Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVII - n. 2 > Saggi > Pag. 9
 
 
Cambia il vento dell'economia globale
di Massimo Lo Cicero
1. Cambia il vento?

Nell’ultima decade di gennaio emergono due giudizi importanti sulle dinamiche dell’economia globale: il Fondo Monetario Internazionale afferma che la domanda effettiva si va smorzando, in particolare quella che si incontrava con la produzione delle economie emergenti, mentre le prospettive di crescita accusano una diminuzione delle aspettative fino ad ora coltivate1.
Nella medesima decade, Mario Draghi – il presidente della Banca Centrale Europea – conferma la necessità di una politica monetaria non convenzionale ma aggiunge anche una netta indicazione sul nuovo contesto economico che ha preso forma nel 2016: «I rischi per le prospettive di crescita dell’area dell’euro restano orientati verso il basso e sono connessi in particolare a maggiori incertezze riguardo all’evoluzione dell’economia mondiale, nonché a rischi geopolitici più ampi. Questi rischi sono potenzialmente in grado di influire sulla crescita mondiale e sulla domanda esterna di esportazioni dell’area nonché sulla fiducia in modo più ampio»2.
Draghi indica come l’area dell’euro abbia iniziato il nuovo anno dovendo affrontare due dinamiche opposte: il rafforzamento dell’economia interna ai mercati domestici delle singole nazioni europee e l’indebolimento della economia mondiale. Indica anche che la ripresa, tenue ma esistente, viene trainata soprattutto dai consumi.
In pratica il Fondo Monetario e la Banca Centrale europea si presentano sulla scena con una dichiarazione formale, ed affiancata tra loro, che indica i tratti generali che, dalla seconda metà del 2014 alla fine del 2015, hanno determinato una diversa configurazione del mercato globale ma anche l’impatto delle questioni economiche con un crescente allargamento di eventi geopolitici. Impatto che ha generato un aumento dell’incertezza che si ripercuote sulla disponibilità ad investire e, dunque, aumenta la probabilità di un rallentamento probabile della crescita attesa per il 2016 ed il 2017.
Secondo il Fondo Monetario, che ha formulato la propria correzione rispetto al precedente rapporto dell’ottobre 2015, i principali problemi si possono presentare in questi termini: la domanda effettiva si presenta sottotono; le possibili opportunità possono essere ridimensionate dagli effetti di contorno rispetto alla economia globale3. Ci sono tre punti che vengono messi in evidenza:
• La crescita globale, normalmente stimata al 3,1 per cento nel 2015, ora viene stimata al 3,4 per cento nel 2016 ed al 3,6 per cento nel 2017. La ripresa nell’attività economica globale si profila in termini tali da essere più graduali rispetto a quelli dell’ottobre 2015 World Economic Outlook (WEO), in particolare nei mercati emergenti ed in quelli in via di sviluppo;
• Nelle economie avanzate, una modesta e discontinua ripresa dovrebbe proseguire, con un ulteriore possibile strozzatura di output gap. Il quadro per mercati emergenti, ed in via di sviluppo è diverso, ma in molti casi è ancora stimolante. Il rallentamento e la riorganizzazione interna dell’economia cinese, prezzi delle materie prime più bassi, e tensioni in alcune grandi economie emergenti continueranno a pesare sulle prospettive di crescita nel 2016 e nel 2017. La ripresa prevedibile della crescita nei prossimi due anni – nonostante il rallentamento in corso in Cina – riflette principalmente le previsioni di un graduale miglioramento dei tassi di crescita nei paesi attualmente in difficoltà economiche: in particolare il Brasile, la Russia ed alcuni paesi del Medio Oriente, anche se questo parziale recupero previsto potrebbe essere mortificato da nuove dimensioni economiche o da shock di carattere politico;
• I rischi per le prospettive mondiali rimangono orientati al ribasso e riguardano aggiustamenti in corso nella economia globale: un rallentamento generalizzato nelle economie emergenti, un nuovo equilibrio in Cina, prezzi più bassi delle materie prime, e la graduale uscita dalla condizioni monetarie, finora estremamente favorevoli, negli Stati Uniti. Se queste sfide non fossero gestite adeguatamente, in una chiave positiva e di successo, la crescita globale potrebbe davvero deragliare.

Mario Draghi, invece, presenta una serie di interventi finalizzati alla definizione dei problemi periodicamente definiti dal Fondo Monetario Internazionale. Non si tratta solo di documenti ufficiali, come quelli discussi nel Consiglio Direttivo della BCE e poi presentati nelle conferenze alla stampa internazionale e diffusi mediante il sito web della stessa banca. Si tratta di relazioni che vengono proposte in sedi autorevoli, come è sempre avvenuto negli anni in cui Draghi ha gestito la presidenza della BCE, ma che in questo momento di svolta, economica e politica, che investe l’Europa ma crea anche disallineamenti, tra i tempi ed i modi che si avvertono nei vari continenti del mercato globale, consentono a Draghi di proporre diagnosi e terapie, analisi economiche e politiche possibili, sull’Europa e sulla relazione che l’Unione Europea definisce di volta in volta sui temi, e sulle aree economiche, degli altri continenti4.



2. Da dove veniamo e dove stiamo andando

Cerchiamo di ricostruire i temi proposti da Draghi nel primo semestre del 2015. Ci troviamo in un periodo prolungato di politica monetaria accomodante, che può comportare effetti collaterali ma anche la circostanza che la politica monetaria, o le politiche ad essa collegate, si siano finora dimostrate efficaci e, quindi, non dovrebbe essere sottovalutato. Condizioni di finanziamento accomodanti potrebbero determinare un’allocazione distorta delle risorse, compromettendo la stabilità finanziaria. Certamente un periodo prolungato di tassi di interesse molto bassi favorisce l’accumulo di squilibri.
Bisogna analizzare con attenzione l’equilibrio degli effetti tra politica monetaria e stabilità finanziaria. In un contesto di eccesso di debito non è detto che una politica monetaria accomodante ostacoli il processo di aggiustamento dei bilanci.
In molti paesi i bassi tassi di interesse hanno di fatto contribuito a stabilizzare la dinamica del debito riducendo l’onere del servizio ed hanno, di conseguenza, agevolato la correzione dei bilanci.
Il rapporto tra la spesa per interessi e il PIL dei paesi dell’area dell’euro è sceso mediamente di 0,4 punti percentuali tra il 2012 e il 2014. L’onere del debito di famiglie e imprese si è ridotto ed i minori costi della provvista bancaria hanno contribuito in senso positivo agli utili non distribuiti, accelerando la riduzione del grado di leva finanziaria dei bilanci delle banche. Circostanze, queste, che rendono più facile una normalizzazione della politica monetaria nel medio periodo. In secondo luogo le decisioni di politica monetaria non sono state assunte in modo isolato ma nel contesto di un più ampio quadro di riferimento che contribuisce a mitigare i timori per la stabilità finanziaria. La politica monetaria della BCE è stata associata sia alla riduzione del livello di rischio sia all’abbassamento del grado di leva dei bilanci bancari, e non ad andamenti opposti.
