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Il nuovo albero della vita
di
Giuseppe Sacco
In un recente caso di suicidio che ha coinvolto il presidente di una importante istituzione universitaria parigina, e che ha sollevato scalpore non solo in Francia, ma anche nel’ambiente accademico internazionale, gli inquirenti, immediatamente accorsi nella stanza d’albergo di New York dove era stato rinvenuto il cadavere, hanno constatato che il telefonino e il computer personale del suicida erano stati scagliati dalla finestra, e si trovavano assai malconci sette piani più in basso. Ciò non è stato trovato sorprendente. Anzi, è parso quasi naturale che una personalità ufficiale e assai nota, ma dai contorni piuttosto discussi, avesse voluto, prima di togliersi la vita, distruggere questi due strumenti, in cui gran parte dei segreti che egli voleva probabilmente portare con sé nella tomba avrebbero potuto essere ritrovati, o da cui avrebbero potuto essere almeno parzialmente ricostruiti.
Anche nel momento estremo, dunque, il suicida era lucido e razionale. E consapevole del fatto che gran parte delle nostre più private conoscenze e informazioni sono ormai conservate non più nel nostro cervello, nella nostra personale e naturale memoria, ma nella memoria elettronica degli strumenti di cui ci serviamo quotidianamente per comunicare o per lavorare
Facile è ovviamente l’osservazione che la distruzione del telefono personale e del computer portatile offriva una ben misera protezione alla privacy del suicida. E che far volare questi due gadgets, ormai indispensabili per ogni persona attiva, fuori dalla finestra di un grattacielo newyorkese poteva dargli solo un assai fallace senso di auto-cancellazione. A parte il fatto che il “cuore†del computer avrebbe potuto resistere anche ad un trattamento così brusco, distruggere questi due piccoli pezzi di hardware poteva eliminare solo una parte, e forse neanche la parte più importante e la più intima, delle informazioni relative alla sua personalità . Tutto o quasi il contenuto poteva essere facilmente ricostruito tramite il provider dei servizi email e dei servizi cloud.
Scomparso il suicida, e acquietatasi la tempesta politico-scandalistica sollevata dalle strane circostanze della sua morte, il caso lascia dietro di sé un’evidenza. E cioè che, nell’era della informatizzazione di massa, è diventato pressoché impossibile mantenere la identità e le informazioni relative a ciascuna persona e alla sua vita nell’intimo del proprio singolo naturale cervello. E ciò vale per ognuno di noi che, ogni giorno, per le decisioni più semplici e più indispensabili della vita, è portato ad utilizzare non solo informazioni ma anche capacità di elaborazione dati, contenute solo in parte nel proprio intimo e in misura maggiore prese invece in prestito a titolo provvisorio da centri di storage estranei al corpo umano.
Si prenda l’esempio delle tendenze in materia di decisioni in apparenza semplicissime, come quelle di spostamento. Nel 1983 venne installata all’angolo tra Park Avenue e la 48 esima Strada, a New York, una molto realistica statua dello scultore J. Seward Johnson Jr., e che voleva rappresentare il tipico newyorker, un uomo sui quarant’anni, in giacca e cravatta, che con una mano impugna una briefcase e con l’altra cerca istericamente di attirare l’attenzione di un improbabile taxi libero. Ipotizziamo che questo personaggio, con cui molti altrettanto isterici newyorkers si sono a lungo identificati, sia riuscito alla fine a trovare una vettura libera, e che si sia fatto portare a Brooklyn Heights, dove aveva un appuntamento extraconiugale. Supponiamo insomma che egli abbia così potuto, per una mezz’ora utilizzare le informazioni di cui dispone il tassista in materia di circolazione in città e della sua capacità di decisione relativamente al percorso più opportuno, abbia poi pagato per il servizio ottenuto e sia sceso dal taxi. Unica traccia della sua fruizione di quel servizio – e del fatto che egli era uscito dai suoi percorsi abituali, sarà stata una riga scribacchiata a matita in un foglio su cui molti tassisti (ma non tutti) prendono appunto dei tragitti percorsi. Foglio che, peraltro, una volta fatti i conti della giornata, viene appallottolato e gettata via.
