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Il mondo perfetto tra diritti, obblighi, dignità...e meno libertà. Riflessioni sulla crisi dei valori giuridici e culturali dei paesi occidentali
di Giovanni Cofrancesco
1. L’aumento dei diritti e la diminuzione delle libertà individuali nella società perfetta: ogni diritto determina un obbligo altrui

Le odierne società occidentali riconoscono un numero di diritti civili, di gran lunga superiore a quello che veniva riconosciuto anche solo fino a pochi decenni fa. A tutto ciò si accompagna però la sensazione di sentire la propria esistenza sempre più disciplinata e regolamentata magari in maniera soft ma non per questo meno costrittiva, sia negli atteggiamenti quotidiani sia addirittura nei modi di esprimersi e di pensare, quasi che una sorta di dittatore benevolo, rappresentato non solo dalle strutture pubbliche classiche, ma anche dalle organizzazioni religiose, sociali e persino scientifiche, un dittatore politicamente (o scientificamente o religiosamente ecc.) corretto nei modi e negli scopi, stesse pian piano imponendo un nuovo tipo di autorità, diretta a realizzare in maniera piena la dignità umana.La realtà porta tuttavia ad una compressione (quando non al sacrificio) di non pochi diritti, il che è particolarmente vero in un Paese a legalità “debole” come l’Italia dove questa autorità trova la sua espressione più forte e, viene da dire, più “tipica”. Infatti il conflitto tra i diritti in potenziale contrasto viene ricomposto con la guida degli interpreti verso la società perfetta graduando le tutele. Si tratta di un percorso che non ammette difetti e bolla ogni forma di dissenso come un attacco alla dignità umana e un atto di prevaricazione o di “egoismo”. Questa visione dei diritti civili visti come mattoni destinati a costruire la società perfetta finisce per avvitarsi su sé stessa e per trascurare, e negare, alcune delle regole fondamentali del vivere sociale, e quindi porta a calpestare proprio quei diritti individuali e quelle libertà umane che pretende di esaltare.
Tale modo di vedere le cose “ideologico”, intendendo marxianamente l’ideologia come “falsa coscienza” della realtà, occulta un fatto di fondamentale importanza che sta alla base dei rapporti sociali interumani, cioè quello che ai diritti di qualcuno corrispondono sempre gli obblighi di qualcun altro e che pertanto l’incremento dei primi necessariamente comporta un corrispondente aumento dei secondi. Così la piramide dei diritti getta un’ombra cupa di obblighi sui consociati che vivono al di sotto di essa e il percorso a senso unico verso il mondo perfetto, o verso il migliore dei mondi possibili, crea una realtà sociale mutilata nella quale non vengono esaltate la diversità e l’imperfezione dei singoli come fonti della propria e altrui libertà, ma tutto ciò che sta ai lati e che devia dal percorso verso la perfezione viene, in maniera “corretta”, represso o privato della sua dignità sociale, in quanto bollato come frutto di egoismo o malvagità o, al più (nei casi in cui si fa salva la buona fede) come conseguenza dell’incapacità di comprendere il progresso verso il bene sociale, e viene condannato come una violazione dei diritti altrui1.
Il passo fondamentale per voltare le spalle alla pretesa di costruire il mondo perfetto consiste nel prendere atto degli obblighi e della diminuzione delle libertà individuali che ogni nuovo riconoscimento dei diritti civili e delle pretese sociali comporta e nel chiedersi se il grado di interventismo del potere pubblico sia adeguato per un miglioramento dei rapporti interumani o invece puntando ad una maggiore perfezione non determini un peggioramento delle condizioni di vita generali.
Questa analisi che, per quanto breve vuole descrivere l’altra faccia della medaglia dell’espansione dei diritti civili e delle pretese sociali, anche al fine di inquadrarli nel loro indubbio valore etico e civile, proverà a fare riferimento a tre tematiche molto in auge nel momento attuale, che i teorici del politicamente (e socialmente, giuridicamente, religiosamente) corretto vedono come i luoghi attraverso i quali viene costruita la strada (a senso unico) verso la società perfetta. Ci occuperemo sommariamente degli obblighi che sorgono a carico dei cittadini, e quindi delle diminuzioni delle loro libertà individuali che derivano:dal riconoscimento dei matrimoni tra persone omosessuali, dal fare della questione ecologica l’aspetto più importante della vita sociale, dal considerare come un interesse (o meglio come un dovere) pubblico l’accoglienza dei profughi provenienti dai Paesi sottosviluppati.



2. L’estensione dei diritti civili: il matrimonio omosessuale in USA e la commozione del presidente Obama (rinvio)

La prima tematica è quella più intimamente legata ai diritti civili nel senso più proprio e strettamente giuridico del termine: negli anni recenti infatti un sempre maggiore numero di Stati occidentali ha provveduto a riconoscere alle coppie omosessuali il diritto di contrarre matrimonio e quindi a riconoscere lo status di persona coniugata con un’altra dello stesso sesso. Ricordiamo da ultimo il referendum in Irlanda, che ha rovesciato la tradizionale concezione di quel Paese basata su una rigida concezione della morale cattolica (si ricordi che non molto tempo addietro il popolo irlandese si era pronunciato a stragrande maggioranza contro l’introduzione del divorzio), e la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti nella causa Obergefellvs.Hodgesche, dichiarando incostituzionali le leggi statali che ammettevano solo il matrimonio tradizionale, ha a sua volta rovesciato una tradizione altrettanto forte, quella secondo cui nei Paesi di common law il giudice deve riconoscere (sia pure in senso evolutivo) i diritti consolidati nella società (e in America fissati nella Costituzione) e non crearne dei nuovi. Da molte parti si è celebrata l’estensione dei diritti civili a chi in precedenza non poteva usufruirne: si pensi alla commozione del Presidente degli Stati Uniti Obama nello stesso giorno in cui venivano impiccati omosessuali in un paese musulmano come l’Arabia Saudita, alleato storico e strategico degli USA. Pur rispettando tali concezioni proviamo però ad analizzare la corrispondente estensione degli obblighi a carico della società, e quindi dei singoli cittadini che comporta un tale riconoscimento. Molti sarebbero questi nuovi obblighi, a cominciare da quelli economici che derivano a carico delle finanze pubbliche relativi alle politiche di favore e di sostegno alle coppie sposate, che vengono automaticamente concesse alle nuove forme matrimoniali, ma non è tanto questo il problema. Innanzi tutto notiamo che il primo obbligo che viene imposto ai cittadini in conseguenza del riconoscimento dei matrimoni omosex è di tipo culturale e riguarda la possibilità di vedere riconosciuti e tutelati i propri valori specifici individuali e sociali: esso consiste nella eliminazione dalla legislazione pubblica, cioè dall’ambito del riconoscimento statale dei concetti di “moglie” e “marito”, sostituiti, per forza di cose da quello neutro, unisex, di “coniuge”, e soprattutto, e qui entriamo nella parte forse più lesiva dei diritti individuali, dei concetti di “padre” e “madre”, sostituiti come già avviene in alcuni Paesi con quelli di “genitore 1” e “genitore 2”. Un ipotetico dittatore, per quanto dotato di un apparato repressivo e di un apparato propagandistico martellante non sarebbe riuscito ad eliminare questi concetti dalla legislazione pubblica; in maniera giuridicamente corretta ed in nome della promozione della dignità umana ciò sta riuscendo ai moltiplicatori dei diritti. Certo il diritto non ha il potere di cambiare unilateralmente il linguaggio e i concetti di “maternità” e “paternità” e tutto il bagaglio di sentimenti e di valori che essi comportano a livello di rapporti individuali e sociali rimarranno nella nostra società, come in tutte le società del mondo, ma che in documenti ufficiali i termini non possano essere usati e che anche nei rapporti pubblici essi rischino di essere considerati discriminanti è preoccupante. Che un insegnante non possa più parlare agli alunni di padre e madre senza essere considerato una persona che viola i diritti altrui, che non si possano più descrivere i rispettivi ruoli paterno e materno senza passare per dei prevaricatori della dignità del prossimo è enorme.
Ancora più gravi sono le conseguenze a livello di obblighi nei confronti dei terzi, in questo caso dei terzi più deboli, i bambini e riguardano l’affidamento in adozione a coppie omosessuali (se non appositamente concepiti in provetta). Nessuno può negare non solo le buone intenzioni, ma nemmeno le capacità educative degli omosessuali nei confronti dei bambini: resta il fatto che la mancanza di una coppia formata da un padre e da una madre, fondamentale nella crescita di un essere umano (certo, neppure la famiglia tradizionale è una realtà perfetta), viene in tal modo legittimata e tutelata dal potere pubblico, ovviamente senza il consenso degli interessati, i figli adottivi che a fare i conti con tale mancanza vengono obbligati, un obbligo non da poco. Vista da questo lato, quello appunto dell’estensione degli obblighi a carico della società (obblighi che impongono un modo di pensare) e a carico dei singoli (obbligo a non avere un padre e una madre) l’estensione dei diritti civili relativi al matrimonio agli omosessuali si rivela piuttosto una restrizione delle libertà di tutti, e in ogni caso, rimane importante tenere sempre al centro del proprio ragionamento sulla materia l’esistenza e l’importanza dei nuovi obblighi che vengono creati in tal modo a carico dei singoli, proprio in quanto non tenerne conto significa falsare la realtà e ricadere nella “cattiva coscienza” dell’ideologia.
Del resto invece è proprio l’analisi degli obblighi correlati ai diritti che consente di precisare e definire la corretta portata di questi ultimi, uscendo dalla logica del “tutto o nulla” che di fatto consente poi ogni sorta di prevaricazione da parte di chi è investito del potere di definire in concreto l’inevitabile conflitto tra le posizioni dei singoli aventi punti di vista e comportamenti opposti. Nel caso della libertà di esprimere e vivere la propria affettività con un’altra persona dello stesso sesso, anche attraverso un legame istituzionalmente riconosciuto, rappresenta un diritto fondamentale degli esseri umani che però trova il suo limite, a nostro avviso, in un diritto altrettanto fondamentale, che consiste in quello di vivere la propria affettività in una realtà quale quella della famiglia tradizionale istituzionalmente considerata come diversa da quella della coppia omosessuale, un diritto che comprende anche quello, che riguarda anche chi personalmente non ha una famiglia, di vivere in una società che riconosca il valore umano e sociale della famiglia (che non è certo il caso di sottolineare) e che riservi solo ad essa una disciplina specifica, non estensibile alle altre forme di convivenza, la disciplina classica (più o meno modificata) del matrimonio. Ragionare diversamente significa imporre a livello istituzionale l’obbligo di eliminare il valore specifico della famiglia, sia a livello individuale che a livello sociale, violando la libertà di chi crede in essa come in una realtà diversa dalla coppia omosessuale e come luogo di espressione dei propri valori, morali, sociali e religiosi. Come si vede l’ampliamento dei diritti di qualcuno comporta l’imposizione di obblighi ad altri: dall’inaccettabilità di questi ultimi deriva anche il limite alla estensione dei primi. Lo stesso criterio ci può guidare anche riguardo ai benefici economici pubblici che la legislazione di uno Stato può stabilire di concedere a coppie e famiglie: mentre quelle riferiti ai singoli membri non possono che essere uguali (diritti ereditari, pensionistici, di assistenza ospedaliera ecc.) pena la violazione di una situazione uguale (la relazione legalmente riconosciuta con il proprio partner), gli eventuali benefici (sovvenzioni, agevolazioni fiscali e/o amministrative ecc.) alla famiglia come entità unitaria possono ben essere differenziati (se chi emana le leggi lo ritiene giusto) essendo differente la realtà sociale della famiglia, una realtà non riducibile a quella propria dei diversi rapporti di convivenza.



