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Introduzione al 1756
di
Giuseppe Galasso
Che il 1756 abbia segnato un tornante decisivo sia della storia americana (di tutte le Americhe), sia nella storia dei rapporti fra Europa e Nuovo Mondo (che non era allora più tanto nuovo) è appena il caso di ricordare. Più importante è, tuttavia, ricordare, in primo luogo, che quella data del 1756 non segna un inizio ex novo, una partenza sconvolgente in un ordine fino ad allora stabile e consolidato; e, in secondo luogo, che l’importanza di quella data sta tutta nei mutamenti che essa apporta o di cui segna l’inizio nell’ambito euro-americano.
Bisogna, infatti, aver chiaro innanzitutto che il 1756 è la prosecuzione di confronti e contrasti annodatisi da più di un secolo e mezzo intorno all’assetto delle terre americane a Nord e a Est del Messico spagnolo. Si sa che agli inizi del XVIII secolo questi confronti avevano portato alla costituzione di spazi coloniali di una certa consistenza: degli inglesi sulla costa orientale degli attuali Stati Uniti, dei francesi in Louisiana e nel Canada, degli spagnoli su tutto il grande arco che va dalla California al Texas e alla Florida, comprendendo una gran parte dell’attuale West degli Stati Uniti; e ciò dopo che nel frattempo era stata eliminata dagli inglesi una presenza olandese, che si estendeva dalla foce del Hudson a Manhattan e al Delaware, d’onde nel 1655 erano stati scacciati gli svedesi.
Questi semplici, e finanche banali, dati di fatto si prestano a un’immediata, prima considerazione di un certo rilievo storiografico, e cioè che non è molto fondato ritenere e rappresentare l’impero americano spagnolo ripiegato e contratto su se stesso per difendere le sue tanto estese dipendenze coloniali dall’assedio e dallo sbrindellamento cui erano sottoposte da parte delle nuove potenze emergenti del secolo XVII. Come si sa, è questa anche una visione tradizionale della parabola della potenza spagnola in Europa, ritenuta in declino già al chiudersi del lungo regno di Filippo II, e che, invece, resta al centro della politica europea per tutta la prima metà del secolo XVII, è la protagonista di quella sorta di pax hispanica che sembra regnare nel primo ventennio di quel secolo, e durante la guerra dei Trent’anni appare fin oltre la metà degli anni ’30 non troppo lontana dalla vittoria.
Si tratta, comunque, di una visione della grande politica europea e dell’espansione coloniale delle potenze europee non convalidata dall’insieme dei dati di fatto ai quali ci dobbiamo riferire. E, per quanto riguarda il mondo extraeuropeo, è vero che all’unione delle corone di Spagna e Portogallo fra il 1580 e il 1640 non corrispose nessuna reale integrazione dei grandi imperi coloniali dei due paesi, e neppure vi fu una sommatoria, per così dire, delle loro politiche nel nuovo e tanto più vasto ambito della loro unione dinastica da Filippo II a Filippo IV. Ciò non vuol dire, però, che nella politica europea e in quella coloniale quell’unione non abbia contato per nulla o che tutto sia proceduto come se essa non fosse mai stata. La Spagna, e con essa il Portogallo, rimasero, infatti, e comunque, grandi potenze coloniale ancora in espansione nel secolo XVII. Nella stessa America meridionale il loro spazio coloniale si allargò. Il Brasile si avviò a raggiungere gradualmente l’estensione che ancor oggi lo caratterizza. Da parte spagnola si giunse al Cile; si allargò di molto lo spazio diventato poi l’Argentina; si costituì alla fine di un lungo processo quel vicereame della Nuova Granada, che si estese sulle attuali Colombia, Venezuela, Ecuador e Panama; il Paraguay, già sul punto di essere abbandonato alla fine del secolo XVI, fu poi, attraverso tutte le complesse vicende delle reducciones gesuitiche, ricongiunto all’impero di Madrid, anche se privato di alcune reducciones cedute al Portogallo, ma con una migliore precisazione dello spazio boliviano. Di perduto non vi fu che lo spazio poi della Guyana e del Suriname, a opera degli inglesi e olandesi e, in ultimo, dei francesi: che si può considerare uno spazio minimo rispetto al complesso continentale. E, comunque, non mancarono fasi ed episodi di riconquista di terre inizialmente perdute o occupate da altri, come accadde in Brasile per le zone settentrionali e per Pernambuco, da cui nel 1654 i portoghesi cacciarono gli olandesi, che vi si erano stabiliti, e si ripresero quel paese. Marginale, e passata attraverso varie vicende, fu la perdita delle Malvinas, poi Falkland. Né fu ampio lo spazio sottratto alla Spagna nell’America centrale, dove solo il futuro Honduras britannico venne tempestivamente ipotecato da Londra alla sua espansione oltreoceano. Fu, dunque, nell’arco insulare che chiude il Golfo del Messico e il Mar dei Caraibi che si ebbero le perdite maggiori dello spazio imperiale spagnolo, fino al punto che soltanto Cuba, la metà orientale di Haiti e Portorico sarebbero rimaste più a lungo nelle mani di Madrid, mentre tutte le altre Grandi e Piccole Antille, le Bahamas e altri gruppi insulari furono ripartiti tra inglesi, francesi e, in minore misura, olandesi, dando origine a storie che in più di un caso si associarono a quelle dei paesi dominanti, come alla fine fu per i Dipartimenti d’Oltremare francesi della Martinica e della Guadalupa. Perdite importanti, ma soprattutto per lo sfruttamento economico, specialmente commerciale che i nuovi padroni ne seppero fare, oltre che, com’è ovvio, per le posizioni politiche e strategiche che quelle isole assicuravano.