Il passeggero del taxi, e marito infedele, gode comunque di un forte grado di privacy. Egli è più o meno sicuro che – almeno per quanto riguarda il fatto che egli è uscito dai suoi percorsi abituali per recarsi dalla sua amante – il suo comportamento è frutto di una decisione autonoma e destinato a restare ignoto a terzi. Con un caveat, tuttavia. Può infatti darsi che la moglie tradita abbia avuto dei sospetti e che, avendolo pedinato, e essendo stata abbastanza fortunata da trovare anche lei un taxi libero, abbia detto all’autista la frase che si ritrovava talora nei film degli anni ’50: «Autista, segua quella macchina!».
È, certo, un’ipotesi improbabile. Ma non impossibile, specie per una donna gelosa. Ed una ipotesi in cui le decisioni sul percorso dipendono – ovviamente – dai movimenti del taxi inseguito, ma soprattutto dalla decisione della donna inseguitrice di non lasciarsi sfuggire la sua preda: una decisone quanto mai personale ed autonoma.
Confrontiamo ora la situazione di questo newyorkese frettoloso con quella in cui si verrà a trovare l’abitante di Shanghai se le autorità di questa città metteranno in pratica quanto suggerito da un gruppo di esperti dell’Università di Oxford esattamente trent’anni dopo, nel dicembre 2013.
Riprendendo un convincimento assai diffuso secondo il quale in Cina, dove oggi circolano 40 automobili per ogni mille abitanti, non sarà mai possibile riprodurre il modello occidentale, dove ogni mille persone ci sono 800 o 900 veicoli a motore, il suggerimento degli esperti britannici è stato di abolire totalmente, in città , l’automobile privata, e costituire delle flotte di taxi collettivi senza autista, a guida completamente automatizzata (cosa oggi tecnicamente possibile anche in situazioni di traffico assai intenso) e reperibili attraverso qualsiasi smartphone.
In un caso analogo a quello precedente a un uomo d’affari cinese che parte con l’amante per un presunto viaggio di lavoro, basterà comunicare (non necessariamente “direâ€) «due persone e due valige per l’aeroporto» perché un computer centrale faccia automaticamente apparire all’indirizzo (o meglio alla location) rilevata dal sistema un taxi collettivo diretto all’aeroporto, e in cui sono disponibili due posti e lo spazio per due valigie. Ma sarà impossibile, per una eventuale moglie gelosa e sospettosa, chiedere via smartphone al sistema un taxi che segua quello degli amanti.
La sua autonomia in materia di libera circolazione è dunque fortemente ridotta. Né si può considerare che ciò sia in qualche modo compensato dalla possibilità che, in una eventuale causa di divorzio, il giudice possa ottenere dall’unità centrale in cui avviene lo storage dei dati sui taxi automatici la prova che effettivamente lo smartphone del marito è stato usato alla tale data e alla tale ora per portare non una ma due persone all’aeroporto. La riduzione della privacy del marito può risultare utile in sede giudiziaria, ma non compensa in alcun modo la riduzione dell’autonomia della moglie gelosa relativamente ai propri movimenti. Il tipo di volizione che abbiamo ipotizzato nel caso della moglie inseguitrice non rientra infatti nella logica centralizzata ed omogeneizzante del servizio di trasporto urbano suggerito dai tecnici di Oxford al governo cinese, e risulta di fatto inapplicabile.