3. La creazione fittizia di nuovi diritti. Last but not least: il diritto di asilo per gli eco rifugiati da riscaldamento globale. Qualunque colpa è della civiltà industriale. Gli errori dei singoli sono meno devastanti di quelli collettivi tecnocratici

Un altro tema molto in voga in questo periodo storico, nel quale dietro una nuova cascata di diritti si cela una nuova montagna di obblighi che caratterizzano in maniera invadente e particolareggiata la vita quotidiana di tutti i cittadini degli Stati occidentali è quello ecologico. Un tema al quale ha dato un contributo di recente l’ultima enciclica, francescanamente intitolata Laudato sì di Papa Francesco, che, se ce ne fosse stato bisogno ha reso (per chi ne condivide le tesi) corretto anche dal punto di vista religioso un tema che tale era già sia politicamente che giuridicamente. Anche riguardo a questo argomento lo schema di ragionamento è simile a quello visto a proposito dei diritti civili: si prendono delle istanze e delle esigenze sociali che hanno un loro indubbio valore, le si astrae da ogni rapporto riguardo alle conseguenze sulla libertà degli individui, e le si proietta sulla strada che porta al mondo perfetto, quello nel quale viene realizzata, per quanto riguarda questo tema, l’armonia tra essere umano e natura. Tutto ciò che devia da questo schema viene bollato come frutto di egoismo o di ignoranza e vengono addirittura assolutizzati come nuovi dogmi, ben più incontestabili di quelli imposti nel passato dalle autorità religiose, delle teorie scientifiche che non solo, come tutte le teorie scientifiche rappresentano solo delle ipotesi interpretative delle realtà, ma che nello specifico non sembrano essere troppo valide nemmeno come modelli interpretativi. A questo proposito, esemplare è il caso della ormai “totalitaria” tesi del riscaldamento globale come effetto negativo della civiltà industriale, che impone obblighi sempre più pesanti sulle modalità di esercizio delle attività lavorative umane, quelle attività che rappresentano il necessario mezzo di sviluppo e di conservazione della civiltà2. In conseguenza di questa mentalità e grazie alla benedizione politica, scientifica e religiosa, la tematica ecologica ha già prodotto e minaccia di produrre sempre più in futuro una miriade di obblighi a carico dei cittadini, ed una esponenziale diminuzione delle loro libertà, il che peraltro in un Paese a legalità debole quale il nostro finisce sempre per tradursi in un aumento della discrezionalità dei diversi operatori e nella variabilità dell’applicazione in concreto delle normativa, con situazioni impunite di inquinamento accanto a comportamenti irrilevanti sanzionati penalmente.
Per giustificare in maniera compiuta questi nuovi obblighi però si sono dovuti individuare i diritti da riconoscere, e in questo caso l’operazione culturale è stata in un certo senso ancora più pesante a livello di modo di pensare di quella dei diritti civili di cui si è parlato, in quanto prima di riconoscere i diritti che rappresentano il correlativo dei nuovi obblighi ecologici, si sono dovuti creare dei nuovi titolari: gli animali, i vegetali e la stessa “natura” come insieme3. In nome della tutela ecologica, per molti versi ci stiamo incamminando in questa direzione. Così il ripulire periodicamente il letto dei torrenti rappresenta il miglior modo di prevenire le alluvioni che hanno effetti devastanti, ma questa indispensabile attività viene vietata dalle autorità competenti al fine di proteggere l’ambiente, facendo riferimento ad esempio al “diritto” delle anatre di nidificare nel suddetto letto dei torrenti. Peccato che agli umani non spetti il diritto di vedere tutelate le loro abitazioni invase dall’acqua, dato che per loro il costruire legittimamente le case vicino ai fiumi (cosa che gli uomini hanno sempre fatto, dal Nilo all’Eufrate, dal Tevere al Mississipi) è considerato un atto di violenza alla natura, e posto che la colpa di tutto è comunque del riscaldamento globale, così come in Unione sovietica ogni cosa che non andava era colpa dell’imperialismo capitalista. Conseguenze altrettanto pesanti di questa equiparazione culturale degli esseri umani a quelli subumani si hanno nella attività scientifica: si pensi alla cattiva luce e alle crescenti restrizioni agli esperimenti sugli animali, esperimenti in sé certo non da esaltare, ma necessari e doverosi quando diretti a migliorare la ricerca e a salvare vite umane, esperimenti che già in ipotesi verrebbero totalmente vietati equiparando uomini e animali (Chissà come mai l’aborto è invece un diritto per gli antivivisezionisti dei rospi)4. Una miriade di obblighi grava poi sempre più sulle attività produttive, in sé considerate già a priori come forme di sfruttamento e di violenza sulla natura: la libertà di ciascuno di svolgere il proprio lavoro anche nel senso di meglio armonizzarlo con l’ambiente in cui viene svolto (perché anche chi non condivide le posizioni ecologiste estreme può amare e rispettare l’ambiente), è sempre più compressa e limitata da tutta una serie di obblighi gestiti da esperti, in genere rappresentati da funzionari tecnocrati, diretti a guidare gli individui verso il rapporto perfetto con la natura: l’esempio delle norme relative alla produzione e al commercio dei generi alimentari dell’Unione europea è calzante. Che tutto questo comporti, insieme ad una limitazione delle libertà individuali (gravate di obblighi diretti a tutelare i diritti della natura), anche una diminuzione della produzione e quindi in linea generale del livello di benessere delle comunità umane costituisce, dal punto di vista di chi sostiene queste tesi, addirittura un bene (si parla a tale proposito di “decrescita felice”) in quanto ogni forma di benessere e di proprietà privata costituisce un distacco indebito da quel legame di dipendenza con la natura che deve caratterizzare la vita umana “perfetta”. Anche questa tesi sarebbe stata molto difficile da imporre da parte di un tiranno da fumetti.
In materia di ecologia le tesi che portano alla restrizione delle libertà individuali sono tutt’altro che sbagliate in sé ed anzi esprimono esigenze imprescindibili nella nostra epoca. La tutela della natura come “habitat”, come “casa” degli essere umani, peraltro l’unica casa di cui il genere umano dispone, non rappresenta solo una necessità, ma anche un modo di realizzare la propria umanità, e così come i diritti civili degli omosessuali sono stati in passato calpestati, così nei decenni precedenti si è agito senza tenere conto degli effetti dell’attività umana sull’ambiente (deforestazione, abusivismo edilizio, dighe enormi che cambiano, queste sì, il clima. Strano che pochi parlino del maggiore fattore di inquinamento: la sovrappopolazione), in ogni caso il rimedio agli eccessi sono i divieti che limitano in maniera corretta la libertà non gli obblighi che tale libertà distruggono.



4. Il principio di precauzione e la distinzione tra limitare un diritto (precetto di non facere) e imporre obblighi (precetto di facere)5

Le teorie scientifiche sono delle ipotesi che necessitano sempre di essere verificate empiricamente nella loro portata e che fin che non lo sono, e per molti versi anche quando lo sono state (dato che ogni verifica non copre mai tutte la gamma della realtà cui la teoria si riferisce), rappresentano degli strumenti per porre in essere le attività umane, e non delle gabbie che tali attività devono rinchiudere: ogni miglioramento della società umana si è sempre basato sul rischio di accettare (o di non accettare) determinate ipotesi scientifiche, spesso contro l’opinione dominante. Dare l’avallo istituzionale e soprattutto la forza costrittiva della legislazione a determinate ipotesi rappresenta una scelta pesante che compromette sia la libertà individuale sia la possibilità di cambiamento e di miglioramento sociale, realtà entrambe avversate da sostenitori della “decrescita felice”, ma senza le quali la vita umana sarebbe pericolosamente resa simile a quella di un animale intelligente, privo di quel differenziale di spiritualità che nella tradizione cristiana si chiama “anima”. In particolare un effetto devastante in questo senso è quello che deriva dal cosiddetto principio di precauzione che caratterizza gran parte della legislazione europea in materia alimentare e in materia di regolamentazione delle attività produttive, e che ad esempio sta alla base della già citata mentalità (molto diffusa) di considerare alla stregua di veleni gli organismi geneticamente modificati. Che ogni nuova attività (o meglio che ogni attività in genere) comporti dei rischi e delle possibilità di effetti dannosi è una realtà evidente, che va affrontata e gestita in maniera decisa e competente, ma rifiutare per principio lo sviluppo di un’attività industriale (ad esempio il nucleare) o di una ricerca scientifica per la possibilità di conseguenze dannose sarebbe paralizzante per la società umana: se si fosse ragionato in base al principio di precauzione, tenendo conto della possibilità di morire folgorati, nessuno avrebbe mai utilizzato la corrente elettrica.
Il comprendere che dietro la facciata dei “diritti” degli esseri viventi non umani e della “natura” globalmente intesa si nasconda un aumento degli obblighi a carico dei singoli rappresenta il primo passo per inquadrare la questione e per porre correttamente i problemi degli effetti del comportamento umano sull’ambiente che ci circonda, nell’ottica di una limitazione nell’interesse reciproco dei diritti di libertà (i quali come tutti i diritti hanno a loro volta dei limiti) e non in quella dell’imposizione di obblighi basati su questa o quella concezione del rapporto ideale tra uomini e natura. La differenza, che potrebbe sembrare solo formale, è in effetti di importanza fondamentale: il limitare un diritto comporta la fissazione dei confini tra ciò che è consentito ai singoli e ciò che è considerato lesivo della libertà altrui, o perché lede la sfera individuale degli altri soggetti o perché danneggia i beni di interesse comune che consentono a tutti di esprimere la propria libertà, ma non comporta mai un’ingerenza da parte dei detentori del potere nelle decisioni, nelle scelte e nella visione del mondo dei singoli. L’imposizione di obblighi necessariamente ha un retroterra totalitario, dato che presuppone una visione “superiore” imposta (anche) tramite la forza cogente del diritto da parte di una qualche autorità “competente” (moralmente, scientificamente ecc.) legittimata ad imporre le proprie concezioni ai cittadini: una via verso la dittatura e lo stato totalitario. Come si è detto il problema della tutela ambientale è di importanza fondamentale e la salvaguardia del mondo in cui viviamo deve rappresentare non solo un fastidioso dovere, ma anche una importante opportunità per esprimere la personalità umana e per realizzare relazioni sociali migliori, ma tutto questo non può passare dalla volontà di pochi illuminati: se vogliamo rispettare il rapporto tra uomini e mondo circostante, esso non può che basarsi sulla libertà dei singoli, che con le loro innumerevoli e ripetute decisioni, alcune giuste (che il diritto finisce per consentire o favorire) e alcune sbagliate (che il diritto finisce per sanzionare) contribuiscono a trovare l’equilibrio tra attività umane ed ambiente. La libertà è sempre anche libertà di fare errori e gli errori dei singoli sono sempre meno pericolosi e devastanti degli errori collettivi guidati dagli esperti,che a loro volta non sono infallibili.
Mentre nel caso dei diritti civili il momento autoritativo, lesivo della libertà individuale consiste nell’estensione arbitraria dei diritti effettivamente esistenti di qualcuno, in questo secondo caso è rappresentato dalla visione collettivista dell’interesse generale. Non l’interesse generale posto al servizio della libertà dei singoli, che pone dei limiti a quest’ultima solo in quanto oltre tali limiti si verifichi un’effettiva lesione della libertà altrui, ma la libertà posta al servizio dell’interesse generale, necessariamente predefinito (magari in forza di concezioni sociali e/o scientifiche ritenute infallibili) e che comporta tutta una serie di obblighi a carico degli individui che ne snaturano e spesso ne annullano le scelte relative al modo di svolgere le loro attività lavorative e spesso anche quelle relative alle scelte di vita più importanti, dato che di fronte ai “diritti” della natura e degli animali (e vegetali) secondo le concezioni che stiamo criticando, i diritti umani devono cedere. Riguardo a questo secondo tema quindi, le libertà individuali vengono ugualmente compresse e limitate con una serie di obblighi, ma cosa forse più grave, dal punto di vista della modificazione ideologica della realtà, tali obblighi rappresentano lo stravolgimento di quelli che sono i giusti limiti alle decisioni individuali ai fini di tutela reciproca (anche tramite la tutela dei beni di interesse generale), e portano alla trasformazioni dei limiti alla libertà, limiti di per sé derivanti dai rapporti intersoggettivi, o al più da scelte, peraltro sempre criticabili e modificabili, ai fini di interesse generale, in obblighi stabiliti a priori dai soggetti competenti a definire in maniera più o meno infallibile quale sia l’interesse di tutti e quello di ciascuno. A questo discorso segue, per così dire, non solo come tocco finale, ma come chiave di volta di tutto il sistema, la creazione ex novo di diritti specifici attributi agli animali, ai vegetali e alla natura, alla tutela dei quali sarebbero finalizzati gli obblighi che comprimono, spesso pesantemente la libertà umana. Sono giustamente da vietare e da sanzionare gli atti che ledono gli animali o i vegetali e che recano dànno all’ambiente, ma tali divieti devono solo circoscrivere una serie di comportamenti e di atteggiamenti liberi attraverso i quali ciascuno può vivere ed impostare a suo modo quello che ritiene essere il rapporto ottimale tra attività umane e realtà naturale, e in assenza di conseguenze nocive dirette ed immediate alla vita umana e di attività contrarie ai valori propri degli uomini (tra i quali rientra certo anche quello del rispetto di tutte le forme di vita in quanto legate all’esistenza umana, ma non quando esso assume una funzione ideologica) ogni restrizione della libertà individuale consiste in un atto di stampo totalitario. Finisce cioè per costituire uno di quei mattoni, piccoli o grandi, destinati a costruire la società perfetta che portano invece ai più cupi ed oppressivi regimi politici e alle più pesanti perversioni del ruolo del diritto, che da insieme di regole di convivenza diventa un mezzo per dominare i propri simili e costringerli in sostanza alla schiavitù morale e non di rado materiale, magari obbligandoli o convincendoli nel frattempo ad esaltare la bontà dei loro tiranni, in nome dei valori in questo caso dell’ambiente. L’amore per la natura e per gli animali, la dedizione ai loro bisogni è un’attività nobile, ma è tale in quanto attività spirituale umana e cioè in quanto attività libera e volontaria: crediamo che ben difficilmente Francesco d’Assisi (1181 – 1226) ne avrebbe approvato l’imposizione coattiva. Il modo di rapportarsi alla natura rappresenta uno dei modi, legato inevitabilmente alla sensibilità individuale, di gestire i valori della propria esistenza e di per sé quest’ultima, salvo il compimento di atti dannosi per gli altri uomini, non è migliore o peggiore (e men che meno da considerarsi lecita o illecita) a seconda della maggiore o minore attenzione alle problematiche ambientali. Ancora una volta la diversità e il rispetto delle differenti posizioni rappresentano il criterio al quale dovrebbero ispirarsi (diciamo dovrebbero dato che la realtà è dominata per molti aspetti da una vera e propria ideologia ambientalista, non di rado nociva anche per l’ambiente) la legislazione e l’attività statale. Posto che le attività in concreto (e non in base a teorie non verificate) nocive vanno sanzionate, ben può il potere pubblico limitarsi, sotto la propria responsabilità politica, ad incentivare le attività ritenute vantaggiose per l’ambiente e quelle di aiuto e assistenza agli animali e di cura dei vegetali, ma il volere imporre degli obblighi in nome di presunti diritti degli esseri subumani significa non solo mancare di rispetto alla libertà dei propri simili (e dalla mancanza di rispetto all’oppressione il passo è breve) ma anche volere conformare e asservire alla propria ideologia la realtà naturale, la quale in fin dei conti in base alle concezioni oggetto della nostra critica non viene rispettata per quella che è in rapporto alla diversità e alla pluralità degli scopi e delle iniziative umane, ma viene anch’essa inserita nella costruzione della società ideale e in tal modo finisce per subire una violenza maggiore di quella di cui sarebbe responsabile lo “sfruttamento” lasciato alle libere scelte individuali. Nelle concezioni ecologiste basate sugli obblighi di tutelare la natura e gli esseri viventi si accompagnano concezioni comuniste o affini sulla produzione e sui diritti di proprietà, secondo le quali ogni esercizio delle libertà individuale da parte degli essere umani rappresenta un pericolo da controllare e da disciplinare ai fini di salvaguardare il mondo, naturale e sociale, in conformità ai principi di chi nel disciplinare la vita umana ne regola anche il rapporto con la natura, a sua volta concepita (riguardo al ruolo e al valore degli esseri viventi, ma anche come abbiamo visto relativamente alle sue leggi fisiche) secondo le tesi di chi gestisce il potere a fini pubblici. Uno sbocco totalitario evitabile e da evitare, ma verso il quale le società occidentali si stanno incamminando pericolosamente.