Anche dal punto di vista dell’organizzazione politico-amministrativa del loro vasto impero gli spagnoli non mancarono di attuare sforzi notevoli per raggiungere una sistemazione funzionale ai fini della loro concezione coloniale. Vicereami, audiencias, capitanerie generali e una serie di altri istituti amministrativi e giurisdizionali locali e periferici impiantarono nel Nuovo Mondo una struttura destinata, con le successive variazioni, a durare nel tempo (ivi compresa la dipendenza delle lontane Filippine dal viceré del Messico, che meriterebbe da sola un suo commento). In fondo, fu proprio la generale concezione coloniale a costituire la maggiore debolezza imperiale di Madrid, ed essa ne avrebbe pagato lo scotto con la perdita complessiva e pressoché simultanea di tutto quel vastissimo ambito ispano-americano, in cui il legato della lingua ha, tuttavia, formato un punto destinato a farsi sentire in maniera e misura d’impreveduta portata nella storia futura del Nuovo Mondo.
In sostanza, se un insegnamento si poteva ricavare dallo svolgersi degli eventi dei quali si è accennato era che, certo, le nuove potenze oceaniche – olandesi, inglesi, francesi – erano ormai in grado di attentare seriamente, gravemente alla sicurezza degli estesissimi dominii della Spagna e del Portogallo, assalire e saccheggiare questa o quella fra le loro città più importanti, intercettare le navi e i convogli che collegavano le Americhe e la penisola iberica, pirateggiare assiduamente nei mari americani, effettuare in singole situazioni colpi di mano per mare e per terra, primeggiare sempre più nella navigazione e nei commerci oceanici. Era pure evidente, però, che quelle nuove potenze non avevano la forza di conquistare se non le parti periferiche e più esterne dei grandi complessi imperiali iberici, che continuarono, infatti, la loro vicenda sullo sfondo di una tenace presunzione di illimitata permanenza nel tempo e nella loro consistenza: un vero imperium sine fine, insomma, e una presunzione, detto per inciso, che sarebbe stata confortata, in ultimo, dal fatto che la fine degli imperi iberici non avvenne, nella prima metà del secolo XIX, per conquista di altri, ma per i movimenti di rivolta che li scossero dall’interno.
La storia atlantica del secolo XVII è dominata dal fitto intreccio di queste vicende e di queste condizioni, anche se d’ordinario esse restano al di fuori o del tutto ai margini della considerazione storica relativa alla storia europea di quello stesso secolo. Eppure, al più tardi agli inizi del secolo XVIII l’interconnessione euro-americana cominciava a farsi non solo molto più chiara, ma anche, come nella conclusione della guerra di successione spagnola fu già manifesto, più rilevante ai fini sia della balance of power in Europa, sia ai fini di un equilibrio di potenza globale, che non era ormai più determinabile, né qualificabile soltanto come equilibrio europeo e in Europa.
Il dato più vistoso delle sistemazioni concordate nelle paci di Utrecht fu certamente quello della divisione della monarchia spagnola, che conservò, come è noto, il suo impero coloniale, ma perdette tutte le sue dipendenze europee in Italia e nei Paesi Bassi. La Spagna si trovò così a continuare ad essere una potenza atlantica di primo rango, anche se proprio a Utrecht cominciò a configurarsi con particolare evidenza il ruolo già maturo dell’Inghilterra come potenza marinara ormai mondiale e di ancora maggiore avvenire.
Tale l’Inghilterra fu resa dai guadagni territoriali allora ottenuti in Europa, da quello definitivo di Gibilterra a quello provvisorio di Minorca, ma innanzitutto, e proprio, nell’ambito americano. Qui, a fare le spese della vittoria inglese non fu la Spagna. A questa Londra strappò la concessione trentennale dell’asiento, ossia del monopolio della tratta dei negri nelle colonie spagnole. Concessione di grande rilievo in sé e per sé, la cui importanza era, tuttavia, rimessa soprattutto allo sviluppo della potenza mercantile inglese, che nei decennii successivi, in cui sempre più si rivelò il suo straordinario incremento, ebbe, dunque, anche nella tratta uno dei suoi maggiori impulsi. Inoltre, le vicende del Portogallo, tornato all’indipendenza dinastica dopo la rivolta del 1640 e il lungo conflitto con la Corona spagnola, chiusosi solo nel 1668, ebbero uno sviluppo particolare nel distacco portoghese dai suoi antichi e storici legami col mondo ispano-iberico. L’unione dinastica con Madrid aveva coinvolto Lisbona nei grandi conflitti europei e l’aveva esposta alle ostilità dei nemici della Spagna. Gli olandesi, in particolare, fecero cacciare i portoghesi dal Giappone, si impadronirono delle Molucche e di Ceylon, e cercarono, di impadronirsi sia pure senza successo, delle coste settentrionali del Brasile. Qualsiasi associazione portoghese con Madrid non poteva che essere fieramente scoraggiata da simili vicende. La prospettiva di una Spagna borbonica alleata con la Francia, ossia con la maggiore potenza europea, poteva far temere una nuova pressione di Madrid sul suo minore vicino iberico. E fu anche un frutto di tale timore il trattato di alleanza anglo-portoghese, stipulato a Methuen il 27 dicembre 1703, che rimase per oltre tre secoli il principale pilastro della politica estera di Lisbona, per cui si disse che da allora il vascello portoghese navigò in permanenza nella scia del grande veliero britannico.
