Si tratta di riproporre il problema della filosofia e della ragione, non concepita come custode di una verità identitaria, bensì veicolo di apertura alla dimensione dell’alterità; il superamento – per utilizzare i riferimenti della studiosa – dell’essere di Parmenide, identitario, con quello del Sofista platonico (e di Primo Levi), aperto all’accoglimento dell’Altro. Nulla di più estraneo nelle riflessioni della Di Cesare, dunque, dell’intenzione iconoclasta di farla finita con un’intera tradizione filosofica, che da Heidegger conduce all’ermeneutica gadameriana e alla decostruzione derridariana, le cui ragioni invece la filosofa intende sostenere, in quanto la filosofia può salvarsi e giustificarsi proprio aprendosi alla riflessione sulla differenza, l’interpretazione e l’alterità. Heidegger, sostiene la Di Cesare, è certo anche altro dalla nera figura che pure emerge da questi nuovi scritti; a testimoniarlo è, paradossalmente, proprio la scuola che a lui si è richiamata, la quale gli chiese conto del suo atteggiamento complice, senza peraltro ottenere risposte. La volontà di rinunciare ad Heidegger e a tutto ciò che da lui deriva in termini di fecondità del dibattito filosofico, a favore di un ritorno al razionalismo illuminato, è, a parere della studiosa, un errore, in quanto i germi dall’assolutismo incapace di rapportarsi all’ebraismo, inteso esclusivamente come estraneità da estirpare, risiedono proprio in quel culto dell’universalismo razionale. Tant’è che in fondo, quando Heidegger si pone in
continuità -consapevole o meno – con quella tradizione, egli contraddice se stesso, poiché, accogliendo stereotipi di infimo profilo culturale, ricade proprio in quella impostazione metafisica dalla quale dovrebbe prendere le distanze; e, da questo punto di vista, si coglie una significativa convergenza tra quanto sostenuto dalla Di Cesare e la posizione di Gianni Vattimo, il quale, pur ritenendo il contenuto sostanziale del pensiero heideggeriano impermeabile a qualsiasi strumentalizzazione ideologica, constata come le osservazioni antisemite rappresentino una storicizzazione di basso livello che contraddice il fondamento stesso della ricerca dell’essere heideggeriana, richiamando invece banali impostazioni di carattere metafisico. Ma quali contenuti eredita Heidegger dalla tradizione del pensiero tedesco che, a partire da Lutero, si dispiega con coerenza, senza tentennamenti, attraverso Kant, Hegel, Nietzsche, fino a Hitler, la cui cultura filosofica non andrebbe affatto sottovalutata, come ha già fatto notare Emmanuelle Levinas? La Di Cesare fa riferimento a una concezione totalitaria della conoscenza, che non ammette le diversità e che vuole prevalere su di esse; espellere cioè tutto ciò che non è previsto dal proprio progetto totalizzante. In base a questo disegno diventa centrale il tema dell’ebraismo; l’ebreo, infatti, non rientra in nessuno schema concettuale e perciò va annientato. Sia Kant, sia Hegel prevedono quale unica possibile assimilazione dell’ebreo una sua rinuncia alla propria specificità identitaria, un suo aderire ai principi emancipativi della ragione che la peculiarità dell’ebraismo contraddice. E non è un caso che le espressioni in cui si auspica questo dissolversi dell’ebraismo, che si ritrovano nei diversi filosofi con sinistra continuità, apparentemente innocue, vengano «prese alla lettera nella soluzione finale». La drammatica affermazione heideggeriana, contenuta in quella parte degli Schwarzen Heften che attende ancora di essere pubblicata, per cui la Shoah sarebbe una sorta di autonnientamento degli ebrei, in virtù della riduzione dello sterminio a pura tecnica efficientistica, cioè a quel tipo di mentalità produttivistica che gli stessi ebrei avrebbero introdotto in Occidente attraverso il dominio dell’ente, riprende l’idea di dissolvere l’ebraismo dall’Occidente o attraverso una conversione degli stessi ebrei alla Riforma (e il loro rifiuto irriterà particolarmente Lutero), o in seguito a una rinuncia alla loro identità disgregante per aderire alla ragione illuminata (Kant, Hegel).