5. La religione dell’accoglienza-integrazione dei migranti: l’indebolimento del concetto di Stato e di cittadinanza paradossalmente connessi all’aumento dei poteri autoritativi e degli obblighi sui singoli da parte delle corporazioni nazionali e sovranazionali

Un terzo gruppo di tematiche rispetto al quale le libertà individuali sembrano pian piano indebolirsi per lasciare spazio ad una situazione nella quale i diritti dei singoli di decidere autonomamente come gestire la propria vita sociale e lavorativa (cosa peraltro sempre più difficile in un periodo di crisi economica) vengono via via ad indebolirsi, è quello legato all’immigrazione clandestina, un fenomeno che caratterizza in maniera drammatica la situazione di molti Paesi europei tra cui in particolare l’Italia, il Paese più indebolito e destatalizzato e più soggetto agli obblighi delle corporazioni nazionali e internazionali legate al terzo settore no profit: intrecci esemplarmente venuti fuori dall’inchiesta mafia capitale aggravato da una politica governativa che, forse per non urtare l’ideologia dell’accoglienza a tutti i costi ha preferito non affrontare con le dovute misure il problema lasciando che gonfiasse e, dopo avere ottenuto scarsi successi a livello di collaborazione con gli altri Stati europei, si ritrova in una situazione sociale per molti versi esplosiva che vede diminuito in maniera drastica il livello di tutela dei diritti dei cittadini, e quindi delle loro libertà individuali. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una sorta di sempre più invadente pensiero politicamente, socialmente e religiosamente corretto, che esalta la “ospitalità”, mette in evidenza le “colpe” dei Paesi occidentali verso quelli da cui provengono gli immigrati e bolla come immorale e frutto del peggiore egoismo qualunque affermazione che metta in evidenza come l’inserimento (di fatto o di diritto) di masse di immigrati clandestini nel nostro Paese costituisce un atto lesivo delle libertà dei cittadini, oltre a non comportare un miglioramento delle condizioni delle popolazioni alle quali appartengono i clandestini. Pensiamo, oltre alle affermazioni tartufesche del Presidente del Consiglio Renzi, a quelle decisamente legate al concetto dell’accoglienza indiscriminata fatte proprie dal Presidente della Camera Boldrini6 o da Papa Francesco. Naturalmente le basi di queste visioni della realtà sono nobili (purché non tocchino “com’è ovvio” direttamente le persone che se ne fanno portavoce): l’aiuto alle persone colpite da calamità naturali o l’assistenza alle vittime dei conflitti e dei disordini sociali rappresentano attività doverose, e più in generale il dare senza ricevere costituisce uno degli atti più alti della spiritualità umana, ma ancora una volta i suoi risultati, se analizzati dal lato degli obblighi imposti agli individui e quindi delle restrizioni alle loro libertà sono devastanti e comportano restrizioni pesanti alla possibilità di ciascuno di autodeterminare la propria vita,si parla “a gran voce” di diritti “inviolabili” spettanti agli immigrati, e quindi si passa dalle istanze morali e politiche, intese come richieste alle autorità statali di provvedere a venire incontro alle esigenze dei profughi che approdano in Italia, alle vere e proprie affermazioni giuridiche, riguardo alla titolarità da parte degli immigrati di pretese incondizionate ad essere assistiti ed equiparati (assistenza sanitaria, alloggi popolari ecc.) ai cittadini.
Pure riguardo a queste tematiche si tace però a proposito degli obblighi che il riconoscere questi diritti crea a carico di tutti. Anche in questo caso il rapporto, che è comunque sempre inevitabile, tra il riconoscimento di diritti ad alcuni l’imposizione di obblighi e quindi di restrizioni alla libertà ad altri non è immediato e reciproco come avviene nel caso dell’ampliamento dei diritti civili, e non è nemmeno diretto come accade riguardo alle tematiche ambientali, dove a fronte di diritti “fittizi” vengono elaborati e imposti obblighi giuridici reali. Con riferimento al fenomeno dell’accoglienza indiscriminata e senza condizioni degli immigrati clandestini, l’imposizione di obblighi e la restrizione delle libertà dei singoli ha infatti carattere per così dire indiretto, anche se l’effetto non è meno pesante sulla posizione di tutti e di ciascuno. Ciò che rappresenta il mezzo, mediante il quale gli obblighi vengono imposti a carico dei singoli è costituito dal concetto di interesse pubblico, cioè di interesse generale. È infatti attraverso l’identificazione tra l’accoglienza indiscriminata degli immigrati clandestini e la loro equiparazione (in nome della non discriminazione) ai cittadini da un lato e l’interesse generale dall’altro che vengono in essere le pesanti limitazioni alle libertà individuali che le politiche (e più a monte le concezioni morali e religiose) comportano. Infatti, dato che, come è naturale che sia, l’interesse pubblico prevale su quelli privati per un principio di civile convivenza, l’identificare quest’ultimo con le tesi dell’accoglienza generalizzata porta a far sì che quest’ultima e quindi i “diritti” collegati finiscano indirettamente, cioè appunto attraverso il concetto di interesse pubblico, per creare un aumento esponenziale degli obblighi a carico dei singoli, quasi sempre peraltro in assenza di un consenso frutto della volontà popolare in ordine al considerare tali tematiche come materia di interesse generale. Il rapporto tra la superiorità autoritativa dell’interesse pubblico rispetto alle posizioni degli individui rappresenta un tema troppo ampio: ai fini del nostro discorso possiamo ricordare che le imposizioni possono essere rappresentati sia da obblighi di fare che di obblighi di subire (di “patire” avrebbero detto gli antichi) e che questi ultimi possono essere dettati in linea di fatto, a livello di concreta attività amministrativa, dalle scelte discrezionali del potere pubblico e dal modo di funzionamento dell’apparato amministrativo, per cui le restrizioni delle libertà individuali operate dal potere pubblico sono incisive e invasive pur in assenza di un obbligo formale a carico degli individui, i quali si ritrovano a vedere diminuite le loro possibilità di autodeterminarsi. Tutto questo si verifica ed è ampiamente riscontrabile nelle diminuzioni delle libertà individuali determinate a carico dei cittadini italiani dall’accettazione della tesi dell’accoglienza indiscriminata e “collettiva” degli immigrati clandestini, la quale in maniera per molti versi implicita, ma non per questo meno penetrante e produttiva di conseguenze si è affermata nel nostro Paese. Innanzi tutto in molti casi le scelte operate dalle pubbliche amministrazioni (prive di un disegno complessivo di azione, condivisibile o meno che sia) attraverso gli organi elettivi di riferimento (Governo, Sindaci ecc.), che fanno coincidere l’interesse pubblico con l’accoglienza indiscriminata comportano obblighi diretti a carico dei singoli, i quali sono costretti all’accoglienza forzosa dei clandestini nelle strutture alberghiere di loro proprietà, strutture requisite per “fronteggiare l’emergenza”7. Se già ogni intromissione pubblica nel libero utilizzo da parte dei cittadini dei propri beni dovrebbe rappresentare un’eccezione ed è comunque un atto che non dovrebbe penalizzare né materialmente né moralmente i destinatari, in questo caso al danno materiale (in termini di indennizzo delle spese vive e dei mancati guadagni derivanti dalla installazione dei clandestini) si unisce una sorta di condanna morale a carico non di chi, per il solo fatto di entrare clandestinamente nel nostro Paese, viola la legge ma nei confronti di chi subisce la requisizione dei propri diritti, colpevole del fatto di essere un proprietario “egoista”, che dovrebbe considerare giusta l’imposizione di obblighi a suo carico. Come nelle materie precedenti, anche in questo caso l’ideologia crea degli obblighi a carico degli individui, diminuisce la loro libertà e lo fa tramite un travisamento ideologico delle realtà, nel senso che si afferma che l’obbligo è solo la naturale conseguenza della necessaria tutela dei “diritti” di chi non rispetta la legge, e che ad essere stato defraudato dei propri diritti e a dovere beneficiare dell’aiuto pubblico come una sorta di risarcimento non è chi subisce le conseguenze negative dell’azione pubblica ma chi ne beneficia. In nessuna teoria degli atti amministrativi autoritativi finalizzati a sacrificare il diritto di un cittadino in nome dell’interesse generale si era mai giunti a tanto, dato che all’interessato veniva almeno lasciata la facoltà di lamentarsi.
Gli effetti negativi sui cittadini non si limitano però ai casi di imposizione autoritativa di obblighi: nessuno può negare che buona parte delle libertà individuali dipendono di fatto da attività concrete poste in essere dallo Stato e dagli enti pubblici, il che è particolarmente vero negli ordinamenti europei continentali, dove alle attività pubbliche per antonomasia (sicurezza, giustizia ecc.) si uniscono tutta una serie di servizi svolti in regime sostanzialmente di monopolio da parte di strutture o pubbliche o comunque dirette da enti pubblici (sanità, gestione alloggi popolari, erogazioni assistenziali). Anche riguardo a queste attività, che dovrebbero rappresentare uno strumento, certo tipico di una concezione dirigista dello stato, ma non per questo meno importante ai fini di consentire l’esercizio dei diritti di libertà dei cittadini, l’impatto della politica dell’accoglienza indiscriminata, o meglio dell’accesso indiscriminato degli immigrati clandestini, sulla libertà dei cittadini è devastante. La presenza di masse di persone per definizione senza un lavoro (altrimenti non si avrebbe la situazione di clandestinità), e quindi prive di mezzi economici autonomi per vivere porta ad un’alternativa, magari non in sé socialmente corretta, ma inevitabile: l’assistenza o l’illegalità (che può consistere nel lavoro nero o addirittura nella vera e propria criminalità). Posto che in entrambe le alternative vi sono soggetti che sfruttano a fini illeciti la situazione (tra cui alcune organizzazioni a parole “umanitarie”), e posto che ad essere danneggiati sono innanzi tutto i più onesti tra i clandestini, l’impatto sui servizi pubblici resi dallo Stato dagli enti preposti agli individui per così dire “regolari” dal punto di vista giuridico (cittadini ed immigrati) è pesante. Intanto l’aumento della criminalità derivante dalla presenza di masse senza reddito determina una minore tutela della esistenza quotidiana dei cittadini, e questa minore tutela, unita ad un’inespressa ma indubbiamente presente tendenza a comunque “comprendere”, a non essere eccessivamente rigidi verso il criminale se clandestino da parte degli organi pubblici preposti (di polizia e soprattutto giudiziari), porta spesso a lesioni veramente gravi al fondamentale diritto che ogni Stato deve garantire ai cittadini, quello alla sicurezza personale8. A tutto ciò presiede una concezione ancora una volta ideologica, che equiparando indiscriminatamente clandestini da un lato e cittadini (ed immigrati regolari) dall’altro costruisce come diritti quelli che tali non sono, senza ovviamente, anche in questo caso tenere conto degli obblighi che vengono imposti ai singoli e delle pesanti riduzioni delle loro libertà, obblighi che in questi ultimi casi consistono nel dover subire la diminuzione del livello di tutela della propria sicurezza e la riduzione dei servizi pubblici in precedenza garantiti dallo Stato e dagli altri Enti competenti, riduzione questa certamente dipendente in massima parte dalla crisi economica, ma che viene troppo spesso accresciuta da una sorta di “priorità” data alle esigenze dei clandestini, il che potrebbe essere comunque una scelta politica rispettabile (anche se non condivisibile) se proposta come tale dal Governo e degli amministratori degli enti pubblici, ma che non è accettabile se portata avanti come la necessaria attuazione di “diritti” fondamentali dei clandestini che i “malvagi” che ad essa sono contrati vorrebbero calpestare.
Ovviamente anche in questa materia l’imposizione di obblighi ai danni dei singoli e le restrizioni alle loro libertà (che toccano la radice di ogni libertà che è il diritto alla incolumità personale) sono basate su principi in sé e per sé nobili e doverosi: non solo quello che si chiama il “diritto di asilo” è una realtà giustamente riconosciuta da tutte le nazioni civili che in tal modo estendono le loro libertà anche a chi non ne può godere, e più in generale l’aiuto a chi è in una situazione economica e sociale drammatica rappresenta certamente un importante compito politico di uno Stato che voglia essere civile, così come la situazione drammatica di molti immigrati clandestini, che per molti versi, nonostante l’assistenza (e non di rado proprio a causa di essa), non è molto migliore di quelle da cui sono fuggiti non può e non deve lasciare indifferenti. Ancora una volta però a rendere sfocata la realtà, ad attribuire “colpe”, “doveri” e “diritti” in maniera del tutto arbitraria, e a creare i pesanti obblighi in capo ai singoli interviene l’ideologia9.Vediamo come accade lo “sfasamento” della realtà giuridica in questo caso: nell’ipotesi dei diritti civili abbiamo visto che effettivi diritti individuali sono estesi oltre la loro giusta portata; in quella delle tematiche ambientali, i diritti sono creati in maniera fittizia per giustificare gli obblighi dei singoli. Nel caso dell’accoglienza ai clandestini siamo in un certo senso in una situazione intermedia, dato che tutta una serie di rapporti che hanno per oggetto gli Stati e le collettività intese nel loro complesso vengono indebitamente trasferiti sul piano individuale e vengono trasformati in diritti per alcuni e in obblighi per gli altri. L’accoglienza del singolo chiedente asilo politico, fatto salvo il doveroso esame della verità della lamentata lesione dei suoi diritti nel Paese di origine, è un obbligo pubblico che tutela la libertà del profugo, così come l’accoglienza (più o meno temporanea) del singolo che in stato di necessità entra nel territorio statale illegalmente è altrettanto un atto giuridicamente doveroso (necessitas non habet legem), ma da questi casi alla situazione di immigrazione clandestina di massa il salto non solo quantitativo, ma anche qualitativo è molto forte: siamo di fronte a due situazioni non paragonabili. Ad un fenomeno individuale si risponde con i mezzi del diritto, ad uno collettivo di dimensioni sovranazionali si risponde con i mezzi della politica internazionale, cioè convenzionalmente con i Governi dei Paesi di origine e con pressioni sulle organizzazioni internazionali, che verso tali Governi erogano aiuti a pioggia che negli anni (al là della buona fede di molti) come iniziano a sottolineare anche gli economisti africani hanno peggiorato la situazione dei Paesi in via di sviluppo (molto di più di quanto abbia fatto la speculazione capitalista e finanziaria). A tali pressioni, tese alla modifica della politica dei governi dei suddetti Paesi, al miglioramento della situazione degli aspiranti emigranti, alla lotta alle organizzazioni che si occupano del traffico di uomini, dovrebbe ovviamente unirsi il rimpatrio forzoso dei clandestini, accompagnato da tutta l’assistenza possibile (anche economica), ma senza riconoscere valido il principio che una popolazione possa insediarsi sul territorio di un’altra e pretenda come suo “diritto” di essere equiparata a cittadini appartenenti a quest’ultima e di essere totalmente assistita. Se ci pensiamo, ben pochi popoli invasori nella storia hanno imposto condizioni di tale genere e/o hanno preteso questa sorta di privilegi o di “regalie” nei confronti delle popolazioni invase e forse mai nella storia queste ultime hanno accettato l’imposizione di un tale gioco senza almeno tentare di reagire spesso pagando a caro prezzo la loro ribellione. Oggi che le popolazioni che entrano in Italia debbano essere accolte e mantenute non solo a carico del (precario) bilancio pubblico nazionale, ma anche nonostante le preoccupanti conseguenze, in termini di sicurezza, di rischio per l’incolumità personale, di perdita del diritto ai servizi pubblici che si determinano nei confronti degli italiani e degli immigrati regolari, costituisce agli occhi di molti una realtà “normale”, dato che essa rappresenta l’unico modo per tutelare i “diritti” individuali degli immigrati clandestini.
Anche in questo caso una compiuta analisi degli obblighi creati a carico dei singoli dalla concezione che stiamo criticando smaschera per così dire la fallacia che sta alla base della sua impostazione e quindi la sua natura ideologica, data dal fatto che le aspirazioni collettive degli emigranti clandestini e i doveri politici dello Stato nel quale emigrano vengono trasformati in diritti individuali degli emigranti medesimi e in obblighi, di fare qualcosa o anche come visto di subire il malfunzionamento dei servizi pubblici di tutela o di promozione sociale, a carico dei singoli che clandestini non sono. Gli obblighi in esame e quindi la diminuzione delle libertà individuali d’altra parte ci danno anche la misura e i limiti entro i quali i cittadini possono essere gravati della decisione politica di venire incontro alle esigenze degli immigrati clandestini. Sia la prima che i secondi infatti vanno riferiti al livello collettivo di intervento e riportati al loro valore di scelte politiche a fronte di interessi ritenuti (a parere degli organi competenti che ne dovrebbero rispondere attraverso la verifica democratica) meritevoli di essere tutelati, e non dovrebbero essere intese come “atti dovuti” fonte di diritti inviolabili spettanti a titolo individuale ai clandestini. Fatto salvo ovviamente il diritto alla vita, ad essere salvati nello stato di necessità e ad essere accuditi sin che dura quello, nessun diritto dovrebbe essere considerato spettante agli immigrati clandestini all’asilo o all’accoglienza individuale indiscriminata, pena la creazione di nuovi obblighi e quindi pena la riduzione della libertà di tutti. L’eventuale scelta pubblica (ovviamente la scelta dei privati a proprie spese è sempre libera) di accogliere gli immigrati clandestini, e di non provvedere a rimpatri di massa più o meno “assistiti” economicamente, pur essendo discutibile dal punto di vista politico ed etico, sarebbe comunque accettabile quanto al rispetto della libertà dei terzi solo a condizione che l’accoglienza e l’assistenza avvenissero senza imposizione di obblighi e senza la diminuzione del grado di soddisfazione dei cittadini rispetto ai servizi pubblici (in termini di sicurezza, servizi sociali ecc.). In tal modo un bisogno collettivo, importante e che certamente può essere fatto proprio dai poteri pubblici, verrebbe affrontato a livello collettivo e “politico”, cioè in quella giusta dimensione travalicandola quale e passando sul diverso piano dei diritti individuali crea inaccettabili restrizioni delle libertà di tutti. Allo stesso modo viene peraltro impostata da chi sostiene le posizioni che qui vengono criticate la questione delle “colpe” dei Paesi industrializzati nei confronti di quelli in via di sviluppo. A parte le posizioni estreme, le quali sostengono che il solo fatto di godere di un benessere maggiore renderebbe colpevoli (ma di cosa?) i primi nei confronti dei secondi, molti fanno risalire tali colpe al passato coloniale dei Paesi europei, all’azione delle multinazionali americane ecc., che avrebbero in sostanza determinato lo sviluppo economico e sociale dei Paesi occidentali ai danni di quelli del cosiddetto terzo mondo10.
Che si condivida o meno questa analisi, rimane il fatto che la scelta di aiutare economicamente le popolazioni più povere del pianeta o contribuendo a migliorare, con aiuti mirati e con destinazione da verificarsi, le loro condizioni di vita nei Paesi di origine oppure anche accogliendo gli immigrati rimane una scelta politica soggetta alle regole delle decisioni democratiche e alle scelte dei cittadini che contribuiscono pagando le imposte e non può essere considerata il frutto né di un diritto individuale degli immigrati clandestini né un obbligo individuale dei cittadini italiani e dei Paesi industrializzati. Il ragionare diversamente rappresenta anche in questo caso un modo attraverso il quale l’ideologia dell’accoglienza a tutti i costi crea obblighi e finisce per restringere pesantemente le libertà individuali nei confronti di tutti, anche in questo caso un modo nel quale l’individuo viene asservito alla costruzione della strada verso la società perfetta, costruzione i cui tempi e modi sono ovviamente nelle mani di coloro che ne portano avanti l’ideologia. Questo aspetto, la realizzazione della società perfetta o almeno della società più perfetta possibile rappresenta come visto il filo conduttore comune alla tre tematiche di cui siamo occupati e costituisce anche la grande forza di attrazione che porta a far sì che esigenze legittime e scopi nobili si trasformino in ideologie potenzialmente distruttive delle libertà individuali. Proprio questa forza di attrazione, che come in tutte le ideologie si unisce spesso (anche se ovviamente non sempre) all’attaccamento al denaro (gestito a fini “solidali”), al successo (derivante dal proprio “buonismo” come tale mai soggetto a critica) e al potere (volto ovviamente a tutelare i deboli), esaminiamo in breve quale tipo di società umana prefigura, su quale principio giuridico si basa e come si pone in rapporto alla tradizione della civiltà occidentale, che è rappresentata dalla tradizione (ora in buona parte secolarizzata) del cristianesimo latino.