Erano successi che bastano a dare tutto il senso della marcia trionfale di Londra sul cammino che la stava portando verso il bisecolare dominio dei mari che essa avrebbe poi esercitato. Ben maggiore di quelli toccati a Spagna e Portogallo fu, peraltro il costo che per l’affermazione inglese nella guerra di successione spagnola pagò la Francia, obbligata a cedere a Londra Terranova, l’Accadia, la baia di Hudson, nonché l’isola di San Cristoforo (Saint-Ketty) nelle Antille. Era il crollo quasi completo di quella Nouvellle France, che aveva richiesto un secolo di sforzi e che – per quanto non valutata a Parigi in maniera adeguata all’avvento in corso di nuove misure della potenza mondiale – era pur sempre un ampio dominio del re di Francia e vedeva quella Nuova Francia in marcia dal Québec verso la valle del Mississippi e il Golfo del Messico: dunque, con una grandiosa prospettiva di potenza continentale nord-americana.
Non erano fatti di poco conto in sé, ma lo erano ancora di meno in quanto non segnavano affatto un epilogo stabilizzante dello status territoriale e delle condizioni non territoriali sancito a Utrecht. Al contrario, erano la risultante di un periodo secolare d’intenso dinamismo nella competizione delle potenze europee fuori dell’Europa. Inoltre, per alcune di queste potenze (Francia, Inghilterra, Olanda) quei fatti erano la conferma del periodo di grande sviluppo apertosi per esse nel corso del secolo XVII. Per altre (Spagna e Portogallo) una lunga tradizione storiografica parla dello stesso secolo come l’epoca della loro piena decadenza, ma bisogna convenire che, alla luce di una migliore valutazione di quei fatti e di molte ricerche specifiche e di varia impostazione, che quella decadenza – anche a prescindere dalla maggiore o minore fondatezza del relativo giudizio sul piano generale della storia iberica – non fu affatto un rettilineo e inalterato precipitare a valle, ma fu, invece, un ben più complesso succedersi di svolgimenti di vario ordine, che non possono essere riassunti nell’unica cifra della “decadenzaâ€, e certo comportano una varietà di esiti e di novità o di riflussi di cui la considerazione storica non può che farsi pienamente carico. Il corso delle cose nel secolo XVIII lo avrebbe pienamente comprovato.
Lo avrebbe comprovato innanzitutto con il contemporaneo e pieno delinearsi, nella stessa fase storica dall’epoca delle grandi scoperte geografiche in poi, di un altro grande teatro dell’espansione europea e delle relative lotte di predominio fra le maggiori potenze di un’Europa ormai volta al mondo extraeuropeo in misura continuamente crescente: il teatro indiano.
Anche l’Estremo Oriente e l’Asia sud-orientale avevano costituito l’oggetto delle mire espansive di quelle potenze, ma con andamenti ed esiti diversi in ciascuno di questi due grandi ambiti geografici. La prospettiva giapponese, che era apparsa molto promettente anche dal punto di vista della diffusione del Cristianesimo, si chiuse del tutto, e fra gli europei soltanto gli olandesi conservarono relazioni commerciali con quel paese (ma senza il diritto di penetrarvi, poiché furono limitati a frequentare un’isola artificiale nella rada di Nagasaki, e, per giunta, in condizioni umilianti). Anche in Cina vi fu una certa penetrazione cristiana, soprattutto grazie ai gesuiti, ma la presenza europea rimase molto marginale, nel complesso, malgrado che ai portoghesi venisse aperto il porto di Macao.
Furono, invece, Malesia e Indonesia a costituire il primo grande spazio imperiale europeo in Estremo Oriente, per iniziativa dei portoghesi, poi soppiantati dagli olandesi, che allargarono via via il loro dominio. Nel secolo XVII le Indie olandesi raggiunsero la consistenza che avrebbero poi sostanzialmente mantenuto sino alla fine, e la trasformazione e quasi rifondazione, nel 1619, di Giacarta come Batavia quale capitale di questo impero rivelò anche nel nome, che ad essa fu orgogliosamente dato, la maturità , ormai, della coscienza imperiale delle piccole Province Unite.
I portoghesi, benché superati ed emarginati dagli olandesi, non scomparvero del tutto da questo scenario, poiché conservarono, oltre la loro presenza a Macao, la metà di Timor. A meno ancora si ridusse, a sua volta, la loro presenza in India, che si venne gradualmente ad aggiungere a quello indonesiano e malese come altro spazio imperiale europeo in Asia.