I due casi – quello newyorkese e quello shanghaiese – non sono fondamentalmente dissimili. Ciò che cambia è il grado di riduzione nel tempo dell’autonomia dei soggetti. In entrambi, essi fanno ricorso a dati e a capacità di elaborazione ad essi esterne; e soprattutto ne sono dipendenti. Nessuno dei due sarebbe infatti in grado di attuare i propri programmi di spostamento senza farvi ricorso. Solo che, nel secondo caso, il loro grado di dipendenza dallo “altro da sé†è diventato molto più pesante di quanto esso non fosse nel 1983, quando lo scultore riprodusse con la sua statua in bronzo il tipico newyorkese. Ed è facile rendersi conto del fatto che la tendenza all’aumento della dipendenza che si è manifestata nel trentennio 1983-2013 continuerà nel futuro prevedibile.
La più seria differenza tra i due casi sta soprattutto nel campo della privacy.
Nel secondo caso, quello che ha luogo a Shanghai, è molto più ampia la quota di informazioni che possono essere conservate in una memoria centralizzata, e quindi accessibili da parte di più soggetti; e ciò in aggiunta alle informazioni che restano nella memoria dello smartphone il quale, almeno in teoria, è accessibile solo al proprietario.
In altri termini, in tutti i gesti, gli atti, le scelte e le decisioni della vita quotidiana noi siamo ormai dipendenti da una struttura complessa in parte interna al nostro corpo e in parte ad esso esterna, in parte da un sistema conoscitivo-elaborativo strettamente personale e in parte di accessibilità e di uso collettivo. E la parte esterna è in rapida e non controllabile crescita.
Quello del taxi è, ovviamente, solo un esempio certamente minore e secondario. Ma non tanto se si pensa che, se si seguisse la proposta degli “esperti†di Oxford diventerebbe possibile mettere in storage ogni spostamento degli abitanti di Shanghai, a parte quelli effettuati a piedi – cioè quasi nulla, in una metropoli di venti milioni di abitanti – con la metropolitana. A condizione tuttavia che questi spostamenti possano essere pagati – come accade ora – con una chargecard anonima che, per calcolare il costo della corsa, richiede che essa venga letta magneticamente tanto alla stazione di entrata che a quella di uscita. Ciò è oggi possibile in Cina, dove – a differenza dei paesi “più liberiâ€del mondo occidentale – perfino le carte Sim si vendono liberamente e in maniera anonima agli angoli delle strade (il che consente ad esempio a chi ha subito un torto dalle autorità di farne denuncia anonima ad uno dei tanti gruppi di opposizione). Ma che sarebbe altrettanto controllabile qualora un governo meno “liberale†decidesse la personalizzazione delle chargecards, oppure fosse possibile pagare direttamente con uno smartphone o con il nuovissimo orologio-portafoglio della Apple.
Il caso particolare che abbiamo qui usato a titolo esemplificativo potrebbe tuttavia essere generalizzato in quanto ad internet non si fa ormai più ricorso soltanto per informarsi sulla programmazione dei cinema, sulle condizioni meteorologiche o del traffico del prossimo weekend. Ad internet, ad esempio, già da molti anni si fa appello anche per accedere ai cosiddetti “sistemi esperti†che aiutano nella presa di decisioni di ben maggiore rilevanza come, ad esempio, le cure mediche o le scelte di investimento. E se si estrapolano le nuove tendenze attuali, è facile prevedere che molte nostre importanti decisioni personali dipenderanno sempre di più dalla capacità di elaborazione dati (e sostanziali prese di decisioni che possono coinvolgere la stessa vita) da parte di memorie e computer ad accesso non personale e esclusivo.
Non è una prospettiva che va per forza vista in termini negativi, come un fattore di depotenziamento del cervello umano, o come una sua abdicazione rispetto a un’entità esterna da noi stessi creata, cioè di un nostro stile di Frankenstein. Perché il computer non è veramente una macchina aliena, ma una macchina che imita, senza essere ancora riuscito ad eguagliarli, gli stessi meccanismi del pensiero umano. Insomma, perché in definitiva, in realtà il rapporto con computer esterno può anche essere visto come un fattore di potenziamento e non di depotenziamento del cervello umano.