6. I diritti nella società chiusa: tutto ciò che non è comune è frutto di egoismo e di malvagità ma l’individualismo non è il contrario dell’altruismo bensì del collettivismo

Se guardiamo con attenzione alle posizioni che abbiamo criticato in precedenza in quanto fonte di obblighi e quindi lesive nelle loro portata delle libertà degli individui di autodecidere quali valori fare propri e come vivere la propria vita, troviamo che esse hanno in comune una impostazione rivolta alla realtà, sociale e naturale, intesa come un tutto armonico o da armonizzare, una visione che possiamo correttamente definire “totalitaria” (nel senso etimologico del termine, che ne rafforza il significato corrente negativo) o “olistica”, in forza della quale tutto ciò che esiste è una parte di un tutto all’interno del quale deve trovare una posizione più o meno predefinita e “corretta”. Una posizione che se riferita alla società umana non può che essere definita “collettivista” o se il termine piace di più “comunitaria”, dato che anche i singoli esseri umani occupano in base a tale visione delle cose un posto e svolgono un ruolo tendenzialmente predefiniti, stabiliti dalle persone competenti tramite le loro idee politicamente (socialmente, economicamente e persino religiosamente) “corrette“11. In tal modo si confondel’egoismo con l’individualismo: quest’ultimo infatti non è il contrario dell’altruismo, ma appunto il contrario del collettivismo. Infatti, così come l’agire a fini altruistici, facendo agli altri ciò che si vorrebbe facessero a sé stessi (le cosiddetta “regola d’oro”, cristiana) può avvenire tramite le modalità che chi agisce sceglie e sotto la propria responsabilità ritiene più opportune (individualismo altruista), all’opposto l’agire a fini esclusivamente di interesse personale può avvenire sfruttando le modalità predefinite dalla collettività (egoismo collettivista o “tribale”): la storia è piena di grandi e piccoli (o piccolissimi) tiranni che hanno commesso violenze, soprusi e crimini in nome del bene comune e conformandosi pienamente ai comportamenti e ai valori che la collettività aveva definito (e imposto) per realizzare la fratellanza e la solidarietà tra gli uomini. In sostanza, la grande fondamentale differenza tra società collettivista e società individualista, e quindi tra società chiusa e società aperta consiste nel diverso modo con cui esse intendono raggiungere la migliore situazione di armonia possibile tra gli essere umani12. Chi potrebbe dirsi in linea di principio contrario alla realizzazione delle condizioni di massimo rispetto e tutela dei diritti di tutti, alla massima realizzazione possibile dell’armonico rapporto con la natura, della più equa possibile distribuzione delle risorse nel mondo? Una sorta di paradiso terreste, che però quando si è cercato di realizzarlo ha prodotto sempre un “rispettabile inferno”: così i regimi nazionalsocialista e comunista sovietico per gli esempi più recenti. Dal lato della società aperta abbiamo invece una impostazione sociale “minimale”, imperfetta, che i suoi oppositori giudicano spesso banale o inadeguata, frutto di quella che viene giudicata una incapacità di puntare in alto, ma una impostazione che si basa su quella che in effetti è la realtà fondamentale di ogni società che voglia promuovere il bene degli uomini, il riconoscimento del fatto che essi sono diversi e scelgono e praticano ideali diversi e che il compito della società è fare in modo che le diversità umane possano coesistere nell’ambito di un mondo non perfetto, non “paradisiaco”, ma che in quanto finalizzato a permettere a ciascuno di esprimere e a vivere al meglio le proprie concezioni può essere considerato nella maniera più piena un mondo “umano” e che certamente non diventerà mai un “inferno” tanto meno rispettabile, come in effetti, nonostante tutti i difetti e le storture delle società che, in misura maggiore o minore, possiamo definire “aperte” (quali sono quelle di democrazia liberale), non è mai accaduto.