In India i portoghesi avevano cominciato a essere presenti fin da dopo che Vasco de Gama aveva trovato la vera “via delle Indieâ€, in cerca della quale era partito Cristoforo Colombo, che era giunto, invece, al Nuovo Mondo. Tuttavia, malgrado una sparsa penetrazione in varii porti indiani e a Ceylon, la presenza europea in India (anche qui: olandesi, inglesi, francesi) non aveva ancora assunto, agli inizi del XVIII secolo, che una consistenza, tutto sommato, alquanto circoscritta, anche se molto importante per i traffici locali e per quelli europei. Cominciò da allora, però, a delinearsi un vero e proprio disegno di costituire anche in India un impero europeo, e fu, come si sa, il governatore francese di Pondichery, Dupleix, a promuoverlo e procurarne un deciso avvio. A questo punto la lotta per la preminenza nell’ambito indiano apparve restringersi alle due Compagnie, la francese e l’inglese, costituite a questo scopo.
L’inclusione dell’India nelle prospettive espansionistiche delle maggiori potenze europee fu, così, l’elemento di maggiore novità nel periodo successivo alla pace di Utrecht, e si aggiunse ai tanti motivi di confronto e di contrasto che si presentavano sul teatro nord-americano e che si riassumevano ormai nella formazione di un grande arco di possessi o influenze francesi dalla Baia di Hudson a Nouvelle Orléans, alle foci del Mississippi, nel territorio che venne denominato Louisiana in onore di Luigi XIV. Questo arco francese girava intorno all’ormai estesa fascia esterna di colonie e possessi inglesi fra la baia di Hudson, con le colonie che nel 1688 furono raggruppate nel “dominion della Nuova Inghilterra†(New England), e le colonie meridionali più vecchie della Virginia e del Maryland e quelle nuove della Georgia e delle due Caroline. La fascia di questi possedimenti britannici si era meglio delineata dopo che nella seconda metà del secolo XVII gli inglesi erano riusciti a prevalere nettamente sugli olandesi sottraendo loro la Nuova Olanda, ossia un importante spazio frapposto fra le colonie inglesi settentrionali del New England e le colonie meridionali, nel quale si trovava anche Nuova Amsterdam, principale centro del commercio coloniale di questa costa occidentale, conquistata dagli inglesi nel 1664 e da essi ribattezzata come New York, riconquistata dagli olandesi nel 1673 e definitivamente ripresa dagli inglesi nel 1674.
Soltanto sullo sfondo delle grandi contese coloniali fra le potenze europee in Asia e nelle Americhe restavano ancora, per allora, altri simili confronti e contrasti sulle coste occidentali, meridionali e orientali dell’Africa, che avrebbero preso un effettivo sviluppo solo nel corso del secolo XIX.
A metà , quindi, del secolo XVIII c’erano già tutti gli elementi che danno al 1756 il grande significato che quell’anno ha nella storia europea e mondiale: al 1756 o, per meglio dire, al conflitto che allora si aprì, e che si concluse, sette anni dopo, con mutamenti indiscutibilmente decisivi nella carta geo-politica di una gran parte del Vecchio e del Nuovo Mondo, e proprio della parte che avrebbe avuto in seguito un ruolo fra i maggiori della storia successiva. La guerra mise, infatti, capo, come si sa, alla pace di Parigi del 1763, con la quale la Francia dovette cedere agli inglesi quasi tutti i suoi possedimenti in India, e accettare il divieto di tenere truppe e di costruire forti nel Bengala. Dovette cedere, inoltre, tutti i suoi possedimenti nell’arco fra il Canada e la foce del Mississippi, mentre la Louisiana andava alla Spagna in compenso della Florida, da essa ceduta agli inglesi, ai quali i francesi dovettero anche lasciare, in Africa, il Senegal.
Quella guerra fu, dunque, molto infelice per le monarchie borboniche, anche se per la Spagna, almeno per quanto riguardava le questioni coloniali, andò, tutto sommato, meglio che per la Francia. Si ebbe, infatti allora la fine del cosiddetto “primo impero coloniale franceseâ€. La Francia conservava, invero, i suoi possedimenti nelle Antille e varie basi mercantili in India e in Africa, ma appariva ormai declassata a potenza coloniale di secondo, se non di terzo ordine. A ricostruire un suo impero non valse la conclusione favorevole della guerra di indipendenza americana, nella quale essa si schierò con i coloni ribelli contro l’Inghilterra. Nel trattato di pace stipulato a Versailles nel 1783 furono ad essa riconosciute le sue posizioni in India, il ritorno in Senegal e a Tobago nelle Antille e il diritto di pesca nelle acque di Terranova; ma erano, a ben vedere, poca cosa in confronto alle perdite del 1763. Fu addirittura migliore, ancora una volta, il risultato della Spagna, che non riuscì a ottenere la restituzione di Gibilterra, ma riebbe Minorca e la Florida. Napoleone obbligò poi nel 1800 la Spagna a cedere alla Francia la Louisiana, che, però, a sua volta, nel 1803 vendette agli Stati Uniti, mentre nel 1804 dovette anche rinunciare a Haiti, che con le sue piantagioni di zucchero rappresentava la migliore colonia che Parigi avesse conservato. Un nuovo, e ben più grande e importante impero coloniale francese sarebbe stato costruito solo nel XIX secolo, a partire dalla conquista dell’Algeria fra il 1830 e il 1848, e, soprattutto, con le grandi iniziative della seconda metà di quel secolo.