Tutt’al più quello che si potrebbe ironicamente dire è che in futuro sarà sempre più difficile suicidarsi, o almeno suicidarsi completamente, nel senso che sarà praticamente impossibile annullare un quotidianamente accumulantesi insieme di quei segni del proprio passaggio nel mondo dei viventi che finiscono per costituire la persona, quale essa si è, nel corso della vita, gradualmente costruita e definita nel rapporto con gli altri. In definitiva, la crescente difficoltà di suicidarsi davvero potrebbe essere considerata come un risvolto – di segno cambiato – di ciò che tenta, un po’ ingenuamente, di ottenere con il cosiddetto immortalityproject che tanto interesse desta tra i miliardari americani.
Ma forse, anzi probabilmente, sarà anche meno “utile†suicidarsi, perché il senso di individuale impotenza di fronte agli implacabili meccanismi del mondo, che è – o che almeno i non-suicidi possono immaginare che sia – all’origine di un gesto tanto radicale potrebbe trovare anche modi di essere lenito o superato. E ciò grazie all’espansione della capacità umana di conoscere, di comprendere (cioè mettere in correlazione tra di loro) e di elaborare dati, e quindi prendere decisioni sui modi in cui continuare a vivere, per trovare nuove ispirazioni e nuove ragioni di vita. Tutto ciò non basta tuttavia a nascondere né a compensare gli aspetti antropologici della mutazione in corso come conseguenza della possibilità per ciascun individuo di disporre di questi supplementi esterni dalla propria attività intellettuale e di presa di decisioni.
Quello che appare evidente è il fatto che una parte notevole, e soprattutto una parte sempre crescente, dei nostri processi conoscitivi e decisionali saranno sostenuti ed aiutati dall’esterno del corpo fisico dell’uomo. E soprattutto che gran parte di questo processo sarà messo in comune, perché sarà contenuto in computer o centri di conservazione e memorizzazione di dati esterni al singolo individuo. Il processo decisionale sarà insomma sempre più di tipo sociale e sempre meno a carattere individuale. Il che significa che la perdita subita va oltre la restrizione della privacy (che avviene quando gli altri “leggono†dentro di te, quando gli altri sanno di te, dei tuoi atti, dei tuoi desideri, delle tue pulsioni) per diventare una perdita di autonomia della formazione della volontà , dei desideri, delle pulsioni.
Per chiarire questo semplice concetto basterà ricorrere ad una sorta di metafora, comparando due figure assai simili, ma che appartengono l’una al campo della realtà , l’altra a quello delle costruzioni verbali e delle rappresentazioni grafiche proprie degli esseri umani: un albero carico di mele ed un albero genealogico.
L’apparenza è simile, e non senza motivo. L’albero è il risultato di un lungo processo in cui, col succedersi delle stagioni e degli anni, un sistema vivente si è sempre rinnovato ed è sempre rimasto simile a se stesso, ha prodotto sempre nuovi frutti ed ha mantenuto il proprio DNA sempre eguale, o meglio – grazie all’evoluzione naturale – sempre più rappresentativo delle caratteristiche della specie. L’analogia con la stirpe umana è, almeno in una certa misura, legittima.
La vera differenza sta nel grado di autonomia dei frutti. L’albero genealogico è infatti inesistente in natura, ed è solo una metafora, non priva di una componente ideologica, perché i singoli uomini godono, rispetto al sistema, di un grado immensamente più elevato di autonomia. Hanno una possibilità di conservare informazioni necessarie alla propria crescita e di elaborare tali informazioni, infinitamente superiori a quella dei frutti. Per dirla assai rozzamente, una stirpe umana – ammesso che una tale cosa esista – è un sistema a informazioni e decisioni decentrate, mentre l’albero – con una forzatura – può essere definito un sistema a decisioni centralizzate.