7. Il fuorviante concetto di diritto naturale: i diritti individuali nel mondo anglosassone sono legati ad una concezione storica della natura umana definibile dai precedenti giudiziari, in quello europeo-continentale ad una visione razionalista o dell’autorità religiosa

A ben vedere la differenza tra i due tipi di società deriva da due diverse concezioni dell’essere umano e delle modalità attraverso le quali gli uomini debbano condurre la loro esistenza. Abbiamo sempre evitato di parlare di “natura umana” o di”diritti naturali”: in effetti il concetto ha sempre avuto un uso ambivalente e se è stato utilizzato talora per difendere i diritti individuali, soprattutto nel costituzionalismo anglosassone, legato ad una concezione storica della natura umana, vista come una realtà che viene ad essere definita tramite una tradizione di precedenti giudiziari e di studi giuridici, lo stesso termine nel costituzionalismo europeo continentale, legato a concetti razionalistici (come nel pensiero illuminista francese) o all’autorità religiosa come unica interprete della natura umana (come nelle versioni più antimoderne del cattolicesimo), è servito a legittimare posizioni ispirate, secondo modalità varie e non di rado opposte, ai principi della società chiusa e al potere della collettività di disciplinare l’agire degli individui indirizzandoli al bene comune. Del resto pensando ai temi che abbiamo trattato, si potrebbe sostenere da un lato la “naturalità” del matrimonio tradizionale ma anche quella della autonomia dell’orientamento sessuale anche se verso persone dello stesso sesso; si potrebbe sostenere che l’uomo è “naturalmente” superiore agli animali o che questi altrettanto “naturalmente” hanno dei diritti da difendere. Quando parliamo di due diverse concezioni dell’uomo proviamo pertanto a riferirci a due diverse concezioni della “condizione umana”, intendendo con questo termine la posizione che ciascuno di noi occupa nella realtà che ci circonda, da un lato come essere fisico inserito in un mondo naturale, e dall’altro come essere sociale, che si esprime nel rapporto con gli altri. Le concezioni collettiviste, basate sul primato della comunità e del “bene comune” conformano la condizione umana (almeno nella maggiore misura possibile) come una specie di creta da modellare: difetto strutturale, fondamentale di ogni concezione collettivista, la quale tende sempre a sostituirsi al singolo nello stabilire cosa è meglio per lui e per gli altri. Al contrario la concezione individualista della condizione umane si arresta di fronte al “legno storto” dell’umanità di cui parlava Kant (1724 – 1804) o non si ritiene comunque giusto modellare, dato che il bene comune non consiste in altro che nell’insieme di ciò che è bene per i singoli, e la vita associata consiste nel tutelare e agevolare le scelte degli individui dirette a realizzare ciò che ritengono bene per sé e per gli altri (individualismo altruista), ovviamente ponendo i limiti e svolgendo compiti finalizzati a far che le scelte degli uni non ledano quelle degli altri. Una concezione aperta della condizione umana infatti lascia ai singoli la libertà, ma anche la responsabilità di agire per il proprio e per l’altrui bene, dato che essa si sottrae alla pretesa di predefinire i rapporti umani e indirizzarli ai propri scopi. Con il concetto di responsabilità tocchiamo uno dei nodi centrali del problema e anche dei motivi del fascino che le posizioni collettivistiche dirette a realizzare la società ideale e il mondo perfetto hanno nei confronti di molti che insistono sul fatto che la società aperta si basa sulla libertà quanto sulla responsabilità, le quali non sono che le due facce di un’unica medaglia. Certamente l’assumersi le responsabilità delle proprie scelte crea molte difficoltà e tensioni sia a livello individuale che a livello sociale, mentre l’essere sollevati da responsabilità rappresenta per molti versi una sorta di “paradiso” esistenziale, ma di un “paradiso artificiale”, per molti aspetti simile ad una droga morale, che porta a vivere solo in funzione dei propri obiettivi affermando di amare il prossimo, e a compiere molti crimini nei confronti dei propri simili affermando di fare loro del bene. Tutte le società collettiviste, tutte le società “chiuse” hanno “graziosamente” sollevato i singoli dalle loro responsabilità, affidando ogni cosa al monarca, alla chiesa, al partito, alla élite tecnocratica ecc. Ignorare le responsabilità proprie e altrui costituisce in effetti un modo per non riconoscere un carattere fondamentale della condizione umana: la portata limitata e ambivalente di ogni decisione individuale o pubblica che sia, che comporta inevitabilmente conseguenze di segno opposto tra loro, alcune in sé “buone” o “positive” ed altre “cattive” o “negative”, di modo che i valori morali, e quindi la approvazione morale e sociale e, sul piano della norma coercitiva la legittimità giuridica delle decisioni assumono la loro piena valenza solo nell’ambito di questo modo di essere della condizione umana, e si pongono sempre innanzi tutto come valutazione responsabile, o almeno come presa d’atto delle conseguenze che una scelta comporta e quindi nella accettazione dei suoi effetti negativi se questi riguardano nel loro complesso valori nel concreto inferiori a quelli tutelati grazie alle sue conseguenze positive. Per fare riferimento ad un altro tema molto caro alle concezioni simili a quelle che si criticano, la pace è certo un valore che tutti condividono ed una situazione che tutti aspirano a raggiungere o a mantenere, ma nello scorso secolo la pace accompagnata dal totalitarismo nazista era preferibile alla guerra? Lo era ad esempio per chi siglò con la Germania il patto di Monaco del 1938, fonte di “disonore”, come lo definì W.Churchill (1874 – 1965), e comunque inutile. Ed oggi la pace accompagnata dalla crudeltà dell’integralismo islamico è realmente preferibile alla guerra? Naturalmente le risposte possono divergere: ciò che qui si vuole sottolineare è invece il fatto che l’ideologia collettivista diretta a creare la società perfetta occulta l’alternativa, rendendo manifesto solo l’aspetto “buono” e di per sé indiscutibile della scelta (il valore della pace) senza assumersi, e senza fare assumere a chi ascolta, la responsabilità (almeno morale) anche della parte negativa della posizione che si fa propria.
Dal punto di vista del nostro discorso, tutto ciò ci rimanda al punto da cui abbiamo preso le mosse, il fatto che ogni nuovo “diritto” riconosciuto, ogni nuova esigenza della quale la collettività si fa carico, comporta delle conseguenze in termini di nuovi obblighi e di penalizzazione di qualcun altro, fatto questo che può anche essere pienamente giustificabile, ma che va comunque sempre chiarito e “purgato” dall’ideologia, in modo che la decisione di aderire all’una o all’altra tesi sia sempre il frutto di una decisione responsabile, che soppesi i valori in gioco alla luce delle caratteristiche proprie di quella che abbiamo chiamato condizione umana. È ciò che si è cercato nella prima parte, dove agli aspetti sicuramente positivi presenti nell’esigenza di riconoscere i nuovi diritti (chi negherebbe il valore dell’affettività a motivo dell’orientamento sessuale, o l’importanza della salvaguardia della natura o la necessità di aiutare le popolazioni più sfortunate?) si sono contrapposti gli effetti negativi della esasperazione di tali concetti, cercando quindi di precisare quali sono i limiti entro i quali tali esigenze vanno riconosciute giuridicamente. Peraltro, la caratteristica principale della condizione umana è che essa non è immutabile, dal momento che è il frutto di scelte e di decisioni di innumerevoli individui che si sono sovrapposte nella storia, in un percorso che di per sé non ci sentiamo di definire “necessario” (né nel senso del progresso né in quello del distacco da una originaria età dell’oro), soprattutto in quanto tale percorso è il prodotto della libertà (una libertà non assoluta, ma non per questo meno reale) degli uomini. Dalle società primitive dominate da comportamenti basati sulle abitudini più o meno “istintuali” (anche se pochi sostenitori dell’armonia tra uomo e natura li approverebbero) che sulla morale, a quelle moderne il passo è stato ampio e nel corso dello sviluppo della civiltà due diversi modelli si sono confrontati (sia pure frammisti tra loro con prevalenza dell’uno o dell’altro), quello, propria della società aperta, di una condizione mutevole e pluralistica, lasciata alla libera scelta degli individui che trovano il loro limite nel rispetto delle libere scelte altrui, e quello, tipica della società chiusa, di una condizione umana predefinita, stabilita, magari in maniera variabile a seconda delle esigenze collettive dai diversi esperti (o magari dalla maggioranza politica) competenti a disciplinare la vita umana individuale e sociale. Tutte le società occidentali attuali portato della tradizione cristiana si ispirano alla concezione propria della società aperta, anche se la situazione è variabile e certo alcuni Paesi, come ad esempio il nostro, fanno propria una versione molto particolare e “particolaristica” della società aperta, la quale trova la sua piena espressione soprattutto nei Paesi anglosassoni e in particolare negli Stati Uniti d’America. Le società occidentali peraltro hanno espresso esempi drammaticamente riusciti di società chiusa, che vanno dall’Inquisizione cattolica, al nazionalsocialismo, al comunismo. Nei Paesi di tradizione non occidentale invece raramente si è affermata sinora la concezione della condizione umana propria della società aperta e dove è avvenuto ciò è stato il frutto delle (per altri aspetti certo criticabili) dominazioni coloniali: si pensi all’India o al Sud Africa, e tenendo conto che almeno sino ad oggi la diffusione della società aperta si è accompagnata allo sviluppo economico (solo la Cina attuale presenta un modello funzionante di crescita economica non basato su principi liberal democratici, ma per quanto?), c’è sicuramente di che essere orgogliosi della cultura occidentale (pur con tutti i suoi difetti) e c’è altrettanto motivo per fare un’affermazione “scorretta” da tutti i punti di vista, politico, etnico, religioso, sociale ecc.: la società aperta è infinitamente preferibile alle società chiuse, e quindi le società occidentali di tradizione liberale e cristiana sono infinitamente preferibili sia alle società non occidentali che alle società “perfette” che rappresentano l’obiettivo di tutte le concezioni “corrette” che si sono criticate.Il concetto di “natura” umana è ambiguo anche per l’idea che porta con sé di un qualcosa di inevitabile: la condizione umana non è una realtà necessaria, ma è sempre il frutto di scelte responsabili e il fare in modo che gli esseri umani siano asserviti ai nobili ideali (e alle persone spesso molto meno nobili) che guidano la società chiusa verso la perfezione oppure che essi siano liberi di agire sotto la propria responsabilità nell’ambito dell’imperfetta, sempre migliorabile ma mai perfettibile, società aperta dipende dalle decisioni degli uomini, decisioni di cui essi portano comunque la responsabilità, anche se rifiutano di assumersela.



8. Il concetto giuridico di dignità umana vs. quello di libertà: la dignità degli omosessuali nella sentenza Obergefell vs. Hodges. Anche gli Stati Uniti si allontanano dalla Common Law?