Diverso fu il caso inglese. L’avanzamento conseguito fino alla guerra dei Sette Anni fu tale che nemmeno la perdita, gravissima, delle colonie americane, sancita nello stesso trattato di Versailles del 1783 col riconoscimento dell’indipendenza dei neonati Stati Uniti, poté interromperne l’ulteriore ascesa imperiale. Oltre a conseguire i già indicati avanzamenti territoriali, Londra venne attuando dal 1763 in poi una linea importante di rassodamento e di riorganizzazione politico-amministrativa, sulla cui base, dal 1798 in poi, iniziò, soprattutto in India, una nuova fase di vera e propria conquista, dei territori e dei paesi che si aprivano per l’una o per l’altra ragione alla sua penetrazione e al suo dominio.
Bastano, comunque, gli sviluppi sintetizzati fin qui per riconoscere quanto sia fondata l’indicazione del 1756 come una data certamente rilevante nella storia imperiale e coloniale dell’Europa, e, più in generale, nella storia geopolitica del mondo intero, ma il cui significato si può intendere appieno soltanto se quell’anno viene inserito e totalmente calato nella complessa vicenda di oltre due secoli e mezzo della quale abbiamo cercato di indicare alcuni delle principali linee di svolgimento. Col che, beninteso, non si vuole operare alcuna riduzione o ridimensionamento di quella data così eminente nel quadro storico generale. Solo, si vuole giungere a una più realistica e fondata visione di questo quadro, che permette, fra l’altro, anche una serie di ulteriori precisazioni, indispensabili per individuare e specificare altri aspetti riconoscibili nella storia delle vicende sulle quali ci siamo fin qui soffermati.
È, infatti, a questo punto, certamente necessario chiedersi più dettagliatamente il rapporto fra politica di potenza in Europa e politica di potenza fuori dell’Europa nell’ottica e nell’azione delle classi politiche e dei loro gruppi dirigenti dal momento in cui il Nuovo Mondo si collocò nell’orizzonte culturale e operativo, ossia almeno dai primi inizi del secolo XVI. Quale la novità dopo?
Non appare dubbio, per la verità , che la materia coloniale sia rimasta a lungo in secondo piano nella generale politica europea, e che un più largo interesse al riguardo si sia sviluppato, più che altro, nella scia della lotta contro la temuta egemonia e l’espansionismo spagnolo, innanzitutto, in Europa, per cui si potrebbe addirittura dire che l’interesse per le questioni coloniali sia stato un complemento della resistenza e della lotta a Madrid. Naturalmente, sotto la spinta, innanzitutto, e soprattutto, dei macroscopici interessi economici che la colonizzazione determinava e promoveva, il complemento divenne rapidamente un capitolo a sé. Lo divenne – si può dire con una certa sicurezza – appena gli interessi oltremarini dei paesi interessati assunsero una consistenza non più trascurabile, sicché ci si avviò più o meno rapidamente a considerarli non più soprattutto come un’appendice o una secondaria implicazione della lotta ai due maggiori paesi coloniali, Spagna e Portogallo.
Per i due paesi iberici le colonie avevano subito costituito soprattutto un prezioso serbatoio di risorse da poter impiegare nella loro politica interna ed estera. Essi non avevano grandi motivi per includere i loro interessi coloniali negli accordi e trattati che stipulavano con altri paesi. Erano storicamente costituiti in una posizione di grande vantaggio sia per la tempestività della formazione dei loro dominii, sia per la vastità degli spazi che subito si trovarono a occupare e che fra il secolo XVI e il secolo XVIII andarono considerevolmente allargando. Non avevano, quindi, motivo di portare la materia coloniale all’ordine del giorno della diplomazia europea, e quella materia divenne ben presto un dipartimento del governo generale delle due monarchie, che nei rapporti globali furono per un paio di secoli come grandi fortezze sottoposte alla pressione costante di una serie di incursori e di assedianti e che, tuttavia, mantennero intatto il grosso delle loro posizioni.
Ciò rispondeva tanto più ai loro interessi imperiali in quanto entrambi i paesi vantavano e ostentavano un fondamento giuridico, che si pretendeva inoppugnabile, del loro dominio nel Nuovo Mondo. Che era poi la bolla con la quale il papa Alessandro VI aveva riconosciuto i loro diritti a quel dominio e aveva, allo stesso tempo, fissato, come si sa, la “linea di demarcazione†tra la sfera spagnola e quella portoghese, che non sarebbe rimasta del tutto inalterata nel tempo, poiché l’attuale Brasile è in qualche parte al di là di essa, ma si è rivelata uno strumento efficace nei rapporti tra i due paesi iberici. Su questa base sia Madrid che Lisbona pretesero che la bolla di Alessandro VI e le linee in essa fissate fungessero da norme riconosciute e accettate del jus gentium, ossia da norme del moderno diritto pubblico internazionale, che in quei secoli andava sviluppandosi in significativa corrispondenza col parallelo affermarsi della diplomazia come altro punto di novità moderna nel campo delle relazioni fra Stato e Stato.