Ma, dopo una grave crisi finanziaria, l’orientamento accomodante della politica monetaria non è necessariamente di ostacolo a una prudente valutazione del rischio. Può al contrario favorire una più regolare determinazione del prezzo del rischio, che potrebbe essere divenuto troppo elevato e tale da scoraggiare lo sviluppo di nuovi investimenti e di un’assunzione di rischi “produttiva”, perché potrebbero essere collegati ad investimenti, i risultati dei quali abbiano realizzato rendimenti importanti.
Se un periodo di tassi di interesse bassi si traduce inevitabilmente in una lieve distorsione nell’allocazione delle risorse a livello locale, non ne consegue che questo sia necessariamente una minaccia per la stabilità finanziaria complessiva. A maggior ragione se si sviluppa, in una dimensione veramente adeguata e coesa, l’inserimento della politica monetaria in un insieme complementare, di politiche di vigilanza e di regolamentazione, che creino incentivi alla correzione dei bilanci ed a comportamenti finanziari responsabili.
Infine è molto importante chiarire come si possano produrre effetti distributivi, anche in presenza di una inerzia della politica monetaria, connessa al fatto che la banca centrale non assolva al proprio mandato o che l’inflazione effettiva si discosti dall’obiettivo fissato dalla banca centrale. Ove l’inflazione si collocasse su livelli inferiori all’obiettivo, le statistiche relative all’area dell’euro indicano che la categoria maggiormente colpita sarebbe quella delle famiglie più giovani.
Le famiglie meno giovani hanno invece una ricchezza netta generalmente positiva. Tassi di inflazione inferiori all’obiettivo determinano quindi una redistribuzione dalle famiglie più giovani a quelle meno giovani.
D’altra parte, secondo Mario Draghi: «Le decisioni di politica monetaria hanno sempre conseguenze distributive. Quando la politica monetaria si prefigge di allontanare la disinflazione abbassando i tassi di interesse, esercita inevitabilmente un effetto distributivo riducendo il reddito da interessi dei risparmiatori e abbassando l’onere del debito dei mutuatari. Queste riduzioni dei tassi sono tuttavia necessarie per far aumentare la domanda aggregata incoraggiando le imprese e le famiglie ad anticipare le decisioni di spesa: in altri termini, scoraggiano il risparmio eccessivo e incentivano gli investimenti abbassando il costo del finanziamento. Inoltre, nella misura in cui la propensione ai consumi e agli investimenti è maggiore tra i mutuatari che tra i prestatori, questi effetti distributivi potrebbero favorire la ripresa»5.
Certamente politica monetaria, politiche fiscali e riforme strutturali devono interagire tra loro per aumentare l’impatto dei risultati che vogliono raggiungere. Un effetto iperadditivo risulta sempre maggiore di una sommatoria di strumenti che non siano stati collegati nella direzione dei traguardi da raggiungere. Ma governare la politica economica dell’Unione Europea richiede una ulteriore dimensione di complessità. L’Unione si esprime attraverso una pluralità di Governi che, a sua volta, richiedono traguardi diversi, in particolare sul fronte delle singole economie e delle condizioni nelle quali si trovano le popolazioni di quelle economie, ciascuna diversa od almeno abbastanza differente dalle altre. Le riforme strutturali accrescono sia il prodotto potenziale sia la tenuta dell’economia di fronte ad eventuali shock. In questi casi riforme e stabilità economica assumono rilevanza per la banca centrale di una unione monetaria. Ma in una unione monetaria la capacità di tenuta è necessaria anche per evitare scarti eccessivi tra le dimensioni della disoccupazione nei diversi paesi. Le riforme strutturali sono altrettanto rilevanti per il loro effetto sulla crescita.
Se questa crescita diventa troppo lenta una parte delle perdite economiche riconducibili alla crisi diventerebbe permanente, con una elevata disoccupazione strutturale ed una elevata disoccupazione giovanile nei paesi e nelle economie più fragili. Sarebbe inoltre più difficile abbattere il debito pubblico, troppo rilevante rispetto al pil, presente in alcuni paesi. Il caso dell’Italia e della sua divaricazione interna, risulta evidente.
Le economie lontane dalla frontiera dei comportamenti più adeguati e più efficaci, in termini di gestione della politica economica, attraverso l’impegno a conseguire radicali riforme strutturali, possono accelerare le trasformazioni degli ambienti economici in cui operano ed allargare l’entità potenziale dei benefici potenziali da ottenere.
Esiste, nell’area dell’euro, un potenziale inutilizzato che potrebbe e dovrebbe conseguire livelli considerevolmente più elevati di prodotto, occupazione e benessere.
Il fatto che la politica monetaria si trovi oggi limitata, e che la ripresa sia ancora fragile, non giustifica,necessariamente, ritardi nei processi di riforma: perché i costi ed i benefici delle riforme dipendono in modo cruciale dalle modalità di attuazione. Se le riforme strutturali sono credibili, gli effetti positivi possono essere avvertiti persino in un contesto di debolezza della domanda.
La combinazione di politiche monetari e fiscali genera effetti positivi sulla domanda, ma le riforme strutturali possono generare effetti positivi sulla espansione dell’offerta che potrebbe incrementare, in una spirale espansiva, la dilatazione della crescita grazie alla domanda creata dalla relazione tra le politiche monetarie e quelle fiscali. Una simile relazione virtuosa ed una capacità strategica di organizzare riforme strutturali che promuovano l’offerta aggregata diventa, in questa chiave, una terna positiva per la crescita.
Siamo in queste condizioni?
Funziona il circuito del reddito ma manca la forza degli investimenti, che diventano capitale quando vengono realizzati, mentre generano domanda se le imprese si convincono di potere e dovere scommettere sulla crescita. Le due lame della forbice, politica monetaria e politica fiscale, purtroppo non sono ancora adeguatamente coordinate nell’area euro. La Banca Centrale Europea allarga le proprie competenze dalla moneta alle banche ed alla vigilanza sulle banche. E guarda in prospettiva anche alla dimensione finanziaria dei mercati europei. La politica fiscale non viene governata da una unica istituzione, ancorché complessa, come la BCE.
Le strategie dei Governi in carica dipendono da due gruppi di nazioni: l’area dell’euro e le sue regole fiscali; l’area del mercato unico, che include l’intera Unione, ma premia la crescita dei paesi al di fuori dell’area euro. La svolta del mercato globale, indicata dal Fondo Monetario, si affianca alla divaricazione della politica monetaria e fiscale in Europa. I paesi emergenti ripiegano su se stessi e la turbolenza della geopolitica mondiale accentua l’incertezza verso il futuro. Razionalmente sarebbe quindi utile concentrare la spinta della crescita verso i mercati interni dell’area euro. Abbandonando la remora dell’austerità senza allentare una gestione puntuale della natura e degli effetti generati dalle politiche fiscali.
La Commissione Europea, ed i Governi delle nazioni europee, devono ridimensionare la pressione fiscale e la spesa corrente. Molti paesi europei dipendono ancora da una correzione strutturale ulteriore per promuovere la fiducia nelle loro finanze pubbliche.