Due concetti giuridici rappresentano rispettivamente questi due modi diversi di vedere e di considerare la condizione umana, cioè il modo con cui ognuno di noi si pone in confronto agli altri e in confronto al mondo in cui vive, quello di dignità e quello di libertà. Il primo (per quanto sia usato spesso senza tali intenzioni) conduce dritto alla società chiusa e alla vita umana predefinita dalla collettività e privata della sua responsabilità; il secondo, considerato purtroppo da molti come un retaggio ormai superato dei secoli passati, e addirittura spesso irriso e sempre più circondato da limiti e “distinguo” costituisce pur sempre il baluardo dell’indipendenza e dell’autonomia dei singoli nel decidere come vivere la propria vita e come rapportarsi agli altri. La nozione di dignità ha tutte le caratteristiche per risultare concettualmente affascinante e per avere successo mediatico e popolare, come lo hanno tutti i modelli e gli ideali di perfezione che guidano verso la società chiusa e si pone esplicitamente come un “passo avanti” rispetto a quella di “libertà” verso la migliore tutela e valorizzazione della condizione umana, ma come tutti i concetti ideali e più o meno tesi a perfezionare la società, contiene in sé una determinata concezione della società medesima e del ruolo dei singoli (cioè del ruolo di ciascuno di noi) che viene occultata: anche sotto questo aspetto possiamo dire che le conseguenze negative, gli effetti collaterali del basare i diritti e la vita degli uomini su questo termine non vengono presi in considerazione, cioè non ci si assume la responsabilità degli stessi. In effetti la “dignità” è in astratto qualcosa di più completo, di più intenso della libertà, che di per sé è una nozione indeterminata e “vuota”, ma il grosso pericolo (e l’elemento ideologico) che contiene è costituito dal fatto che mentre la libertà si determina, si definisce, si invera sempre grazie alle scelte del singolo, il contenuto della dignità viene stabilito da qualcun altro, a prescindere dalla decisione del titolare: insomma mentre cosa significhi in concreto la propria e l’altrui libertà è lasciato al giudizio di ciascuno di noi nel rispetto del giudizio altrui, cosa comporti l’essere “degno” di qualcosa o di qualcuno lo stabiliscono sempre coloro che conoscono quali sono le esigenze i valori dell’uomo calato nella società più perfetta possibile. Il concetto di libertà è di carattere “aperto” (come la società di cui è espressione) e possiamo paragonarlo ad una base attrezzata, un terreno (anche forse la metafora non piacerà ai sostenitori delle posizioni ecologiche estreme) sulla quale ciascuno costruisce ciò che vuole (o non costruisce nulla se lo ritiene), quello di dignità è più simile ad una sorta di cappa che racchiude l’esistenza umana all’interno delle costruzioni realizzate da altri in vista della realizzazione dell’uomo ideale. Certo la dignità umana è una cosa molto importante, fondamentale nella vita di tutti, ma essa è personale a ciascuno di noi e diversa da individuo ad individuo, di modo che solo sulla base dello stesso grado di libertà garantito a tutti, ciascuno può perseguire e conseguire la propria personale “dignità”, il proprio personale modo d’essere. Lo stabilire un concetto autoritativo, “collettivo” di dignità (magari diverso a seconda delle circostanze) porta quasi per reazione simmetrica a costruire una nozione variabile di libertà, una libertà finalizzata nella sua estensione (ma a volte anche nella sua stessa esistenza a livello minimo) alle modalità della dignità stabilite dall’autorità collettiva. Dal punto di vista del contenuto giuridico, mentre la libertà consiste in una serie di facoltà, cioè di possibilità di fare o non fare qualcosa sotto la propria responsabilità e sempre con il dovere di rispettare la libertà altrui, la dignità comporta già nella sua definizione, essendo un obiettivo ideale cui l’uomo deve tendere, il primato degli obblighi, propri e altrui, il cui adempimento è necessario per conformarsi sempre meglio al modello ideale. Se il principio viene spinto alle sue estreme conseguenze, tutto questo crea effetti occultati, ma devastanti sul piano dei rapporti sociali: mentre infatti la libertà propria e quella altrui si arginano reciprocamente e l’insieme delle libertà private limitano il potere e la libertà pubblica, la dignità propria e il rispetto di quella altrui sommano tra loro i rispettivi obblighi, e ai doveri già facenti carico di per sé ai privati si possono sommare quegli obblighi imposti dal potere pubblico a tutela della dignità dei cittadini, ma anche degli stranieri clandestini; della dignità degli uomini, ma anche di quella degli animali e dei vegetali. Inoltre, il contenuto, le diverse possibilità di scegliere come agire, come comportarsi, e a monte come pensare e come prendere la vita che si legano al concetto di libertà sono cosa propria (sono una “proprietà”) dei loro titolari, dato che al di qua dei suoi limiti ciascuno è unico giudice della sua libertà e del modo di attuarla Non così per le pretese ed i poteri di condizionare gli altri che sono legati al concetto di dignità, i quali forse proprio in quanto sono il frutto di obblighi imposti “dall’alto”, che cioè derivano dal livello collettivo della gestione della società, sono sempre soggetti a possibili modifiche, mutamenti ed anche soppressioni (magari a fronte di nuove esigenze e di nuovi diritti da tutelare) e non avendo il concetto su cui sono basati un contenuto intoccabile, perché lasciato alla decisione collettiva che può ampliarlo o restringerlo, essi possono travolgere anche quella parte del comportamento umano e delle esigenze sociali che costituisce di per sé non una pretesa verso altri, ma una libertà propria, sempre che si trovi qualcosa di più “corretto”, capace di avere un peso maggiore nelle esigenze collettive di promuovere la “dignità” di qualcuno. Per fare un esempio un po’ abusato, ma significativo, la dignità degli omosessuali cede di fronte alla dignità delle persone di cultura non occidentale (ad esempio integralista islamica) che non solo non riconoscono i matrimoni gay ma prevedono punizioni corporali e talora le pena capitale per gli omosessuali. Insomma mentre il concetto di libertà, aperto ed elastico per singoli è viceversa rigido e difficile da scalfire per i poteri collettivi, quello di dignità viceversa irrigidisce gli individui nei suoi schemi, ma si presta ad essere manipolato in maniera molto elastica. In compenso la nozione di dignità ha un effetto deresponsabilizzante e sembra aprire le porte del regno della perfezione sulla terra, dove a tutti in astratto è dato quello che pretendono al fine di per esaltare al massimo l’umanità di ognuno, mentre quella di libertà sembra essere ormai un’anticaglia che non ha neanche il gusto di essere “vintage”.
Il mutamento di prospettiva rispetto alla tradizione giuridica e morale su cui si fonda la nostra civiltà non è da poco, e certamente è stata imboccata quella che sembra essere per molti aspetti una deriva molto pericolosa. Nella Carta europea dei diritti fondamentali del 1999 (carta di “ultima generazione”) la “dignità” ha una posizione fondamentale, mentre le singole libertà assumono un ruolo sempre più strumentale e in molte delle Costituzioni nazionali europee, pur in assenza di una esplicita menzione del termine, la dignità cioè la condizione dei singoli ritenuta ideale dal punto di vista collettivo assume sempre più un ruolo centrale: si pensi per il nostro Paese a quella sorta di “eguaglianza articolata” disegnata, in linea con la tradizionale indeterminatezza italiana sulla portata delle norme, dall’Art.3, 1 e 2 Cm. della nostra Costituzione. Gli stessi Stati Uniti d’America, forse il Paese occidentale che, nonostante i molti difetti e le molte cose criticabili del suo sistema politico e sociale, ha mantenuto e ha sviluppato in maniera coerente con la tradizione occidentale la tutela dei diritti di libertà e la separazione dei poteri statali, stanno attraversando una fase nella quale questi concetti sono messi in discussione. Significativo è il dibattito aperto in occasione della citata sentenza nella causa Obergefell vs. Hodges sul diritto costituzionale(basato sul concetto di “giusto processo” inteso in senso sostanziale e non solo procedurale: V e XIV emendamento) degli omossessuali a contrarre matrimonio: mentre la decisione della maggioranza, scritta dal giudice Kennedy è incentrata sul concetto di “dignità” degli omossessuali, nell’opinione dissenziente del giudice Thomas si fa invece riferimento al concetto di “libertà”, come inserito nella Costituzione americana e più a monte come espresso nel pensiero di J. Locke (1632 – 1704), concetto ritenuto l’unico adatto a costituire la base per il riconoscimento dei diritti individuali. Molti costituzionalisti americani, anche alcuni favorevoli ai matrimoni gay, hanno segnalato il pericolo di questo spostamento di prospettiva, che rischia di fare saltare la distinzione tra scelte politiche e di governo (che si rifanno al concetto medievale gubernaculum) e decisioni relative alla tutela dei diritti (al loro volta eredi della iurisdictio medievale). La rottura con la tradizione, che non deve essere intesa come qualcosa di immutabile, ma come un lascito da sviluppare ed adattare senza mai rinnegarne lo spirito e i valori fondamentali pare toccare ormai anche la cultura americana e anglosassone in genere, mentre nell’Europa continentale (e in particolare in Italia), magari a fronte di una rigidità sociale molto più marcata di quella anglosassone, sembra che l’aspirazione a realizzare la società perfetta senza tenere conto di quanto la storia passata ci ha insegnato trovi sempre meno ostacoli. Significative sono in tale senso la stessa realizzazione di una struttura burocratica e tecnocratica quale l’Unione europea, basata su una visione quasi meccanica dell’economia e della finanza, legate totalmente al dirigismo pubblico, visione che ben si accoppia con quella solidaristico – pauperista, dato che entrambe hanno alla loro base una concezione collettivista della società e della condizione umana, due visioni che tendono a spartirsi l’esistenza dei singoli dominandola in tutti i suoi aspetti, e significativamente molti importanti operatori finanziari e tecnocrati plaudono al solidarismo, all’ecologismo senza limiti dei leaders politici e religiosi, dato che la due concezioni sulla via della società perfetta possono essere armonizzate tra loro, e possono diventare quasi due facce di una stessa medaglia, con i singoli cittadini (e stranieri regolari) che da un lato vengono penalizzati nei loro diritti lavorativi, pensionistici, sociali (ad es. il diritto di usufruire di servizi pubblici adeguati) in nome delle inflessibili ragioni del bilancio, e dall’altro vengono caricati di contribuzioni per destinare fondi a favore di chi non dovrebbe averne diritto (e purtroppo talora anche chi specula sulla situazione a fini non certo altruistici) in nome della altrettanto inflessibile esigenza della “solidarietà”.



9. La perdita delle radici cristiane … e del buon senso: il mix tra pauperismo-marxismo e l’esaltazione della tecnocrazia