Fin dall’inizio la pretesa iberica non ebbe molto successo. Nelle paci che conclusero le guerre di Francesco I e di Enrico II contro Carlo V e Filippo II il riconoscimento della validità giuridica della bolla di Alessandro VI come titolo al possesso del Nuovo Mondo non vi fu mai, e le proteste iberiche contro il contrabbando francese nelle Antille e sulle coste dell’Africa furono respinte. La tesi francese era che l’accordo di Tordesillas era soltanto un accordo senza valore al di là dei rapporti fra i due contraenti, in cui la stessa linea di demarcazione era stata stabilita con un’intesa fra loro senza l’intervento di alcuna autorità ecclesiastica. Di conseguenza, la bolla pontificia di riconoscimento dell’accordo non dava ad esso alcun altro valore giuridico, se non quello di una registrazione pubblica di quell’accordo. Così fu ancora nella pace di Cateau-Cambrésis (1559), e quarant’anni dopo nella pace di Vervins (1598).
Nel pensiero politico e giuridico dell’epoca il vero, effettivo e indiscutibile titolo di possesso in un mondo nuovo come quello transatlantico poteva essere fondato soltanto sull’occupare per primi un territorio che in precedenza si trovasse libero da giurisdizioni riconosciute nel mondo cristiano. E anche in base a questi presupposti accadde che del diritto internazionale entrasse piuttosto a far parte, in pratica, la regola che nessuna pace o accordo non specifico fra Stati valesse al di là della linea di demarcazione, ossia in quello che era l’ambito riconosciuto come spagnolo in forza dell’accordo di Tordesillas.
Pur riconoscendo tutto ciò, non appare, tuttavia, possibile accettare la tesi per cui, quanto al rispetto delle regole stabilite dai paesi dominanti per il commercio nelle Americhe, valessero soprattutto l’autorità e il timore delle bolle pontificie, che solo la spregiudicatezza e il coraggio dei corsari potevano superare. Ragione ben più vera di quel rispetto fu, piuttosto, la relativa, ma per nulla trascurabile efficacia del controllo delle autorità competenti, malgrado il non eccelso livello della loro moralità amministrativa; ed è proprio per ciò che lo sviluppo del contrabbando e la sua progredente incidenza quantitativa sul commercio americano costituiscono un molto attendibile termometro dell’efficienza e della trasparenza dell’apparato di governo coloniale.
La religione finì con l’entrare nella questione, ma per tutt’altri motivi. Già dalla seconda metà del secolo XVI con lo sviluppo dell’attività marinara inglese e olandese e con quella dei porti francesi dell’Atlantico la guerra di corsa e le maggiori insidie per le posizioni e per gli interessi, specialmente spagnoli, nelle Americhe vennero a essere esercitate quasi esclusivamente da protestanti (luterani, calvinisti, anglicani, ugonotti). Per questi corsari la causa della “vera religioneâ€, la “causa comuneâ€, fu strettamente associata a quella dei grandi profitti che essi si ripromettevano nell’esercitare la pirateria (e che non sempre, ma assai spesso conseguirono). A sua volta, la composizione etnico-religiosa della massima parte della pirateria consentì agli spagnoli di prospettare la lotta contro le imprese dei corsari come un aspetto della complessiva guerra di religione che essi conducevano in Europa e altrove. Piratos luteranos divenne, perciò, un’endiade spagnola, certamente giustificata da quanto abbiamo appena ricordato, ma anche dal fatto che, comunque, effetti diretti dell’attività corsara sul conflitto religioso in Europa non mancarono, anche se non li si può in alcun modo sopravvalutare. L’attività dei corsari non indebolì, infatti, in misura sensibile la Spagna, ma acuì e rese ancor più inconciliabile e drastico l’urto che gli sviluppi della lotta di potenza in Europa e quelli interni dei singoli paesi europei determinarono fra la Spagna, i suoi alleati e il fronte cattolico, da un lato, e il fronte e i paesi avversi, dall’altro lato.
A parte il rifiuto delle pretese di spagnoli e portoghesi sul fondamento giuridico del loro dominio nelle Americhe in base alla bolla famosa di Alessandro VI, vero è che in Francia, in Inghilterra e nei Paesi bassi, ossia nei tre paesi che tra il XVI e il XVII secolo si affiancarono alle due monarchie iberiche come paesi coloniali di rilievo, le colonie divennero oggetto di una considerazione politica particolare soltanto gradualmente, prima per gli olandesi e gli inglesi, e un po’ dopo per i francesi, ai quali bastò inizialmente non riconoscere alcun fondamento giuridico al monopolio spagnolo nel Nuovo Mondo. La precocità olandese non si limitò al piano cronologico. Si estese, infatti, al modo di concepire l’espansione coloniale non solo come fonte di risorse ingenti per i metalli preziosi che se ne potevano ricavare, bensì, e molto di più, come un nuovo settore di espansione dell’attività economica: mercantile, finanziaria, marinara, produttiva.
