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I partiti: inutili?
di Giuseppe Galasso
Un editoriale di Damiano Polano sul numero di aprile della rivista “Filosofia politica” si chiede: “il partito inutile?”. Alla domanda è dedicata tutta la parte monografica del fascicolo, nata dalla constatazione della crisi che un po’ ovunque nelle democrazie occidentali sembra aver colpito il partito come “organo motore dello Stato democratico” e “principale coefficiente di una educazione politica democratica”, quale Norberto Bobbio lo qualificava trent’anni or sono. Bobbio riferiva, in realtà, questa definizione alla fisionomia con la quale il partito era stato concepito agli inizi della ripresa democratica nel 1945. Quando scriveva a metà degli anni ’80, vedeva i partiti molto diversi da quella concezione, e gli sembrava che fossero, per ciò, andate deluse le speranze nutrite quarant’anni prima.
Quando si sente dire delle “speranze del 1945” deluse e “tradite”, c’è sempre ragione di restare un po’ interdetti. Nei successivi cinquant’anni l’Italia ha conosciuto un progresso economico e sociale insperato allora. L’ordinata e ben regolata liberaldemocrazia alla quale molti allora pensavano non è stata, invece, realizzata.
Si tenga in conto, però, che la democrazia dové sopportare a lungo, in Italia e in Europa, dal 1945 in poi la sfida di circostanze così condizionanti che, a prescinderne, nessun giudizio o riflessione storica o politica riesce attendibile. Quelle stesse “speranze”, di cui così spesso si parla, erano molto diverse da settore a settore dell’opinione italiana in materia politica e sociale. Poi, malgrado il grandissimo progresso del paese, si è aggrovigliata nella realtà italiana una tale serie di problemi, per cui negli ultimi venti anni siamo giunti dove ci troviamo oggi, e solo oggi sembra vedersi un inizio di migliore avviamento delle cose.
In questa complessa e molteplice vicenda italiana i partiti hanno avuto, senza dubbio, un ruolo di primario rilievo, che a metà degli anni ’80, quando Bobbio scriveva il giudizio sopra riferito, appariva già in forte crisi. La crisi è poi andata così avanti da investire oggi le stesse fondamenta del gioco politico, come si vede dalle sempre più scarse percentuali dei votanti, e non parliamo della partecipazione politica nel senso più elevato del termine.
Tutto ciò non è affatto un male, anzi!, nella misura in cui questa sofferta vicenda ci ha liberati dall’invadenza e dall’arroganza cui un certo gioco politico era giunto, e nella misura in cui ha fatto decadere certe deteriori concezioni totalizzanti della natura e del ruolo dei partiti. Senonché, da un eccesso si è passati all’altro, e oggi ci ritroviamo piuttosto fra brandelli di partito che tra partiti degni del nome.
La crisi del partito non è un fatto soltanto italiano, come si è detto. In Italia è, però, più grave che altrove, perché siamo in un paese in cui il progresso economico e tecnico, sociale e materiale non ha avuto un sufficiente equivalente nel progresso culturale ed etico-politico, e, dopo la crisi del sistema agli inizi degli anni ’90, non ha trovato forze politiche e sociali in grado di indirizzarlo diversamente.
Un fallimento dei partiti di prima e di dopo quella crisi, non c’è dubbio. Ma, come nota anche Polano nel suo editoriale, non c’è da illudersi che l’idea di partito tramonti perché destinata a dissolversi “nel magma di un immaginario postpolitico”. Nel migliore dei casi questa visione delle cose preconizza l’avvento di altri ordini di strutturazione della società, e oggi gode di una grande fortuna la spinta a fare dell’economia il metro universale e inappellabile di tutta la vita sociale: spinta che in anni di grave crisi economica e sociale trova facile ascolto. Ma si delineano anche altri protagonisti, come “la gente” o come i sempre più mitici “territori”.
Di solito, da queste spinte non nasce nulla di buono, e l’Italia certo non farà eccezione alla regola. Né l’idea di partito tramonta mai davvero, poiché in ogni società funziona comunque e sempre un certo strumento di aggregazione politica e sociale. Accade anche nell’Italia di oggi. Un partito davvero nuovo, congruente ai nuovi tempi, non c’è ancora in misura sufficiente, mentre i resti dei partiti vecchi boccheggiano senza rimedio in una crisi preagonica, e sono così mal sostituiti da demagogie di vario aspetto, ma di sempre vecchie qualità (anche quando si ammantano di ultime novità informatiche).
Nel Mezzogiorno il quadro è un po’ diverso. I vecchi partiti o i loro resti vi hanno ancora un certo ascolto. Le novità – le migliori, e perfino le peggiori – non hanno ancora del tutto scardinato i comportamenti e le mentalità tradizionali, anche se li hanno ridotti al lumicino, e, nel dominante scetticismo e sfiducia verso i politici e i partiti, le nuove demagogie hanno maggiori probabilità di attecchire.
Se la ricostruzione di un tessuto politico e partitico idoneo alle esigenze dei tempi nuovi è, perciò, un’esigenza indiscutibile in tutta Italia, nel Mezzogiorno la necessità è di molto maggiore. Non per caso, la nota della disgregazione o della scarsa aggregazione sociale è stata sempre reputata tra le maggiori emergenze della questione meridionale. Nel campo politico questa carenza pesa ancora di più, né può essere compensata da forme aggregative di altro genere, migliori o deteriori che siano.
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