Abbiamo parlato della tradizione e del suo rispetto (che non significa immutabilità) che rappresenta il pilastro di ogni civiltà, e sembra giusto concludere queste riflessioni sul rapporto che riveste un’importanza fondamentale, che corre tra questa evoluzione in senso collettivista e proprio della società “chiusa” che sta dietro le tematiche dell’estensione dei “diritti” civili, della tutela ecologica e dell’accoglienza indiscriminata agli emigranti dei Paesi in via di sviluppo e la perdita dei valori della tradizione cristiana, che per secoli ha accompagnato e formato lo sviluppo della civiltà occidentale. Come chiunque può constatare, oggi molte delle opinioni vengono sostenute (non solo, ma anche) in nome del cristianesimo, magari di un cristianesimo “autentico” o “aggiornato” o tutte due le cose. Tale è sicuramente il modo di affrontare la problematica ecologica (si pensi alla già citata enciclica di Papa Francesco), tale è l’approccio alle tematiche dell’accoglimento indiscriminato e incontrollato degli emigranti dell’ex terzo mondo, e la stessa materia dei diritti civili vede molti cristiani che, superate le posizioni del passato, effettivamente discriminatorie, sono favorevoli ad una estensione oltre quelli che paiono i giusti limiti. In questo senso possiamo dire che anche buona parte del pensiero cristiano ha perso il valore dell’etica della responsabilità nel fare il bene, una responsabilità che riguarda sia chi dà sia chi riceve, e che si accompagna indissolubilmente nel Vangelo e nella tradizione cristiana alla più ampia disponibilità ad aiutare il prossimo: si pensi alla parabola dei talenti (Matteo, 25,14-30) o quella dell’invitato al banchetto cacciato perché non vestito nella maniera dovuta (Matteo, 22,1-14). Anche per quanto riguarda la perdita dei valori della tradizione cristiana occidentale non proveremo certo a far riferimento a concezioni cristiane ritenute più corrette delle altre o giuste a prescindere: pur con il constante riferimento alla figura di Gesù di Nazareth come incarnazione umana della Volontà e della Parola divina, nella sua bimillenaria storia tante e tali sono state e sono le declinazioni religiose e morali del cristianesimo che sarebbe presunzione volere individuare da parte di chi scrive dei contenuti universalmente validi a livello di concezioni degli uomini e della società. Nell’ambito però del cristianesimo occidentale, di derivazione latina, che trova la sua origine nella fusione violenta tra la civiltà romana e quella barbarico – germanica (e nella successiva cristianizzazione della nuova civiltà mista), due principi sono emersi e si sono consolidati nel corso dei millenni, sino all’epoca attuale, due principi che hanno formato, pur con tutte le deviazioni da essi che si sono verificate, la civiltà occidentale, legandola indissolubilmente alle sue origini cristiane, due principi che caratterizzano, volenti o nolenti, anche il pensiero e il modo di concepire i rapporti tra gli uomini e il ruolo della società proprio anche degli occidentali che cristiani non sono.Si tratta di due “motivi conduttori” che come una struttura di fondo sulla quale poggia la concezione dei rapporti umani e sociali (nonché di quelli giuridici, che di quelli rappresentano un particolare aspetto), sono comuni a tutte le declinazioni occidentali passate ed attuali del cristianesimo, le quali nonostante la loro diversità, e spesso nonostante la loro reciproca (e non di rado violenta) opposizione ad essi pur sempre si richiamano, mentre quelle concezioni cristiane che non sono basate su tali “motivi conduttori” non sono mai riuscite (sinora) ad attecchire in maniera decisiva nel cristianesimo e quindi nella cultura dell’Occidente13.
Sarebbe interessante e affascinante vedere come i concetti di libertà individuale, di responsabilità altrettanto individuale (perché la societas christiana è formata da tanti individui), di fallibilità umana, di condanna di ogni pretesa di perfezione hanno la loro origine nel pensiero cristiano, così come figli delle istituzioni e del pensiero giuridico cristiano sono i diritti individuali e i principi del governo democratico, ma è un discorso che ci porterebbe troppo lontano. Ci limitiamo solo a constatare che la crisi attuale del rapporto tra società occidentali (soprattutto europee) e cristianesimo (a livello di pratica religiosa, ma anche e soprattutto a livello della capacità di elaborare concetti “forti” fondati nella tradizione cristiana) si accompagna alla messa in discussione, e spesso alla critica decisamente ideologica” sia della tesi del primato dell’individuo (il discorso dell’“egoismo” di cui abbiamo parlato) sia di quella dell’imperfezione umana e sociale (entrambe da superare secondo le diverse concezioni che abbiamo criticato più sopra). Questa frattura ha iniziato ad aprirsi in maniera evidente nell’Ottocento, dopo le drammatiche vicende della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche che avevano sconvolto, e non solo in senso morale, l’intera Europa e forse costituisce la causa prima della perdita del valore dei due concetti cui abbiamo accennato, il primato dell’individuo e l’imperfezione umana. Le opposte visioni, quella “reazionaria” che si è richiamata alla tradizione cristiana, stravolgendone però il modo di concepire l’uomo e la società, e quella “progressista”, non cristiana se non addirittura dichiaratamente anticristiana, hanno avuto in comune le pretesa di realizzare la società perfetta e alla libertà individuale hanno sostituito il primato dell’autorità (rispettivamente religiosa o scientifica) come guida alla piena realizzazione umana e sociale: la perdita del valore sociale universale dei due principi della tradizione cristiana ha portato (e il Novecento ne è stato drammatico testimone) alla creazione di esempi tragici di società chiuse caratterizzate dal primato del collettivo e quindi dell’autorità. Ora la situazione sembra riproporsi in maniera meno drammatica, ma (e la cosa sarebbe da temere) in misura non meno profonda, tale mettere in pericolo la stessa continuità della cultura occidentale. Da un lato le due concezioni, quella cristiana e quella non legata da una fede religiosa, che impropriamente possiamo chiamare “laica” non sono più in opposizione tra loro, ma concordano su molti punti, dall’altro entrambe considerano ormai dei disvalori i due principi che hanno formato l’Occidente di cui abbiamo parlato. C’è il rischio che il cristianesimo evolva in una forma collettivista di religione, in un misto tra pauperismo e marxismo, il tutto inquadrato nelle concezioni proprie della “decrescita felice” e con il riferimento ultimo alla benedizione divina. C’è parimenti il rischio che le concezioni “laiche” sfocino in esaltazioni della tecnocrazia come l’unica modalità per comprendere e dirigere l’azione umana. Ancora una volta due facce di una sola medaglia, il pauperismo – solidarismo e la tecnocrazia, due facce di un’unica concezione propria di una società collettivista guidata da un’élite, cioè di una società chiusa, una concezione che ha trovato la sua origine e trova il modo di poter prosperare proprio a causa della rottura tra società e valori della tradizione cristiana occidentale. Chi sostiene le tesi che qui si sono criticate, esaltandole come una forma di progresso e evoluzione della comunità umana “globale” verso una sua forma di maggiore perfezione certo giudicherà la tradizione cristiana occidentale basata al contempo sull’inviolabilità dell’individuo e sulla sua imperfezione come una fase storica o errata o comunque da superare, ma una civiltà che rinnega i propri valori è destinata non al miglioramento, al “progresso”, ma alla decadenza, e forse proprio in questo consiste il pericolo tutt’altro che ipotetico del “tramonto dell’Occidente” di cui parla O.Spengler (1880 – 1936), o per citare uno dei maggiori (e spesso trascurati) pensatori della storia italiana, forse in questo trova applicazione quella legge, elaborata da G.B.Vico (1668 – 1744), il quale afferma che una civiltà che ha raggiunto uno stadio elevato (e tale è,per chi scrive, la civiltà occidentale) se non riesce a mantenersi fedele ai suoi principi, è destinata regredire a stadi inferiori, una realtà non necessaria secondo Vico, ma sempre frutto delle scelte che nell’ambito di quella civiltà vengono operate. Ma viene da chiedersi: quale rispetto dei valori su cui si è fondata la nostra civiltà (come detto con tutte le cose criticabili ed anche esecrabili della sua storia), e quale apprezzamento dei risultati che essa ha raggiunto si possono avere quando il benessere economico è considerato una colpa, la libertà individuale è ritenuta una forma di prevaricazione, e persino le diversità tra gli uomini sono viste come delle piaghe da curare per realizzare la società perfetta?
Forse la prospettiva che si è delineata è esagerata, ma i pericoli sono reali, i pericoli di un totalitarismo soft guidato da tecnocrati e buonisti, portato a soffocare sul nascere ogni dissenso, come “scorretto” e inopportuno e quindi da eliminare come un rifiuto fastidioso e potenzialmente nocivo, un totalitarismo che porterebbe alla decadenza della civiltà occidentale in nome del suo progresso. I margini per evitare tutto questo ci sono, ma preoccupa particolarmente un fatto, che ancora una volta si segnala anche all’attenzione di coloro che non sono d’accordo con le idee esposte sin qui: la perdita sempre più diffusa anche nella vita di tutti i giorni del “buon senso”. Un concetto su cui molti tecnocrati e molti teorici del mondo perfetto, fieri dei loro elaborati ideali sorrideranno, ma un concetto che spesso è guida dell’azione quotidiana e che giustamente è stato elevato a guida principale dell’azione morale da una corrente di pensiero che ha portato al massimo i valori del rispetto della libertà individuale ed ha esaltato lo sviluppo economico come diretta conseguenza di quella, l’illuminismo anglosassone e scozzese in particolare: si pensi al ruolo del “senso morale comune” come guida della vita umana (compresa quella economica) nel pensiero di F. Hutcheson (1694 – 1747) o di A.Smith (1723 –1790), una guida certo non infallibile, ma importantissima per trovare la giusta misura nelle valutazioni, sia quelle pratiche di tutti i giorni sia quelle di più ampio respiro teorico. Oggi, come si è già accennato in precedenza, sembra che ogni discorso oscilli sempre tra due estremi privi di ogni legame con il senso comune, cioè con la cosa più importante che può guidare ciascuno di noi, ovviamente tramite la propria libertà e sotto la propria responsabilità a individuare e a fare propria la migliore (anche se sempre imperfetta) posizione riguardo alle diverse problematiche che si affrontano. Questa perdita del senso comune attraverso l’esaltazione dell’alternativa tra le posizioni estreme è ben evidente in tutte le tematiche che abbiamo affrontato: così di fronte alle relazioni omossessuali l’alternativa è tra la punizione penale (o al più la cura forzata) e la totale equiparazione alle famiglie; riguardo al problema ambientale si contrappone la visione della natura come luogo di scarico dei residui delle attività umane a quella che equipara gli animali e i vegetali all’uomo; nella questione degli aiuti agli immigrati clandestini si va dalla posizione di chi li vede unicamente come criminali a quella di chi li considera come vittime delle nostre “colpe”. Tutte posizioni, contrarie al buon senso. Già recuperare quest’ultimo sarebbe un primo grande passo nel senso della critica a questa ideologia dominante, e forse anche un modo per recuperare e valorizzare le istanze e le esigenze più nobili che sono presenti nelle posizioni che si sono criticate. Se invece il richiamo al buon senso apparisse banale e non all’altezza delle caratteristiche che dovrebbe avere un discorso teoretico – scientifico, si consideri ciò solo un’ulteriore conferma del fatto che questo scritto è uno scritto “scorretto” da tutti i punti di vista (politico, religioso, giuridico ecc.) e che pertanto non ha alcuna pretesa di possedere i requisiti prestabiliti di “dignità” propri delle opere “corrette”, ma è solo il frutto della libertà di chi scrive.