Lo studio della Di Cesare, per dare ragione di questa complessiva interpretazione filosofica, si struttura – dopo un’introduzione sugli Schwarzen Heften e sulle vicende che ne hanno seguito la pubblicazione – in tre parti fondamentali. Innanzitutto – e a ciò abbiamo già fatto cenno – in una sintesi storica dei rapporti tra filosofia e ideologia antisemita in Germania, da Lutero a Hitler. Si tratta di una riflessione significativa sul piano delle acquisizioni storiografiche, in quanto vi si sostiene che l’adesione ai rozzi stereotipi antisemiti da parte di grandi personalità filosofiche, alcune delle quali (Kant ed Hegel fra tutte) rivestono un rilevante ruolo nell’emancipazione della cultura occidentale, non sia un aspetto marginale del loro pensiero, un banale cedere allo spirito del tempo; non un contenuto disturbante della loro riflessione, che può facilmente essere messo in cortocircuito con i valori etici universali che essi hanno contribuito ad affermare. L’urgenza di definire l’ebraismo, la volontà di trovare una soluzione alla «questione ebraica», è invece essenziale per poter imporre i principi della ragione emancipativa (una riflessione, questa, che richiama gli studi sul razzismo di Alberto Burgio, nei quali si sostiene il non casuale contemporaneo sviluppo dell’ideologia razzista e dei principi dell’universalismo illuministico). L’ebraismo non può essere inserito nel contesto della ragione progressiva se non dissolvendosi, il che comporta un giudizio sulla tradizione ebraica quale freno alla storia dell’emancipazione dell’Occidente, che può realizzarsi solo espellendo da sé questo corpo estraneo. Un tema, come si vede, chiaramente metafisico: «Se metafisica è la questione ebraica, metafisica dev’essere anche la soluzione». In quest’orizzonte si pone Heidegger: il problema dell’essere, il prendere parte alla lotta tra l’essere e l’ente, il denunciare il nichilismo originatosi dal dominio dell’ente e della metafisica, implica una resa dei conti con l’ebraismo, il vero responsabile – in continuità con le analisi sopra ricordate – della omnipervasività dell’ente sull’essere, tipica della modernità, espressione di decadenza di cui l’ebraismo – in linea tutto ciò con gli stereotipi più comuni – era considerato il vero attore. Ecco allora la studiosa, nella seconda parte dell’opera, proporre un confronto tra l’antisemitismo heideggeriano e quello di altri intellettuali che in qualche modo cedettero alla visione del mondo e della storia proposta dal nazionalsocialismo; e lo poterono fare in ragione delle radici culturali, tutt’altro che effimere, di cui il nazionalsocialismo si faceva interprete. La sottovalutazione di quest’aspetto è per la Di Cesare un grave errore; è sbagliato – e anche questo rimane un contributo storiografico rilevante del presente studio – ridurre l’antisemitismo nazista a una teoria biologistica di scarso valore, senza riconoscerne le ascendenze e le parentele culturali sia con l’antigiudaismo teologico sia con i momenti più alti della riflessione tedesca. Non si spiegherebbe altrimenti l’adesione sincera di molti intellettuali a questo progetto, ben maggiore di quella dello stesso Heidegger, sempre un po’ imbarazzato da alcune esternazioni rozze della manovalanza militare del Terzo Reich. È quindi con Jünger, Schmitt e altri che la Di Cesare fa un attento e convincente confronto, valutando soprattutto le differenze, la particolarità di come Heidegger affronti la questione ebraica e, più in generale, la questione politica al tempo del nazismo. In Heidegger, da questo punto di vista, rimane sempre un senso di insoddisfazione per le prese di posizione di intellettuali verso i quali egli pure provava stima; rimane, a suo parere, un residuo