In effetti, proprio nella riunione tenuta a Sintra il 22 maggio 2015, si definisce l’impianto che lega lo sviluppo delle funzioni, monetarie, bancarie e di vigilanza, della BCE e la possibilità di allargare ulteriormente, rispetto alla creazione di mercati finanziari integrati nella sfera dell’Unione Europea. Questa sorta di completamento della BCE si affianca agli sviluppi analitici sull’inflazione e sulle riforme di struttura, sulle politiche fiscali, ma anche sulle relazioni tra moltiplicatore del reddito ed accelerazione della crescita, determinando un insieme complesso della politica economica possibile nella sfera dell’Unione Europea.
Al congresso di Francoforte, nel secondo semestre del 2015, Draghi propone una sorta di collegamento tra la natura singolare di questo impianto di politica economica, che si è espresso progressivamente dopo l’ingresso alla presidenza della BCE e nell’ambito degli sviluppi organizzativi ed analitici che si sviluppano all’interno della banca grazie alla dilatazione delle sue funzioni6.
Non a caso l’intervento di Draghi viene indicato con un titolo che esprime un cambio di stato “Politica Monetaria: passato, presente e futuro”. Perché si incontrano, alla fine del 2015, sia la dimensione positiva con cui progressivamente, dal 2013 in poi, è stato articolato il percorso della politica monetaria non convenzionale che i primi segnali di un cambiamento sulla dimensione delle stime di crescita potenziale per il futuro. Da una parte le misure di politica monetaria della BCE sono state efficaci, ed hanno contribuito ad invertire le spinte deflazionistiche che hanno colpito l’area dell’euro negli anni precedenti, ma la crescita è poco vigorosa e l’inflazione si attesta molto al di sotto dell’obiettivo indicato come prossimo al 2%.
Le piccole imprese segnalano miglioramenti nell’accesso alle fonti esterne di finanziamento ma emergono tre elementi di rischio: la crescita mondiale sarà la più debole dal 2009; per l’area dell’euro si tratta del rimbalzo più modesto dal 1998; la ripresa allunga la sua potenziale prospettiva oltre il triennio successivo. Il processo di riassestamento economico non è stato completato nell’area dell’euro. Se i rischi per un obiettivo di stabilità dei prezzi a medio termine risulteranno sbilanciati al ribasso saranno messi in campo tutti gli strumenti disponibili nell’ambito del mandato di cui dispone la BCE.
Nelle sue conclusioni Draghi riporta un quadro abbastanza preoccupante ed incerto: «la ripresa resta assai prolungata in una prospettiva storica. Dopo le crisi degli anni ’70, ’80 e ’90 ci sono voluti tra cinque e otto trimestri prima che i paesi attualmente membri dell’area dell’euro si riportassero sui livelli di prodotto in termini reali esistenti prima della recessione. Durante l’ultima recessione, effettivamente la peggiore dagli anni ’30, l’economia statunitense ha impiegato 14 trimestri per raggiungere il livello massimo anteriore alla crisi. Se la nostra valutazione corrente è esatta, ci vorranno 31 trimestri, cioè fino al primo trimestre del 2016, prima che l’area dell’euro si riporti sul livello di prodotto registrato prima della crisi.
Ciò è importante non soltanto per la perdita di prodotto in questo arco di tempo. Un rallentamento così prolungato incide inevitabilmente anche sulle modalità con cui imprese e parti sociali determinano salari e prezzi, con conseguenze che si protrarranno sulla ripresa dell’inflazione. Sebbene il recente calo dell’inflazione sia in gran parte riconducibile alle componenti più volatili, in particolare ai prezzi dell’energia, anche gli indicatori dell’inflazione di fondo si collocano su un basso livello. Ciò potrebbe implicare il protrarsi di pressioni relativamente deboli sui prezzi.
Osserviamo una crescita salariale contenuta nell’area dell’euro, da cui si evince che l’output gap continua a esercitare spinte al ribasso sulle retribuzioni. Anche le cosiddette misure dell’inflazione di fondo, che non comprendono le componenti volatili, mostrano un andamento discendente dalla metà del 2012, al culmine della crisi dell’euro, e si attestano intorno all’1% da quasi due anni. L’incremento di ottobre all’1,1%, seppur incoraggiante, non è sufficiente per determinare un radicale cambiamento di questo quadro. L’inflazione di fondo su bassi livelli non è un dato tranquillizzante, poiché in passato questa ha fornito una buona previsione del tasso sul quale l’inflazione si sarebbe stabilizzata nel medio periodo. Mentre i beni industriali di base beneficeranno del deprezzamento dell’euro, l’aumento dell’inflazione per la componente dei servizi di base, oggi prossima al minimo storico, dipenderà dall’incremento della crescita dei salari nominali.
Affinché ciò avvenga, l’economia deve tornare quanto prima al pieno utilizzo della capacità produttiva. Ricomponendo i pezzi del mosaico, abbiamo una situazione in cui non possiamo asserire con fiducia che il processo di riassesto economico sia completato nell’area dell’euro. In un contesto di espansione moderata e dinamica dei prezzi contenuta, dovremo seguire da vicino se l’economia, qualora lasciata al gioco delle proprie forze, sia in grado di raggiungere un percorso di crescita in grado di autosostenersi in condizioni di stabilità dei prezzi. Se così non fosse, occorrerà un maggiore stimolo monetario, che la BCE non esiterà a fornire. Nella riunione di dicembre del Consiglio direttivo effettueremo una valutazione approfondita del vigore e della persistenza dei fattori che rallentano il ritorno dell’inflazione su livelli prossimi al 2%»7.
A dicembre del 2015 Mario Draghi ritorna ancora sui problemi che ha individuato e sulle ombre che si affacciano rispetto al 2016.
Abbiamo già detto che i problemi geopolitici creano incertezza nel mercato globale e, pertanto ritardano la crescita. Ed abbiamo anche detto che la discesa del cambio tra euro e dollaro hanno creato una opportunità per le industrie esportatrici europee. Ma questa circostanza, essendosi ridimensionato il sistema delle economie emergenti, riporta l’obiettivo della crescita ai mercati endogeni rispetto al perimetro dell’Unione Europea. Questa volta Mario Draghi propone la diagnosi a Bologna, nelle sede di Prometeia: «Al termine di una crisi durata otto anni l’economia europea sembra finalmente reggersi su basi più salde. La ripresa è ora sospinta dalla domanda interna piuttosto che dalle esportazioni; ha mostrato di saper resistere al recente rallentamento del commercio mondiale. A ciò la politica monetaria ha dato un impulso decisivo. Gli strumenti messi in campo dal giugno del 2014, in particolare il programma di acquisto di attività di titoli privati e pubblici avviato nel settembre dello scorso anno e ampliato nel gennaio di quest’anno, stanno determinando gli effetti voluti. Dopo la ricalibrazione dei nostri strumenti attuata questo mese dal Consiglio direttivo, ci attendiamo che l’inflazione raggiunga il nostro obiettivo senza indebiti ritardi.