NOTE
1 Tutti i diritti civili da espandere e le altre istanze sociali ritenute degne di tutela giuridica e quindi di essere accostate ai diritti veri e propri sono peraltro espressione di valori sociali e umani nobili, e sono altamente degni di essere rispettati e fatti propri a livello giuridico e sociale, ma essi come tutti i diritti trovano il loro limite negli obblighi che fanno sorgere a carico altrui ed è proprio in relazione a questi obblighi che essi vanno valutati. Non sono quindi da considerarsi come dei mattoni per costruire la società perfetta, che non è di questo mondo e che comunque nessuno (giurista, politico, scienziato o leader religioso) è in grado di definire nei suoi contenuti, ma come elementi importanti di un quadro disorganico e imperfetto quale è la società umana all’interno della quale l’autentico interesse generale è quello di consentire ai singoli individui di decidere liberamente e responsabilmente come vivere e migliorare la propria vita e quella altrui. Ciò tenendo conto che la realtà umana è sempre migliorabile, e la civiltà occidentale, nonostante i sui errori e i suoi crimini, ha nei secoli enormemente migliorato le condizioni di vita, in termini di libertà e benessere, degli uomini di cultura europea ed ha contribuito e contribuisce (anche qui con i propri errori e spesso commettendo ingiustizie) allo sviluppo delle restanti regioni del mondo, ma anche ben sapendo che la realtà umana non è perfettibile, dato che la perfezione non solo non può essere raggiunta ma nemmeno può essere aumentata di grado, sempre per il fatto che ad ogni aumento dei diritti corrisponde un aumento degli obblighi e che il vero miglioramento sociale consiste in sostanza nella definizione (certo non facile in pratica, ma fattibile se guidata da spirito empirico e critico) del livello ottimale dei diritti e dei corrispondenti obblighi, in una parola del livello ottimale di regolamentazione giuridica (o comunque autoritativa) che consenta ai singoli, attraverso la propria (senza calpestare quella altrui) libertà e sotto la propria (e non a spese di quella altrui) responsabilità, di migliorare le proprie condizioni di vita morali e materiali e, attraverso la collaborazione (ma non attraverso l’imposizione) sociale, quelle altrui, tenendo conto che i due aspetti non sono mai separabili.^
2 Non essendo competenti in materia lungi da noi nell’inserirci nel dibattito scientifico con il rischio di essere lapidati come è successo a chi ha definito una “bufala” quella del riscaldamento globale: ci si riferisce al Professor Antonino Zichicchi. Osserviamo solo che il clima del pianeta è già stato in epoche passate (in particolare nei secoli che vanno dal 1000 e al 1300, in un contesto di civiltà totalmente agricola) globalmente più caldo di quello attuale, il che porta a considerare tale spiegazione come di pari valore rispetto a quella che va per la maggiore. Quantomeno stravagante appare l’idea della Presidente della Camera Boldrini, che propone lo status di eco rifugiato e di conseguenza il diritto di asilo a “chi scappa dai cambiamenti climatici”.^
3 Non si è ancora giunti a prevedere a livello di legislazione che gli esseri subumani siano titolari di diritti nel senso pieno del termine e magari ad attribuire loro qualche “tutore” per il loro esercizio, ma da parte di giuristi non certo inesperti la tesi è stata sostenuta, almeno al fine di stabilire quali debbono essere gli obblighi che gravano sulle libertà degli uomini e ne diminuiscono la portata, con il che si raggiunge comunque l’effetto di cui abbiamo parlato, perché anche se i diritti degli animali e dei vegetali sono intesi in senso soprattutto morale (ma c’è chi li intende in senso strettamente giuridico), gli obblighi correlativi degli umani hanno carattere giuridico e sanzionabile, così come giuridici e sanzionabili sono gli obblighi basati sulle discutibili teorie scientifiche che vogliono imporre il rapporto perfetto con la natura, ad es. quella che demonizza la ricerca genetica e lo sviluppo scientifico della selezione delle specie in agricoltura, considerando alla stregua di veleni gli organismi geneticamente modificati, che potrebbero contribuire a risolvere (come già in parte accade) i problemi alimentari di buona parte del mondo. L’impatto culturale e di conseguenza sociale, politico e giuridico è molto pesante: considereremmo un personaggio da fumetti un ipotetico tiranno che imponesse alla popolazione soggetta al suo potere di essere considerata alla pari degli animali e delle piante e nessuno seriamente si pone il problema se mai una tale situazione potrebbe essere accettata o imposta a qualcuno. Che poi il maltrattamento degli animali venga punito è altro discorso. Già i romani affermavano Saevitia in bruta est tirocinium crudelitatis in homines. Del resto è esperienza comune che talora si voglia più bene agli animali che agli esseri umani.^
4 Allo stesso modo il rapporto con gli animali ed anche con le piante può essere espressione di sentimenti delicati dell’animo umano e la crudeltà gratuita, in particolare sugli animali, rappresenta un fatto veramente esecrabile, ma ciò non può portare a passare sopra al fatto che nei rapporti umani si esprimono una spiritualità e una capacità di comprendere e vivere la propria esistenza infinitamente superiori a quella propria degli altri esseri viventi, e che quindi non solo in senso strettamente giuridico, ma a monte anche in senso culturale solo gli essere umani possono e devono essere considerati soggetti di diritti. In materia di ecologia quindi non si può nemmeno parlare del giusto contenuto dei diritti, in quanto tali diritti non esistono in senso proprio ed è più corretto stabilire in linea generale, dall’altro versante i limiti alle libertà umane nei confronti degli altri esseri viventi e dell’ambiente in generale, e solo quando siamo oltre questi limiti alle libertà, possiamo parlare, ma è sempre meglio precisare che lo si sta facendo in senso analogico e come metafora, di “diritti” della natura o degli animali. In tal modo il discorso sugli obblighi serve come nel caso dei diritti civili a precisare quali siano le libertà individuali che non possono essere calpestate in nome dell’ecologia, o almeno a fornire dei criteri, che non siano legati all’ideologia che vuole realizzare il rapporto perfetto tra uomini e natura, ma siano utili per definire tali libertà. In questo senso innanzi tutto la vita umana non può essere messa sullo stesso piano di quella animale o vegetale, dato che essa è ontologicamente superiore ed ogni diversa concezione calpesta i più elementari diritti del prossimo. In tal senso gli animali possono essere considerati strumentali alla vita umana, mentre non può mai essere accettabile il contrario: solo l’uomo è sempre un fine e mai un mezzo, nemmeno un mezzo per tutelare la natura. Ovviamente i fini umani possono essere buoni o malvagi, o dal punto di vista giuridico, leciti o vietati, e solo in relazione ai primi possono essere strumentalizzati gli animali e gli esseri viventi in genere: l’uccisione dell’animale, la distruzione di un ecosistema particolare devono essere sanzionati in quanto siano diretti a finalità umane illecite o comunque non abbiano una giustificazione, ma siano fini a sé stessi. Rovesciare il ragionamento e considerare in linea di principio illecito (salvo poi ovviamente graduare la portata della norma in sede applicativa tramite l’esercizio di un potere tanto tecnocratico quanto discrezionale) qualunque atto che sopprima o che danneggi un animale o che alteri un ambiente naturale significa valutare il comportamento degli individui in base a parametri subumani, o meglio a ideologie che assumono parametri subumani come loro criterio di azione, con conseguenze devastanti per la libertà di ciascuno di noi.^
5 In ultima analisi il limite attiene alla facultas, l’obbligo alla norma agendi. Il dibattito si ripropone continuamente nella storia, ma ciò che appare chiaro quando si parla di facultas ci si riferisce al fatto che il diritto deve conservare una sua utilitas. Spesso tuttavia si confonde l’incuria dei poteri pubblici con il male individuato nella proprietà immobiliare: l’abusivismo devastante è frutto dell’inerzia e dei mancati controlli del potere pubblico che non ha provveduto a fissare i limiti tra casa e casa per le esigenze dei servizi pubblici. Rileva autorevole dottrina (A.M. Sandulli), “che se un determinato immobile consente solo il diritto di edificare e se è negata la possibilità di impiegarlo in modo utile l’immobile, non rappresenta più un valore, ma addirittura un peso incompatibile, tra l’altro, con gli Artt. 23 e 53 Cost., essendo il proprietario chiamato a rispondere per cose che non possono avere alcun interesse” (Profili della proprietà privata, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1971 pag. 472). È chiaro che ogni limite comporta un obbligo in maniera mediata, ma la distinzione dall’obbligo non è casuistica. Il divieto comporta un precetto di non facere mentre l’obbligo è un precetto di facere. Vero si possono mettere molti limiti al diritto sin da svuotarne il contenuto: se questo accade anche in paesi dirigisti come la Francia che hanno conservato un po’ di cultura liberale, il proprietario ad es. dei beni culturali come pure il vincolato all’espropriazione per fini urbanistici ha il diritto di chiamarsi espropriato e richiedere il risarcimento al valore venale del bene. In Italia viceversa si è obbligati a mantenere non solo il bene culturale ma anche il vincolo espropriativo anche se l’esproprio non avviene mai e quando viene… indennizzi a quattro castagne secche. In ultima analisi il diritto comporta tendenzialmente una non invasione da parte del potere pubblico o di altri cittadini, ma quando i limiti sono così pesanti siamo nella sfera della coercizione di facere, ovvero nell’obbligo.^
6 Ancora una volta è stupefacente l’affermazione del Presidente della Camera che ha dichiarato “non possiamo offrire servizi di lusso ai turisti e poi trattare in modo inaccettabile i migranti che giungono in Italia dalle parti meno fortunate del mondo, spesso in condizioni disperate. Si tratta di una insopportabile contraddizione. Dobbiamo dare l’esempio di una cultura dell’accoglienza come nostro valore fondante, che sia integrale, a 360 gradi”. Nobile visione, non c’è alcun dubbio, tuttavia in contrasto con il limite di trenta milioni come suggeriva qualche anno fa Legambiente in una superficie come quella italiana per non determinare disastri ecologici. Siamo già a sessanta milioni (esclusi i clandestini da quantificarsi in cinque milioni e gli immigrati regolari). Ci si dica almeno visto che la popolazione mondiale è arrivata a sette miliardi in pochi anni, e che raddoppierà nel giro di venti anni, quanti miliardi di migranti potremmo accogliere? Per non affrontare un problema di libertà individuale e di identità collettiva: se non ci si vuole integrare nelle culture altrui, per esempio con quelle dei tagliagole o dei cannibali. Dobbiamo essere costretti ad una non gradita accoglienza e integrazione?^
7 Anzi per molti è pure errato parlare di “emergenza” bensì di fenomeno strutturale, forse dimentichi che nel passato le migrazioni bibliche cessarono con la scoperta della polvere da sparo. Per carità non ci si fraintenda: nessuno vuole ricorrere alla violenza su vittime inermi, ma nessuno può imporre integrazioni non richieste. La sintesi dei valori non necessariamente produce nuove civiltà ma potrebbero scatenare le bestie dell’intolleranza.^
8 Si pensi non solo alla microcriminalità degli scippi, ma a vere e proprie rapine tramite atti violenti (violazione di domicilio, omicidi, ecc.) che mettono a repentaglio l’incolumità dei cittadini; si pensi alla occupazione di abitazione ai danni dei soggetti più deboli quali gli anziani assenti da casa per vari motivi ecc.. A conseguenze meno violente ma certamente quasi altrettanto drammatiche porta inoltre la diminuzione del ruolo e della portata dei servizi pubblici causata dal dovere spostare risorse destinate ai cittadini alla tutela degli immigrati clandestini, i quali, sempre in base alla concezione per cui l’immigrato ha diritto all’accoglienza indiscriminata e illimitata e tale accoglienza lo equipara in tutto e per tutto al cittadino, si vedono assegnati sussidi e provvidenze pubbliche (che vanno dalla casa a più o meno definite indennità di mantenimento, spesso filtrate in maniera non sempre trasparente tramite le organizzazioni umanitarie cattoliche e laiche, alla tutela sanitaria estesa ben oltre i casi di necessità ecc.), a scapito dei cittadini nei cui confronti i servizi diventano sempre più carenti, in nome delle “necessità” economiche.^
9 C’è poi una strana contraddizione: in specie con riguardo alla immigrazione musulmana seppure con luminose eccezioni che hanno pagato con la vita la loro adesione ai valori dei paesi ospitanti (si pensi alle tante ragazze uccise perché vestivano all’occidentale): non di rado, clandestini, rifugiati, non sposano gli ideali culturali di libertà, di una eguaglianza tra i sessi propri dei regimi democratici ma trapiantano quei valori che hanno determinato le loro misere condizioni, e la conseguente espulsione dai paesi che fuggono. Questo è un dato preoccupante che la Francia sta sperimentando: dopo tre generazioni di musulmani malgrado che siano a tutti gli effetti cittadini francesi di cultura liberale ne hanno assorbita davvero poca. Ed è improprio e fuorviante il paragone con l’emigrazione italiana che nel periodo prebellico e postbellico si orientò negli USA, o in altri paesi. Si pensi ad es. ad un siciliano, il grande giurista Antonin Scalia, che in Usa ha assorbito i valori di libertà e di individualismo propri degli americani più “autentici”, se così si può dire.^
10 Alla impostazione ideologica si unisce ancora una volta il travisamento della storia: certo nessuno nega che i Paesi occidentali si siano macchiati di colpe e crimini nei confronti di altre popolazioni, ma lo sviluppo dell’Occidente è avvenuto maniera autonoma, grazie soprattutto all’elaborazione e alla diffusione anche relativamente ai rapporti economici e produttivi dei valori propri della tradizione latino - cristiana e non certo alle spalle delle altre zone del pianeta, le quali, anche se basate su tradizioni religiose e culturali altrettanto degne di apprezzamento quale quella occidentale, prima del colonialismo e della multinazionali o avevano sviluppato complesse società agricole e/o mercantili economicamente arretrate (culture cinesi, indiane, arabe) o non avevano addirittura superato lo stadio preagricolo di cacciatori – raccoglitori (civiltà africane). Peraltro anche se fosse una colpa e non un merito avere sviluppato una civiltà industriale avanzata, certamente i tanto sbandierati delitti dell’Occidente ai danni del resto del mondo (alcuni reali altri decisamente esagerati se non inventati) comporterebbero pur sempre una responsabilità politica degli Stati e non individuale dei singoli, e sarebbero gli Stati a dovere agire politicamente, a sostegno dei Paesi più poveri, ferma restando la libertà (ma non l’obbligo) di agire in tal senso anche degli individui e delle associazioni private. Del resto la massa di aiuti rivolta verso le zone più arretrate (e senza dimenticare i miglioramenti apportati già nel periodo coloniale e anche ad opera delle multinazionali, se non vogliamo tracciare una storia a senso unico) hanno sempre avuto ed hanno tuttora anche le motivazioni di riequilibrare il rapporto tra Paesi ricchi e Paesi poveri ed il loro fallimento è stato per molti versi dovuto al loro carattere incondizionato e indiscriminato (concetti molto cari ai sostenitori dell’aiuto a tutti i costi) che hanno concentrato spesso le risorse occidentali nelle mani di dittatori tribali o ispirati alle peggiori idee politiche importate dai Paesi avanzati, o negli ultimi decenni all’integralismo religioso, dittatori intenzionati più a sfruttare le loro posizioni di potere che non a permetterne uno sviluppo civile ed economico delle popolazione loro soggette. In effetti, solo la tanto famigerata globalizzazione, frutto ed espressione dell’egoismo economico secondo molti, ha in effetti consentito lo sviluppo dell’Asia (Cina, India, Corea del Sud ecc.), dell’Est Europa (Russia), di parte del Sud America (Cile, in parte Brasile) e del Sud Africa che stanno “emergendo” verso livelli di sviluppo occidentali e significativamente sono passati quasi indenni nella crisi che ha colpito e colpisce i Paesi occidentali (in particolare quelli del Sud Europa). La stessa Africa Sub-sahariana sta iniziando il suo sviluppo più grazie agli investimenti cinesi che grazie agli aiuti “a pioggia” occidentali, mentre molti Paesi del Medio Oriente vedono impedito il loro sviluppo dal fanatismo religioso islamico che si unisce alla concentrazione in poche mani delle enormi ricchezze derivanti dal commercio del petrolio.^
11 Una posizione che rispecchia quella che Karl Popper (1902 – 1994) chiamava “società chiusa” e che giustamente considerava l’espressione massima della oppressione degli uomini sui propri simili: è quindi dal pensiero di Popper che è giusto prendere spunto per comprendere le caratteristiche comuni delle posizioni che limitano le libertà individuali in nome della realizzazione di collettività ideali o perfette, e soprattutto per definire in maniera compiuta i rischi che esse comportano per l’esistenza individuale e sociale degli uomini. Tutte le posizioni che abbiamo criticato si rifanno infatti ad una visione collettivistica delle società umane, che esalta la “comunità” (religiosa, politica, civile ecc.) come il luogo nel quale devono essere definiti i valori, gli scopi, e persino i modi di esprimersi e di pensare degli uomini, e che inevitabilmente affida il compito di definire tutte queste realtà fondamentali per la vita umana a qualche autorità, sia essa rappresentata da qualche leader politico o religioso, o come più sovente accade da qualche élite tecnocratica che possiede una particolare “scienza” in una data materia o ancora sia rappresentata dalla maggioranza politica dei votanti. In base a queste concezioni, l’individuo che si oppone alle decisioni della collettività (o dei suoi rappresentanti), o che anche solo esprime valori diversi da quelli collettivi e agisce in base ad essi, diventa un avversario della collettività. Nel definire il bene (sociale) come un bene necessariamente “comune”, si finisce infatti per affermare che tutto ciò che non è comune non è bene, ma è frutto di malvagità, di “egoismo”.^
12 Mentre la società chiusa predefinisce i modi con cui giungere a tale situazione ideale e nel fare ciò inevitabilmente predefinisce anche i risultati finali di tale opera di sviluppo sociale, e in sostanza “chiude” appunto ogni alternativa ad una vita sociale disciplinata nei fini e nei mezzi, una vita sociale presentata come ideale e sovente addirittura come una sorta di “paradiso” sulla terra o almeno come “il migliore dei mondi possibili”, la società aperta lascia alla scelta dei singoli la possibilità di scegliere come e quando operare ai fini del miglioramento sociale, limitandosi nelle sue regole ad impedire che qualcuno possa ledere i diritti di libertà degli altri, ed eventualmente a favorire con l’azione pubblica il miglioramento delle potenzialità e delle facoltà degli individui: nessun mondo ideale viene predefinito nell’ottica della società aperta, ma si lascia che le concezioni ideali di ciascuno possano convivere con quelle degli altri nel necessario rispetto delle regole che tale convivenza disciplinano. Due concezioni diverse degli uomini e della società: da una parte, quella della società chiusa, abbiamo una visione se vogliamo più ottimistica, in un certo senso eroica e per molti versi affascinante, quella che porta al mondo ideale, o almeno al migliore dei mondi possibili e lo fa educando, anche coercitivamente, gli uomini sulla via della perfezione.^
13 Entrambi risalgono nelle loro formulazioni più compiute al pensiero di Agostino d’Ippona (354 – 430) e come molte delle affermazioni di quello che ben può essere considerato il “padre” del cristianesimo, e quindi della cultura occidentale, sono in apparente contraddizione reciproca, ma la loro combinazione sta come detto alla base della nostra civiltà: la prima è che l’essere umano è imperfetto e mai potrà superare né come singolo né grazie alle strutture sociali, politiche o religiose tale condizione e vivere una vita di perfezione (è la nota dottrina del “peccato originale” di Agostino, per il quale nemmeno la chiesa terrena è perfetta, ma solo la “città di Dio” celeste); la seconda, che sembra in contraddizione con quella precedente è che ogni uomo è lo specchio della Trinità divina e che, se assistito dalla grazia divina, ogni individuo può scegliere come e quando compiere il bene (sempre Agostino riassume il principio della libertà umana nel principio ama e fa ciò che vuoi). Peraltro, in molti altri punti il pensiero agostiniano è in contrasto con queste affermazioni, e del resto molte affermazioni del grande pensatore africano non sono certo condivisibili, ma le due idee che abbiamo esposto rappresentano la spina dorsale morale e sociale dell’Occidente, e sulla base del rapporto tra la libertà individuale e i limiti e i correttivi posti alla stessa a causa dell’imperfezione umana si è sviluppata quella che sopra abbiamo chiamato “condizione umana” nell’ambito della cultura occidentale, dall’anarchia feudale dell’alto medioevo alla società regolata dalla chiesa papale e indirizzata dall’impero nel basso medioevo, agli stati confessionali della prima epoca moderna, alla nascita del tanto vituperato “capitalismo”, anch’esso espressione piena della cultura cristiana occidentale. Tutto ciò nonostante le repressioni e i crimini di cui si sono macchiate le élites (e talora le masse da loro istigate) cristiane, le quali spesso hanno rinnegato, hanno calpestato, ma non hanno mai eliminato dalla società e dalla storia occidentale i due principi di cui abbiamo parlato.^
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