di metafisica, un prevalere della dimensione della soggettività, ancora espressione di quel fatale dominio dell’ente sull’essere (il concetto di Arbeiter in Jünger o di Feind in Schmitt, i quali rimandano entrambi all’onnipotenza del soggetto). Questa maggiore profondità e complessità, per cui il rapporto con l’ebraismo diventa più articolato sul piano intellettuale, non suona affatto come una giustificazione. La Di Cesare ricorda la costanza, nelle pagine degli Schwarzen Heften, di espressioni terribili come Verjudung, Bodenlosigkeit, Bodenständigkeit, Verwurzelung, Ungebundenheit, con le quale il presunto sradicamento degli ebrei viene elevato a concetto metafisico. Non di meno, come già accadeva in Kant o Hegel, il cedimento all’antisemitismo comporta uno scadimento nel pensiero, una perdita di quell’orizzonte del discorso che Heidegger vorrebbe mantenere sul piano elevato dell’apertura dell’essere, della poesia di Hölderlin. Ma soprattutto innesca meccanismi di autocensura, laddove proprio la tradizione filosofica tedesca (e Heidegger in ciò vi si inserisce con piena continuità) nega l’evidenza, cioè il proprio legame con orizzonti concettuali propri dell’ebraismo, che si sono fusi con la natura stessa del pensiero occidentale. Così come, nella sua esegesi della teologia paolina, Heidegger espunge totalmente la lingua ebraica quale fonte originaria per discutere il testo biblico, fermandosi al greco. L’ultima parte del volume è dedicata al periodo dopo Auschwitz e, in particolare, al silenzio di Heidegger. Non tutti all’inizio si rendono conto dell’enormità dell’accaduto; sono gli emigrati, i quali hanno preso sul serio il nazismo sul piano culturale, a cogliere la grandiosità di un progetto che mirava a rimodellare l’umanità sul piano biopolitico. Heidegger viene interrogato, direttamente e indirettamente, da molti suoi ex allievi (Jonas, Marcuse); il filosofo di Meßkirch si sottrasse sempre a una presa diretta delle proprie responsabilità. Ma non è vero che in lui la riflessione sulla Shoah sia assente. Non a caso, da alcuni, la posizione di Heidegger è stata interpretata come l’inaugurazione di quella polemica storiografica che, a partire dagli anni Ottanta, è nota come Historikerstreit. I due testi rivelativi, in questo senso, sono La lettera sull’umanismo e, soprattutto, la conferenza sulla tecnica del 1949, in cui appare la «provocazione intenzionale» dell’analogia tra la meccanizzazione dell’agricoltura e le camere a gas. Ma anche la nota risposta ai pressanti interrogativi postigli da Herbert Marcuse, dove persiste la relativizzazione dello sterminio ebraico, assimilato ad altri episodi di esercizio della violenza, come quello subito dopo la guerra dai tedeschi dell’Est. Si tratta di una posizione che tende a negare l’unicità dei Vernichtungslager, a interpretare lo sterminio come «una variante del sistema concentrazionario». Per l’autrice, questo è un assoluto errore storiografico, in quanto non distingue tra un luogo in cui la morte «era un accidente previsto, ma non programmato», da un altro in cui essa era «la finalità immediata». All’origine di questa falsa valutazione vi è, paradossalmente, proprio la riflessione di Hannah Arendt, con i suoi equivoci concetti di «banalità del male» e di «totalitarismo»; con il primo, «riducendo tutto il personale del campo a impiegati», non si individua più la responsabilità diretta del tragico evento; il secondo impedisce di cogliere la differenza specifica del Vernichtungslager e finisce – come si evince bene dalla posizione heideggeriana – col traghettare i tedeschi addirittura dalla parte delle vittime. Molto interessanti sono le osservazioni dell’autrice sull’incapacità di Heidegger a trovare le parole per esprimere la Shoah, e la sua speranza che fossero i poeti a farlo, contrapponendosi al noto ed equivocato invito al silenzio di Adorno. Importanti dunque le pagine dedicate alla relazione tra Heidegger e Celan, il cui Todestages è proprio la risposta al silenzio adorniano. «Il poeta traduce il silenzio di chi è stato ammutolito, e lo redime.