Ma continuiamo a osservare attentamente gli andamenti delle condizioni economiche e finanziarie. Come ho avuto modo di dire in occasione dell’ultima riunione del Consiglio Direttivo e anche più recentemente, “non c’è dubbio che, se dovessimo intensificare l’utilizzo dei nostri strumenti per raggiungere il nostro obbiettivo di stabilità dei prezzi, lo faremo”. Ma gli shocks che hanno colpito la nostra economia dal 2008 non hanno avuto natura meramente ciclica, bensì anche strutturale. In questo contesto, la politica monetaria può assicurare la stabilità dei prezzi, ma da sola non può rendere durevolmente prospera un’economia. È quindi essenziale intervenire sia sulla domanda, sia sull’offerta e agire in modo coerente su tutti i fronti, per consolidare l’inversione del ciclo e creare allo stesso tempo le condizioni per una solida e duratura ripresa. Nel mio intervento di oggi vorrei discutere come politiche diverse possono contribuire a raggiungere questo risultato, non agendo sequenzialmente ma simultaneamente nei loro rispettivi ambiti di competenza.
Una delle caratteristiche di questa crisi è stata la caduta del tasso di crescita potenziale dell’area dell’euro, vale a dire il ritmo a cui l’economia può crescere stabilmente, senza surriscaldarsi e senza quindi generare inflazione. Si stima che esso sia oggi nell’area pari all’1 per cento, a fronte del 2 per cento negli Stati Uniti dove pure la crisi è stata accompagnata da un abbassamento del tasso di crescita potenziale. Ciò significa che anche con una forte ripresa ciclica la crescita si collocherà su un valore abbastanza basso. Per assicurare una ripresa strutturale dobbiamo però elevare non solo la crescita ciclica, di breve periodo, ma anche quella potenziale, di lungo periodo.
Nel determinare la crescita potenziale cruciale è il ruolo degli investimenti. Essi accrescono al contempo la domanda di oggi e l’offerta di domani. Nell’area dell’euro, però, la ripresa ha sinora riguardato soprattutto i consumi e in misura minore gli investimenti, che si collocano ancora su valori del 15 per cento inferiori a quelli pre-crisi. Questa debolezza è peraltro comune anche ad altre economie avanzate. Nell’area dell’euro gli investimenti sono frenati soprattutto da tre fattori: la debole dinamica della domanda, l’accumulo di debito, già ingente nel periodo precedente la crisi, la precaria fiducia del settore privato nelle prospettive di crescita delle nostre economie».
Ed aggiunge:«Le nostre misure sono dunque risultate efficaci in due direzioni: hanno ridotto la dispersione nelle condizioni di finanziamento fra i paesi dell’area dell’euro e hanno compresso la dispersione fra differenti categorie di imprenditori.
Tutto ciò ha contribuito non solo a consolidare la ripresa ma anche a renderla più flessibile. L’indebolimento della domanda estera da parte dei paesi emergenti è stato compensato da una maggiore domanda interna all’area dell’euro proveniente soprattutto dalle economie dei paesi ‘non core’. Le nostre misure di politica monetaria, sostenendo la incipiente ripresa, hanno così permesso di attenuare gli effetti negativi dell’indebolimento delle economie dei paesi emergenti sui maggiori paesi esportatori dell’area dell’euro.
È importante che gli effetti positivi delle nostre misure abbiano raggiunto anche le imprese minori perché ciò significa che essi sono stati percepiti da una grande platea di agenti, non solo da particolari gruppi economici e sociali, come qualche volta si sostiene. Non si dimentichi che le piccole e medie imprese rappresentano il 99 per cento del numero totale delle imprese in Europa e, fatto più importante, impiegano due terzi degli occupati totali.
Perché le nostre misure di politica monetaria sono state efficaci?
Una delle ragioni per cui i tassi sui prestiti alle imprese erano elevati in passato era che, data la debolezza delle condizioni economiche, le banche temevano in modo particolare il rischio di fallimento delle imprese e per questo accrescevano i premi al rischio. I tassi più elevati però facevano flettere anche la domanda di credito da parte delle imprese sane, aggravando le condizioni dell’economia e giustificando ex post gli elevati premi al rischio. Si generava così un circolo vizioso.
Le nostre misure, specialmente le operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine, riducendo i costi di provvista per nuovi prestiti, hanno incoraggiato le banche a riavviare il credito. L’accresciuta concorrenza sui mercati ha compresso i tassi, sospingendo il credito e migliorando il quadro macroeconomico. Siamo così riusciti a invertire il circolo vizioso»8.



3. Alla ricerca di una terapia della crescita per l’Italia

Non si devono confondere la dimensione europea dell’analisi di Draghi con le condizioni dell’economia italiana. Ma resta chiaro che, tra luci ed ombre, si profila, in ogni caso, una ulteriore dilazione nell’incremento futuro della crescita.
Secondo Mario Draghi «La chiave per un risanamento favorevole alla crescita va ricercata nella composizione dell’aggiustamento: dal lato delle uscite, la riduzione dei consumi e non degli investimenti; da quello delle entrate, lo spostamento – ed eventualmente la riduzione – dell’onere fiscale invece che il suo aumento. Naturalmente, tuttavia, è anche importante innalzare il potenziale di crescita delle nostre economie per favorire una riduzione del debito»9.
Servono anche strumenti ulteriori per completare gli effetti delle politiche fiscali:
• riprendere il Piano Juncker per creare infrastrutture ed investimenti nell’Unione;
• attivare investimenti fondati sulle nuove tecnologie e l’innovazione per allargare la crescita reale del valore economico e non solo per aumentare le vendite in presenza della caduta del cambio tra euro e dollaro.

Dopo il 2008 e fino al 2015 l’euro è scivolato da 1,35 ad 1,10 sul dollaro, come avvenne nel 1992 quando l’Italia subì una svalutazione della lira molto significativa: anche in questa occasione l’industria italiana ha potuto utilizzare la caduta del cambio come una risorsa per produrre vendendo all’estero. Infine bisogna definire cosa siano ed utilizzare adeguatamente le riforme strutturali: esse dovrebbero creare le trasformazioni che rendono i mercati più flessibili e meno vincolati e, di conseguenza, la opportunità di una crescita potenziale più dinamica di quella che da alcuni decenni il nostro paese ha sopportato l’affanno. Ma su questa circostanza pende una certa diffidenza. Secondo Mario Draghi incombe una sorta di diffidenza verso le riforme strutturali rispetto alla presenza, ormai definita, della politica monetaria non convenzionale: «In primo luogo (la riforma strutturale) non funziona dal punto di vista istituzionale. (Ma) Il ruolo della BCE non prevede l’utilizzo della politica monetaria per costringere i governi ad attuare le riforme. Non è questo il mandato che ci è stato conferito dal Trattato. Inoltre, francamente, un tale comportamento da parte nostra sarebbe del tutto illegittimo nella nostra veste di banchieri centrali non eletti. In secondo luogo non regge neanche dal punto di vista empirico. Non esiste necessariamente un nesso tra i tassi di interesse e le riforme. A titolo di esempio, la Spagna ha avviato la riforma del mercato del lavoro quando i tassi di interesse erano già diminuiti. L’Italia ha approvato la sua legge di riforma di tale mercato lo scorso anno in presenza di condizioni di mercato tranquille. Alla stessa stregua, la Francia porta avanti la riforma Macron senza pressioni di mercato. Infine, l’argomentazione non tiene dal punto di vista logico. Pensate alle tipologie di riforme di cui hanno davvero bisogno i paesi dell’area dell’euro. Tali riforme – che riguardano il sistema giudiziario, l’istruzione e la pubblica amministrazione – sono difficili e possono richiedere un decennio prima di produrre dei risultati. Perché siano attuate, serve la convinzione personale dei politici e un mandato popolare per il cambiamento. Il fatto che i tassi di interesse siano o meno temporaneamente più alti è irrilevante. Di fatto, tassi di interesse elevati non sono generalmente accompagnati da riforme di lungo periodo ma piuttosto da risposte a breve termine volte a calmare i mercati. Ciò vuol dire di norma che i bilanci sono risanati attraverso un aumento del carico impositivo, il che peggiora la recessione e crea a sua volta un contesto ancora più difficile per l’attuazione delle riforme strutturali poiché in un’economia depressa i costi sono maggiori.