Su questa linea si andò sempre ampliando il solco fra le politiche coloniali di Spagna e Portogallo, e quelle dei nuovi paesi coloniali. Le attività economiche nelle colonie divennero per i paesi iberici quasi fin dall’inizio materia di un monopolio di stato; nei nuovi paesi – e anche fra i portoghesi a mano a mano e nella misura in cui lo Stato si rese conto di non poter sfruttare tutto da sé quel monopolio – le si lasciò senz’altro all’iniziativa dei privati.
Com’è ben noto, le compagnie di navigazione di commercio furono lo strumento mediante il quale l’iniziativa dei privati poté esplicarsi nel modo più congruo ai loro fini. Le compagnie non potevano, certo, assicurare tutta la copertura politica e militare di cui le attività transoceaniche avevano bisogno, ma dopo la metà del secolo XVII i governi cominciarono a prestare a queste materie un’attenzione molto maggiore. La legislazione inglese dall’Atto di navigazione in poi si mosse in questa direzione ed ebbe un’importanza decisiva nello sviluppo della potenza britannica. In Francia fu nel più che ventennio in cui Colbert ebbe la direzione economica e finanziaria del paese che, per quanto la politica di Luigi XIV restasse strettamente concentrata sulle cose europee, l’interesse per i problemi coloniali occupò un posto non marginale. E da allora in poi il quadro coloniale fu considerato nei negoziati e nei trattati internazionali come non lo era mai stato prima, anche se era poi sempre lo scacchiere europeo a determinare il massimo interesse delle classi di governo e delle diplomazie.
Le paci che chiusero la guerra di successione spagnola rappresentano da questo punto di vista una svolta importante, e posero le basi degli svolgimenti dei decennii successivi fino al 1756, ossia fino allo scoppio della guerra dei Sette Anni.
Quando la guerra scoppiò, già la situazione geo-politica generale nel quadro globale era mutata, e, ciò, soprattutto per il rinnovato impulso che venne da Parigi a una ripresa della sua presenza oltremare, certamente alquanto indebolita dagli esiti della guerra di successione spagnola, nella quale, nonostante il nuovo e stretto legame con Madrid non si ottenne nemmeno la concessione di un asiento come quello che i britannici ebbero, invece, come si è detto, con la pace di Utrecht.
Si può dire, assai in breve, che i francesi avevano ripreso con vigore una loro notevole azione coloniale.
Il punto principale di tale azione fu la costituzione di una loro ampia sfera di influenza e di basi commerciali in India, dove dal 1742 operò una non comune personalità di amministratore coloniale, ossia Joseph-François Dupleix. Anche nell’America del Nord, dopo le perdite subite per le paci di Utrecht, vi fu un netto miglioramento delle posizioni francesi. La lotta con gli inglesi per il controllo della regione dell’Ohio li vide complessivamente prevalere fino a quando non solo respinsero con successo un attacco contro Fort Duquesne (Pittsburgh), da essi costruito nel 1754, portato dal generale inglese Edward Braddock, con 1400 soldati regolari e 700 delle milizie locali, inviati dal governo della Virginia e guidati da George Washington, ma anche batterono nettamente, pur disponendo soltanto di 900 uomini tra francesi e indiani loro alleati, le truppe di Braddock in uno scontro a Wilderness, il 9 luglio 1755. Nello stesso tempo la Louisiana – dove nel 1718 venne fondata Nouvelle Orléans, che nel 1722 ne divenne anche la capitale – fu posta nel 1731 sotto il diretto controllo della Corona. Anche laggiù imperversò la speculazione connessa alle singolari iniziative di John Law, che nel 1725 si conclusero con lo stesso fallimento che altrove. La Corona non dimostrò, tuttavia, in Louisiana, dopo il 1731, un interesse maggiore di prima. Le posizioni francesi nelle Antille (Martinica, Guadalupa, San Cristoforo e, soprattutto, Haiti) e la stessa Guyana furono, perciò, le zone alle quali Parigi dedicò maggiore attenzione, come dimostrò, fra l’altro, anche la loro diversa sorte rispetto al resto degli altri suoi possedimenti americani dopo la guerra del 1756.