[…] Una contro parola contro chi nega e tace. […] Dopo Auschwitz la poesia è questa inversione […] rinuncia del silenzio all’audacia messianica del linguaggio […]. Heidegger fu affascinato da Atemwende di Celan». Ma del loro incontro, avvenuto nel 1967, non si sa nulla. «Celan era convinto che proprio la parola del filosofo fosse indispensabile per ammettere il suo errore e per denunciare il neonazismo e il nuovo antisemitismo». Lo studio della Di Cesare non evita il delicato problema sulla responsabilità della filosofia nel suo complesso a partire proprio dalla profondità filosofica dell’antisemitismo heideggeriano. E, come già sintetizzato, la soluzione prospettata è molto distante da quella in auge ai nostri tempi, mirante a criminalizzare un’intera tradizione filosofica, approfittando dell’indegnità morale di Heidegger. E non c’è dubbio che, in Germania e altrove, le rivelazioni dei contenuti degli Schwarzen Heften abbiano dato il via a un attacco, non sempre in buona fede, da parte della tradizione analitica, realista e antistoricista, in vista di una resa dei conti dove in gioco non c’è solo un’egemonia di ordine culturale, ma anche concretamente un’organizzazione delle cattedre universitarie. Ma sarebbe un errore, in quanto si cadrebbe proprio in quell’equivoco che, in nome di dei principi razionali illuministici, interpretati in senso anti heideggeriano, riproporrebbe una tendenza totalitaria a un unico modello di ragione, incapace di assorbire e di tollerare le differenze (si veda a proposito la dura polemica che ha contrapposto, sulle pagine del Corriere della Sera, proprio Donatella Di Cesare al filosofo “neorealista” tedesco Markus Gabriel). Ciò che invece la filosofia deve mettere in discussione, per elaborare una risposta all’altezza dei gravi problemi che gli inediti heideggeriani pongono, è l’idea stessa di “concetto” in quanto sintesi assoluta di un vero oggettivo, che appare tale alla ragione che giudica se stessa come unica depositaria della logica discorsiva. Molto più convincente il richiamo alle Philosophische Untersuchungen, dove Wittgenstein «smonta non solo il concetto di identità, ma anche quello di “concetto”. Dietro una definizione concettuale non esiste mai un’identità, che è un mito, bensì nessi e somiglianze». La Di Cesare suggerisce come questa riflessione, concretizzatasi nel celebre esempio della fune, Witggenstein l’abbia elaborata proprio riflettendo sull’identità ebraica. «La singolarità incancellabile dell’ebraismo non è la condanna particolare di un’esistenza chiusa ma, al contrario, l’apertura che evita alla civiltà occidentale la deriva di un universalismo totalitario e totalizzante». I principi identitari della filosofia occidentale «non hanno retto alla prova di Auschwitz»; la possibile redenzione sta nel liberare la filosofia occidentale dal suo «tratto violento» (anche in questo caso una riflessione che ha molto in comune con alcune valutazioni recenti di Gianni Vattimo) e ripartire da quei contributi con cui proprio l’ebraismo aveva valorizzato la tradizione del pensiero occidentale e che, successivamente, erano stati sdegnosamente respinti, anche quando inconsapevolmente assimilati, in nome di un valore assoluto dei principi di ragione. L’esatto contrario di quanto è sostenuto, oggi, dalla maggior parte del mondo intellettuale.
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