Se quindi consideriamo queste preoccupazioni nel loro insieme, vediamo che sono legate da un filo conduttore. Benché ognuna di esse contenga un pizzico di verità, esiste un’altra faccia della medaglia che non riceve la medesima attenzione. Ciò segue uno schema che abbiamo visto in tutta la crisi. Negli ultimi anni alcuni osservatori hanno lanciato inviti alla cautela, sostenendo che le nostre politiche avrebbero provocato un aumento incontrollato dell’inflazione. Non è stato così. Altri hanno detto che l’espansione del nostro bilancio e l’accettazione di garanzie di qualità inferiore ci stava esponendo a perdite pesanti. Di fatto, non abbiamo avuto nessuna perdita. Poi, le stesse autorità hanno sostenuto che le nostre politiche erano illegali. La Corte di giustizia europea è stata di diverso avviso. Ora ci mettono in guardia contro gli effetti collaterali e i rischi del nostro operato. Quello di cui non li sento mai parlare, tuttavia, sono i rischi dell’inazione. Quali sarebbero le conseguenze per il nostro mandato di mantenere la stabilità dei prezzi, e di conseguenza per la crescita e l’occupazione, oltre che – in ultima istanza – per il futuro della nostra unione monetaria? Sono questi, a mio parere, i rischi reali di cui dobbiamo preoccuparci. Di fatto, in questo senso, la nostra politica monetaria sta seguendo la strada della riduzione dei rischi»10.
Ma se la politica monetaria non convenzionale produce vantaggi, nell’opinione appena espressa dal testo di Draghi, come e perché dovrebbero agire gli attori che governano altre politiche e, dunque, dovrebbero allargare i caratteri degli strumenti che possano convergere verso l’obiettivo di una ripresa della crescita?
Nel caso italiano esiste un attore sovradimensionato negli anni alle nostre spalle: il Ministero dell’economia e delle finanza.
Una organizzazione importante che ha accorpato, da molti anni, gli anni Novanta, tre ordini di funzioni: il tesoro, le finanze e le politiche di bilancio dello Stato. Forse sarebbe utile valorizzare adeguatamente la terza di queste funzioni: quella, proprio, delle politiche di bilancio. Perché possa reggere un confronto adeguato e cooperativo con la politica monetaria ma anche per evitare che profili troppo recessivi, eccessi di spesa corrente rispetto a quella in conto capitale per gli investimenti infrastrutturali e pressione fiscale crescente possano indebolire la dinamica del prodotto interno loro e generare, come accade da circa un decennio, la crescita del debito pubblico, rispetto al pil, grazie alla caduta del numeratore rispetto al denominatore.
Una crescita robusta impone che la politica di bilancio lavori di intesa con la politica monetaria e non contro di essa. Anche con un bilancio in pareggio si possono mettere in moto processi espansivi ma bisogna trovare il modo di raggiungere questo obiettivo incidendo il meno possibile sulla compressione della crescita11. Bisogna lavorare lungo la curva IS piuttosto che lungo la curva LM. Bisogna che i flussi di investimento si trasformino in domanda effettiva nel circuito del reddito a breve termine, alimentati dai flussi di risparmio. Una volta acquistati impianti ed attrezzature, ed anche capacità e risorse intangibili, che nascono dalla conoscenza e dalla dilatazione dei processi digitali, quegli investimenti diventano strumenti di accumulazione e di valorizzazione della produzione. Accelerando la crescita. Naturalmente bisogna aumentare il potenziale di crescita per favorire una riduzione del debito.
Le riforme strutturali sono essenziali per promuovere l’occupazione, ridefinire il mercato del lavoro ed i mercati finanziari, allargare le opportunità per l’innovazione delle tecnologie, creare nuovi modelli di business per l’economia delle imprese che utilizzano strumenti digitali.
Questo complesso di strumenti dovrebbe convergere verso un traguardo complesso: l’agevolazione dell’attività imprenditoriale nell’area dell’euro.
La conclusione di Draghi è molto puntuale: «Dobbiamo in particolare fare in modo che le nuove regole per i bail in siano applicate uniformemente nei vari paesi e che il margine per la discrezionalità nazionale sia mantenuto al minimo. Inoltre, non abbiamo ancora raggiunto un accordo su un meccanismo di protezione finanziaria (backstop) per il Fondo di risoluzione unico. In aggiunta, un regime europeo di garanzia dei depositi sarebbe un segnale di progresso verso il completamento dell’unione bancaria. Questo mi porta all’ultima area di intervento: il completamento della nostra unione monetaria.
La Relazione dei cinque presidenti ha presentato una visione di lungo periodo per l’Unione economica e monetaria (UEM) e una sequenza di passi per conseguirla. Occorre adesso adottare le misure a breve termine necessarie per conferire credibilità a questa visione di lungo periodo: in primo luogo, e soprattutto, completando tutti e tre i pilastri dell’unione bancaria. L’eliminazione delle fragilità dell’UEM grazie ai progressi sul piano sia delle misure a breve termine sia della visione di lungo periodo fornirebbe un contributo essenziale al rafforzamento della fiducia in Europa.
Le prospettive dell’economia mondiale nel 2016 sono incerte. Tuttavia, la nostra sfida nell’area dell’euro consiste nel fare in modo che i venti sfavorevoli a livello mondiale non portino fuori rotta la nostra ripresa interna. A questo scopo, tutti i responsabili delle politiche devono adoperarsi per rafforzare la fiducia. La BCE contribuisce ad assicurare la ripresa ciclica assolvendo il proprio mandato di mantenere la stabilità dei prezzi. Inoltre, le preoccupazioni riguardanti la nostra politica monetaria non reggono a una verifica accurata. Ancora una volta, le critiche alle nostre decisioni non hanno trovato conferma. La BCE ha agito in modo indipendente dal sistema politico e per il bene dell’area dell’euro nel suo insieme.
Tuttavia, perché la ripresa ciclica diventi strutturale, gli altri devono fare la loro parte. Questo richiede un’azione concertata in materia di politiche di bilancio, riforme strutturali e riduzione dell’eccesso di debito. Soprattutto, dobbiamo proseguire il processo volto a completare la nostra unione monetaria su tutti i fronti necessari»12.