A questi progressi o guadagni francesi dopo il 1713 corrisposero quelli degli inglesi, e degli stessi spagnoli e portoghesi, sicché la sola Olanda appare in una fase di ripiegamento rispetto al precedente vertice delle sue fortune marinare e coloniali. Questa constatazione può riuscire sorprendente per quanto riguarda gli imperi di Spagna e Portogallo. Lo è, però, in effetti, meno di quanto sembra, e non solo per le considerazioni di ordine generale esposte di sopra, bensì anche perché ben si sa che la partita spagnola e portoghese nelle colonie d’America seguì un corso che fu in parte autonomo e diverso rispetto alla vicenda della potenza dei paesi. La potenza militare spagnola tramontò in Europa con la battaglia navale delle Dune a opera degli olandesi nel 1639 e con quelle campali di Rocroi nel 1643 e, ancora, delle Dune nel 1658 a opera dei francesi. Nella seconda metà del secolo XVII la Spagna si trovò, perciò, in Europa in una situazione militare che a volte fu addirittura di impotenza e dalla quale non si riprese che dopo molto tempo, e senza mai più raggiungere il grado di potenza precedente. Il Portogallo, si dové adattare, come sappiamo, a costituire, col trattato di Methuen, come pure sappiamo, un satellite britannico. Entrambi i paesi iberici poterono, invece, mantenere, confermare e, perfino, in qualche modo ampliare i loro possedimenti e la loro sfera di influenza nel Nuovo Mondo. Dopo i due grandi episodi del 1628 e del 1656-1658 di cattura della flotta spagnola che trasportava l’argento e i redditi americani in Spagna, da parte olandese nel primo caso e inglese nel secondo, altri episodi simili non vi furono più; e, anche se in alcuni anni si preferì o si dovette rinunciare alla navigazione delle flotas tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, nel complesso si può affermare che i trasporti atlantici divennero nel secolo XVIII più sicuri, mentre una flotta militare spagnola rinasceva, e nella seconda metà di tale secolo poté avere, ed ebbe, almeno fino alla battaglia di Trafalgar, un suo ruolo, di cui a livello internazionale si fece il dovuto conto.
Com’era ovvio, con il diffondersi della rivoluzione industriale l’interesse per i paesi extra-europei e per le posizioni dei paesi europei fuori dell’Europa crebbe a dismisura. Le colonie quali spazi di popolamento, quali mercati di attività commerciali e finanziarie e di sbocco per la produzione dei paesi europei, quali fonti delle materie prime sempre più numerose e differenziate richieste dall’economia industriale, quali campo di investimenti vantaggiosi per la potenza dominante, quali eventuale riserva di manodopera e di effettivi militari entrarono sempre più nell’agenda dei governi e delle diplomazie europee e formarono un capitolo sempre più rilevante nella balance of power a livello globale. In modo clamoroso lo avrebbe dimostrato proprio la vicenda francese, quando, dopo l’esito disastroso della guerra del 1870-1871, Parigi cercò e trovò nell’impero coloniale che allora si costruì un compenso che le garantì il più che pieno mantenimento del suo secolare ruolo di grandissima potenza, con il sostanziale consenso – per comune convinzione – di Bismarck, che in questo détournement coloniale della grande antagonista avrebbe visto una conveniente occasione per distrarla dal pensiero di una revanche del 1870.
Nella seconda metà del secolo XIX l’imperialismo divenne così un connotato comune alla politica delle grandi potenze, e un intero congresso, quello di Berlino del1878, poté essere dedicato alla sistemazione delle questioni coloniali, in particolare, allora, per la cosiddetta “spartizione†dell’Africa, unico grande spazio extra-europeo ancora aperto all’espansione europea. La rivalità anglo-germanica nei successivi decenni avrebbe corroborato il nuovo peso delle posizioni extra-europee nella grande politica europea.
Profondamente significativo è, a sua volta, che, appena fuori d’Europa maturarono grandi potenze comparabili a quelle europee, quali gli Stati Uniti e il Giappone, subito esse adottarono gli stessi metri delle potenze europee nel definire la propria azione e i propri obiettivi: gli Stati Uniti già , molto precocemente, con la “dottrina Monroeâ€, il Giappone con la graduale emersione di un’idea di “ordine nuovo†in un grande spazio asiatico, all’insegna della “dottrinaâ€, alla fine enunciata, “l’Asia agli asiaticiâ€, sul modello (peraltro, parzialmente) della “dottrina Monroeâ€. E, altrettanto significativo, e del tutto rispondente a quanto abbiamo qui detto, è che l’imperialismo, nella più matura visione storiografica che si è finito con l’averne, ha perduto i connotati di brutale assalto alle risorse economiche e materiali del mondo nei paesi più deboli da parte del capitalismo nella sua fase più matura, e sia stato visto soprattutto come un grande fenomeno di natura e di genesi essenzialmente politica da parte delle potenze maggiori e minori in grado di nutrire e perseguire disegni di portata geo-politica adeguata alle dimensioni globali assunte sempre più dalle relazioni di potenza dalla seconda metà del secolo XVIII, in un corso storico di cinque secoli, al cui centro si trova, per l’appunto, il 1756.
Il rapporto coloniale fra Europa e mondo-extraeuropeo sarebbe tramontato definitivamente dopo la seconda guerra mondiale, nella seconda metà del secolo XX, col grandioso processo della “decolonizzazioneâ€. La rapidità di questo processo confermò il giudizio, diffuso presso molti pensatori europei circa l’eccesso espansionistico europeo nell’età moderna fin dai suoi inizi nel XVI secolo, ma, ovviamente, non attenua minimamente la profondità e, per gli storici, estremamente cospicui e assolutamente sconvolgenti e decisivi effetti e conseguenze della lunga espansione europea. Non occorreva, però, aspettare la world history per capire le dimensioni e gli effetti globali e omnipervasivi del processo di espansione europea iniziato nel secolo XVI. Le diplomazie e il pensiero europeo del secolo XVIII se ne erano già ampiamente resi conto, e avevano tradotto questa consapevolezza in un orizzonte problematico e operativo, condizionante di tutta la loro azione della loro prospettiva geo-politica e storico-politica.
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