Per fare un esempio ancora più rozzo, un albero è come una rete ferroviaria, o una rete elettrica, in cui i flussi sono regolati da un unico centro, pena il collasso del sistema. La stirpe umana è come il traffico automobilistico, in cui il conducente di ogni veicolo ha una fortissima autonomia decisionale su destinazione, direzione, tempi, velocità , soste, sorpassi, cambi di corsie. Il traffico dei flussi di informazioni su internet ha natura un po’ simile, è questa non è l’ultima ragione per cui pensiero naturale ed informatica/cibernetica tendono ad interferire.
Con la nascita di memorie e di capacità di elaborazione esterne al singolo individuo, ma a lui accessibili, si intravede oggi una riduzione del grado di autonomia e decentramento delle decisioni che vengono prese, e che possono essere prese, dai singoli esseri umani; una sorta di convergenza tra l’albero di mele e l’albero genealogico. Tende ad aumentare la dipendenza dalle parti comuni del sistema, e quindi ad attenuarsi la principale differenza: quella che faceva sì che l’uomo potesse vivere e operare molto più a lungo e in infinitamente più forte grado di autosufficienza di quanto ciò non fosse possibile alla mela. E siccome gran parte delle informazioni e della capacità di elaborazione esterne all’uomo, e di cui egli fa sempre maggior uso, sono accessibili non solo al singolo individuo, ma a moltissimi suoi simili, tende a diminuire la singolarità di ciascuno. E quelle che noi, singoli soggetti umani, chiamiamo la privacy e l’autonomia decisionale. L’albero genealogico, insomma, rischia nel tempo non solo di assomigliare, ma di operare sempre di più come l’albero di mele.
Che l’uomo accetti questo cambiamento del suo status senza nessuna visibile resistenza appare illogico e contrario al mero istinto di conservazione, presente in tutti o quasi gli organismi viventi. Eppure basta vedere ciò che è accaduto negli ultimi vent’anni, cioè da quando esiste internet, con quanta incoscienza, leggerezza, perfino entusiasmo, l’essere umano abbia rinunciato ad ogni privacy, per pensare che lo stesso possa accadere anche in materia di presa di decisioni. Se non lo si è visto ancora appieno è probabilmente perché, dalla nascita della “rete†si è avuto infatti solo un uso parziale – e quasi “degradato†– del computer, utilizzato quasi solo come terminale di un potente e veloce sistema di comunicazione, in presenza del quale è praticamente impossibile a chi ne fa uso mantenere la conoscenza esclusiva dei dati più intimi del proprio io, mentre la capacità del computer di simulare e sostituire il cervello umano veniva provvisoriamente messa in ombra. Ma è chiaro che l’uso del computer come mero terminale di comunicazione non è destinato a durare a lungo, e che la funzione di comunicazione tra utenti sta già diventando un semplice strumento della sostituzione del sistema all’utente nella funzione di decisione.
E mentre qualcuno sembra – anzi molti sembrano – preoccuparsi per la minaccia che i robot rappresenterebbero (o forse effettivamente rappresentano) per il dominio che l’uomo ha sino a ieri esercitato sul mondo formatosi grazie ad un lunghissimo e lento processo di evoluzione naturale, attenzione stranamente scarsa sembra essere dedicata a quest’altra minaccia: quella che noi tutti, nell’illusione di potenziare le nostre individuali menti ricorrendo a capacità esterne di memoria e di elaborazione dati, si finisca per accettare di non essere più come gli anomali e folli frutti che appaiono sugli alberi genealogici, in grado di ruzzolare in giro per il mondo, di trasformarlo in meglio come di far danno, di porci domande e talora di trovare pure qualche risposta. Si finisca cioè per accettare di essere come i disciplinati frutti di un albero di mele: un organismo, un sistema che consente ai suoi frutti di allontanarsi ed essere autonomi entro margini assai ristretti, in pratica solo per la funzione riproduttiva di altri, ed altrettanto disciplinati, alberi di mele.
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