4. Le due Italie

Tra il Governo, che guida la politica, e l’amministrazione, che realizza gli indirizzi della politica, in Italia, esiste una terza dimensione, che sembra assolutamente lasciata a se stessa: la politica economica. Probabilmente perché la politica stessa arranca e viene a mancare il ponte tra come produrre, ed espandere la ricchezza, e cosa si debba fare per realizzare questi obiettivi. Nei primi tre paragrafi di questo articolo abbiamo raccolto il risultato di Mario Draghi nei confronti dell’analisi economica necessaria per governare l’Unione Europea e lo stato dell’arte che Draghi ha raggiunto dal 2011 ad oggi per definire i termini della politica monetaria non convenzionale e confrontarli con gli attori di altre politiche: le politiche fiscali e le riforme strutturali. In questo ultimo paragrafo cerchiamo di individuare i caratteri, molto deteriorati del dualismo italiano. Le condizioni del nostro paese impongono un duplice risultato: ricollegare e connettere le reti economiche ed istituzionali del mercato domestico; presentarsi con la reputazione di una nazione capace di agire e di ottenere risultati nell’ambito di una politica economica coerente con l’Unione Europea.
Nel seguito del paragrafo esponiamo le fratture che ancora oggi pesano, in termini di divario e di chiusura in piccoli ambiti territoriali, sull’economia italiana. Sarà difficile arrivare ad una convergenza italiana che possa presentarsi come un attore significativo del concerto europeo ma questo traguardo dovremmo davvero accelerarlo: essendo ormai l’unico Stato europeo che contiene al suo interno una struttura economica e sociale di ordine duale.
La politica economica italiana dispone di una ridondanza di strumenti e di una assoluta generica inconsistenza di cosa siano o debbano essere gli obiettivi. Troppi strumenti, tecnici ed organizzativi, per obiettivi vaghi ed inconsistenti, generano la rincorsa delle istituzioni all’emergenza provvisoria e non costruiscono un percorso credibile per il futuro. Nel luglio del 2015, mentre la tendenza alla crescita dell’Europa cedeva colpi, sono emerse due diagnosi molto interessanti relative all’Unione Europea ed alla dimensione dell’Italia rispetto al Mezzogiorno. La prima della BCE e la seconda della Svimez.
La seconda ha fatto più scalpore. Ma, per fortuna, ha detto le medesime cose della prima13. Una speranza di convergenza attesa!
La crisi, alle nostre spalle, dopo il 2008, ha messo in luce gravi debolezze nella struttura e nelle istituzioni di alcuni paesi partecipanti all’Unione economica e monetaria (UEM), che hanno mostrato da allora un calo considerevole del reddito reale pro capite.
L’Unione Europea ha registrato una convergenza reale, grazie al recupero del divario nei paesi dell’Europa centrale ed orientale mentre, nei 12 paesi che avevano adottato l’euro, non c’è stato un processo analogo. Come in una matrioska, l’Europa si divide tra i paesi con e senza euro, ma con un mercato comune ed una fiscalità bassa ed una flessibilità accentrata.
L’Italia, invece, ha troppa spesa pubblica e troppe tasse, che la rincorrono, ed è molto rigida nelle sue strutture. Si divide tra un centro nord, che è meno gravato da istituzioni pubbliche ed un mercato dove famiglie, banche ed imprese trovano i loro spazi. Mentre nel Sud si è aperta una frattura longitudinale: a nord est ci sono la Puglia e la Basilicata, con una demografia più leggera ed una migliore capacità istituzionale;a sud ovest c’è un eccesso di popolazione (Calabria e Campania sono 8 milioni di persone), una base economica efficace molto ridotta, larga disoccupazione e lavoro nero come effetto dello scarto tra popolazione e produzione. Ed anche una eccessiva, e spesso poco efficiente, presenza di organismi statali e locali. La crisi ha svelato, nei tre livelli descritti, la differenza che esiste tra comunità che si adoperano per investire e produrre capitali, che potranno generarne ulteriori; tecnologie che aumentano la produttività totale dei fattori; un’attenzione per la conoscenza e la cultura: questo terzo obiettivo potrebbe rappresentare una leva per i primi due. Gli strumenti, invece, dovrebbero essere organizzazioni pubbliche e private che siano capaci di cooperare tra loro e non di colludere tra loro. La dimensione dei mercati può generare una economia di scala.
L’Unione potrebbe reggere al suo interno anche la sua parte debole, così l’Italia e così il Sud. Ma fino a quando? In economia l’insieme delle relazioni, che il mercato collega ogni giorno, crea un valore più alto della somma della ricchezza prodotta tra i singoli attori. La somma fa il totale, in aritmetica, ma la creazione di valore è generata da un insieme che lega tra loro i creatori del valore: famiglie, banche ed imprese. Mentre le istituzioni pubbliche ridistribuiscono quel valore per creare eguaglianza ed equità: se ci riescono. L’effetto dell’insieme, allora, diventa iperadditivo.
Se non si mettono al primo posto l’efficienza, la reputazione e la fiducia, i mercati vacillano e la moneta cattiva (istituzioni maldestre) scaccia la moneta buona: la competizione e la cooperazione.
L’Italia ed il Sud hanno un compito difficile da realizzare: perché sono divise ed il Sud stesso si presenta con due facce. La somma dei risultati positivi dell’Italia è notevole ma è altrettanto notevole la somma di chi collude con altri, malversa, utilizza rendite e monopoli odiosi, agisce con strumenti criminali e violenti. Bisogna ridimensionare questi fenomeni, inadeguati ad un paese civile, e bisogna farlo a Sud come a Nord. E farlo bene.
Il Mezzogiorno, come i fragili paesi mediterranei, ha bisogna di uno slancio imprenditoriale. Finita la stagione degli incentivi, che hanno fiaccato la capacità imprenditoriale e favorito collusioni tra strutture pubbliche e presunti imprenditori, sono venuti a galla i Fondi Europei e sono stati anche affidati alle Regioni. Ma, in Piemonte, ad esempio, quei fondi sono collegati dalla Regione ad un sistema di banche che fanno leva per creare insieme infrastrutture efficienti. Altrettanto dovrebbero fare le Regioni meridionali: creando una relazione tra ponente e levante nel Mezzogiorno. Unendo un mercato di quasi venti milioni di abitanti. Anche Junker, infatti, il presidente della Commissione Europea, parla di miliardi di euro, ma si aspetta di trovarli attraverso banche ed imprese e non solo con la spesa pubblica. Bisognerebbe aumentare il peso di banche ed imprese, collegandole alle strutture pubbliche e non solo ai mercati: ed allora il Sud potrà dire di essere una risorsa per l’Italia, abbandonando piagnistei e supponenze inconsistenti. Ed il Nord dovrà tenerne conto.
A settembre del 2015 si incrociano due appuntamenti importanti per la politica economica italiana: l’avvio della discussione sulla legge di stabilità per il 2016 e la presentazione di un Masterplan, con una serie di approfondimenti per 15 siti dell’economia meridionale.
Bisognava evitare che questa coppia si separasse: il dualismo è un carattere della nostra economia nazionale ma questo problema non si supera se si guarda al Sud come una riserva indiana, mentre il Parlamento discute del bilancio nazionale, del debito pubblico e delle politiche macroeconomiche, che dovrebbero supportare la crescita nazionale. Il Ministro Padoan ha detto con coraggio che serviva una riduzione parallela delle tasse e della spesa nei prossimi anni. Questa riduzione della pressione fiscale avrebbe dovuto essere coerente con le opportunità della spending review in corso e creare uno spazio per allargare l’intero mercato domestico italiano, riducendo lo scarto tra i redditi e la spesa del Sud rispetto al Nord. Per realizzare questo traguardo avrebbe dovuto manifestarsi una ipotesi di politica economica che riportasse alla convergenza tra nord e sud la relazione squilibrata che il dualismo ha imposto al nostro paese. Al nord il reddito medio procapite si allinea ai 32mila euro; al Sud si allinea ai 16mila, mediamente. Tolte le tasse quei due valori presentano una ulteriore divaricazione: da un parte, il Nord, rimane forte la capacità di spesa che alimenta il mercato domestico e si affiancano a questa forza la ripresa della capacità produttiva e la protezione della cassa integrazione, per una parte dei lavoratori. Al Sud, tolte le tasse, se non ci fosse una massa sterminata di economia fragile e sommersa, non ci sarebbe proprio un mercato domestico da alimentare, mentre restano comunque fuori, del mercato del lavoro ufficiale, una grande quantità di disoccupati. I consumi sono calati nel Mezzogiorno per il 2014 mentre si riprendono nel resto del paese.
Si dice che la crescita italiana stenta a riprendersi ma, in effetti, anche in questo caso trionfa la varianza e non la media: nel Nord si è avviato un processo di crescita mentre nel Sud questo non accade ancora. Perché manca la dimensione di un ragionevole mercato domestico e resta aperto un ulteriore squilibrio tra demografia e capacità di produrre:un terzo della popolazione vive nel Mezzogiorno ma la capacità di produrre dell’industria manifatturiera meridionale è caduta del 35% rispetto ai volumi del 2007. Dieci volte la dimensione accusata dal totale delle 28 economie dell’Unione Europea nel medesimo lasso di tempo.
Il Masterplan del Governo Renzi, insomma, non dovrebbe chiudersi in una manovra per il Sud ma dovrebbe creare una relazione di strumenti economici per ottenere obiettivi credibili: la riduzione degli squilibri e la scomparsa del dualismo del paese mentre l’impianto della legge di stabilità avrebbe dovuto creare la spinta della crescita per l’intera economia italiana. Far convergere Sud e Nord è un risultato che aumenterebbe la reputazione dell’Italia nei confronti dell’Unione Europea. Il Masterplan, inoltre, dovrebbe indicare una rete di infrastrutture, nei trasporti, nella comunicazione e nell’energia, che integri il Mezzogiorno al suo interno e costringa le regioni a ragionare insieme, su reti di connessione che siano utili per l’intero Sud.
Tra reti e riequilibrio del mercato domestico meridionale può essere generato un vero salto in avanti nelle transazioni per un mercato di 20 milioni di consumatori e di imprenditori. Ma il Masterplan non ha ancora una struttura assestata mentre la legge di stabilità è stata approvata dal Parlamento. L’economia italiana rimane quindi divisa come la legge dal Masterplan.
Dopo il 2014, grazie alla politica monetaria di Draghi, il cambio tra euro e dollaro si è ridimensionato. Nel Sud questa variazione ha indotto un effetto positivo su tre filiere industriali: meccanica (avionica ed auto motive) agroalimentare, moda ed abbigliamento. L’effetto genera esportazioni nette nel Sud ma anche al Nord. In particolare l’economia del Piemonte, per demografia e tipologia di industria, si affianca a quella della Campania.
Quando le due Germanie si riunirono vennero utilizzate forme di gemellaggio tra istituzioni: perché le più forti si integrassero con le più deboli. Perché, allora, non chiudere nel Masterplan anche un patto di gemellaggio tra Mezzogiorno continentale e Piemonte: considerando gli ulteriori effetti che si possono manifestare grazie alla relazione tra beni culturali e turismo nella realizzazione del patto? Un simile Masterplan, magari nella prossima legge di Stabilità, sarebbe un risultato di macroeconomia fondata su una microeconomia affidabile: un terreno sul quale far convivere una scommessa sulle riforme da fare ed una nota aggiuntiva al bilancio nazionale che possa indicare le modalità della crescita all’intero paese.
Il Ministro Padoan ragiona sulle grandezze macro: occupazione, dimensioni del debito, crescita; Renzi propone un’economia micro, dove si leggono prezzi e mercati e dove le imprese sono ciascuna attori singolari della propria crescita. Le percezioni condivise di Padoan e Renzi sarebbero una leva importante per il Masterplan: meglio guardare ad una Italia che allarga la sua economia, e ne riduce le differenze, che chiudere nella riserva indiana i meridionali.
La legge di stabilità, purtroppo, ha accusato un colpo per l’assenza del Masterplan, che avrebbe dovuto essere la risposta all’allarme della Svimez, prima dell’estate: una denuncia del degrado accumulato nell’economia meridionale, a partire dalla crisi del 2008 e della fragilità che impedisce al Sud uno scatto adeguato alla ripresa della crescita. Scatto che, dalla Toscana alle Venezie, e passando per Lombardia ed Emilia, si nota e si realizza nell’ultima parte del 2015 e ci sarà certamente nel 2016.
La legge di stabilità descrive comunque la struttura delle spese e degli investimenti che il Governo propone nel 2016: è ridotta ad un bilancio di raggio corto, dodici mesi, ed altri due anni di previsione. Si presenta quest’anno con un tratto positivo. Un bilancio espansivo, per quello che si può fare sotto la minacciosa ombra del grande debito pubblico dello Stato. Ma è anche un bilancio che cerca, ed in alcuni casi riesce, a trovare dei ganci per catturare le attese di crescita che le organizzazioni internazionali dicono essere possibili. Manca ancora, alla legge di stabilità, una forte determinazione nel taglio delle spese correnti dello Stato. Un problema serio, perché un taglio troppo modesto delle spese correnti, nonostante il taglio delle tasse proposto dal Governo, riduce lo spazio del mercato domestico italiano.
Se non si riducono le spese e, dunque non si riducono parallelamente le tasse, non ci sarà spazio per i consumi delle famiglie e per gli investimenti delle imprese. Ma proprio questa componente negativa della legge di stabilità, la piccola riduzione della spesa corrente e delle tasse, ci conferma che la manovra finanziaria in corso riguarda un orizzonte limitato ad un anno. Un orizzonte che annuncia primi elementi positivi ma non descrive, né immagina, come e con quali strumenti si debba e si possa riempire lo spazio economico dei prossimi anni. Come arrivare al 2020 con un paese più robusto e meno fragile, più coeso e meno divaricato tra ricchi e poveri.
Qui ritorna l’ostacolo del Sud rispetto al Nord.
Nel Sud vive un terzo della popolazione nazionale ma la base industriale, che nel Sud esiste e funziona, è troppo piccola rispetto alla popolazione. Lo scheletro della crescita, l’industria e la cultura industriale, non riescono a trovare la base adeguata per supportare l’insieme dei servizi privati e delle strutture pubbliche: restano fuori ampie fasce di disoccupazione, di illegalità e criminalità, che riempiono questo vuoto. Nel cuore del Nord, dalla Toscana alle Venezie, appunto,esiste una grande base industriale, esiste una struttura forte di servizi e terziario, di tecnologie e di strutture pubbliche efficienti ed, in questo caso, è proprio quello scheletro industriale supporta adeguatamente la base dell’economia e la spinge verso la crescita.
Tra il Nord ed il Sud, insomma, non esiste un divario da chiudere: non si devono solo riavvicinare queste due componenti, la base industriale e l’insieme dell’economia, tra il Nord ed il Sud esiste una tale differenza che dobbiamo chiamare dualismo, proprio perché sono due le forme sociali ed economiche che rendono diversi i comportamenti, e gli effetti, della relazione tra politica ed economia14.
Superare il dualismo, e non ridursi solo alla ricerca di strumenti per chiudere il divario, diventa, quindi, una necessità che si deve esprimere in un percorso almeno quinquennale: perché un anno non basterebbe per ottenere risultati adeguati. Servono strumenti dal passo lento ma costante per trovare un equilibrio più robusto e più coeso nel nostro paese. Uno strumento che indichi una prospettiva adeguata e che abbia la forza di una visione, che deve essere annunciata e poi perseguita sia dal Governo ma anche dalle banche e dalle imprese. Perché non è il Governo che crea la crescita ma la relazione positiva tra Governo, banche ed imprese: tra lo Stato e la Società. Bisogna avere questa visione, e perseguirla con coerenza e determinazione, per ottenere la manifestazione evidente di quanto ci aspettiamo di vedere nel 2020.
Il Masterplan e la legge di stabilità, una volta coordinati tra loro, darebbero una vera e propria visione di medio periodo che si deve immaginare e poi comunicare al paese: sapendo che non sarà il domani ma sarà un traguardo, quando lo avremo raggiunto. Non è un viaggio biblico nel deserto, ovviamente, è la strada di un paese che vuole diventare una forte regione europea e che ha sia la forza che la voglia di farlo, almeno nella gran parte della sua popolazione.
Ma la strada è in salita e bisogna davvero tracciarla.
Si può leggere sul sito web del Governo la prima bozza del Masterplan, promesso prima dell’estate. Francamente la prima impressione è la malinconia, le cose passate del buon tempo antico negli ultimi venticinque anni, dopo la crisi del 1992 e la sciagura del federalismo regionale; poi rileggendo le pagine e ti sembra deludente il contenuto dello scritto ma, in fondo, leggendolo per la terza volta ti accorgi che il documento è anche ridondante: troppo simile ai progetti bottom up della programmazione negli anni novanta. Legato ai territori ma incapace di allungare le reti di imprese in filiere che possano aggredire l’economia nazionale e quella europea. Allargandosi su aree vaste e su collegamenti che la logistica ed i servizi digitali consentono di gestire.
Ma come si potrebbe migliorare l’impianto di un masterplan di lungo periodo? Il Masterplan dovrebbe avere una strategia ed una visione: strumenti e tempo per arrivare ai traguardi. Insomma, una prospettiva per il lungo periodo15. Basta pensare ad uno dei grandi progetti di cui si sente parlare – la ferrovia Napoli Bari – della quale i massimi dirigenti, del ministero competente, dicono che si realizzerà nel 2022. Se desideriamo ridurre lo scarto tra Nord e Sud non basta la legge di stabilità ma serve anche un piano strategico.
Il secondo punto da affrontare riguarda alcune modalità, preoccupanti, che indicano una strana forma di governo: una cabina di regia, che si allarghi all’Agenzia per la coesione territoriale ma possa condividere anche le azioni del Dipartimento per le politiche di coesione, ed Invitalia. Troppo diverse nel tempo, trascorso, e nelle funzioni attribuite loro queste organizzazioni. Unificarle o farle cooperare tra loro? E se si affiancano anche Regioni e città metropolitane, ma per altre azioni di sviluppo? Non sembra una scelta felice. Mentre un riordino che semplifichi l’ingerenza degli organismi pubblici nelle scelte imprenditoriali sarebbe utile. Anche perché – questa è la terza osservazione – non si trova traccia di politiche per la relazione tra banche ed imprese, capaci di accelerare la ripresa della crescita. In cambio, quarta osservazione, servirebbero sia la Cassa Depositi e Prestiti che la Banca europea degli Investimenti, per dare forza e presenza ad un piano Junker, che avrebbe dovuto decollare entro il 2015, e del quale, invece, si parla assai poco. Peccato, perché questo piano di 300 miliardi di euro sarebbe la risposta idonea alla creazione di infrastrutture ed investimenti reali, dalla banda larga all’energia: cioè il complemento della politica fiscale rispetto alla politica monetaria non convenzionale che Draghi sta governando dalla BCE.
La quinta osservazione è preoccupante, perché ritorna nel lessico del Masterplan la singolare espressione “politica industriale”. Curioso che la sola volta che si parli di imprenditorialità si debba leggere che occorre “mettere in movimento la società civile del Mezzogiorno affinché diventi protagonista di una nuova Italia, l’Italia della legalità, della dignità del lavoro, della creatività imprenditoriale, in una parola del progresso economico e civile”.
Sarebbe meglio parlare di imprenditori, banche, ricercatori, che si colleghino alle imprese ed agiscano per garantire processi innovativi. In una parola la “politica industriale” sembra e rimane una sorta di chimera. Perché è l’impresa che crea la ricchezza, se e quando la logistica, le infrastrutture, i mercati finanziari e le banche offrono all’impresa questi pilastri sui quali poggiare le basi della propria azione.
La sesta osservazione è collegata alla precedente. Serve, invece, una politica fiscale che accompagni la capitalizzazione delle imprese e la riduzione dei costi delle imposte, delle tasse e dei cunei previdenziali. Questa politica fiscale deve avere una premessa ferma e definitiva: meno tasse e meno spessa pubblica inutile. Con strumenti vari e diversi, e comunque collegati allo spirito fiscale dell’Unione Europea, che definisce le imposte come strumenti nazionali e non come strumenti regionali o locali, bisogna creare lo spazio per allargare il nostro mercato interno: per fare posto ai consumi delle famiglie ed agli investimenti delle imprese. Questa è la strada maestra della crescita. Al sud come al nord.
Si parla molto, nel Masterplan, di fondi, europei e nazionali, di ogni genere e tipo: la soluzione del problema, che nasce dalla loro scarsa efficacia, è molto semplice ed è la settima osservazione. Il modo per supportare le imprese, al di fuori dei circuiti dei mercati finanziari e delle banche, non dipende dal quantum e dalla procedura con cui lo Stato, o le sue appendici regionali, devono attribuire questi grants alle imprese. Si devono, invece, definire le dimensioni ed il ritorno di profitto che verrà ottenuto dall’investimento realizzato. Questo esito è governato da analisti ed imprenditori ed è assai difficile che istituzioni pubbliche siano in grado di battere imprese efficienti, o di imporre alle stesse, procedure singolari ed attriti inutili. C’è un problema nei rapporti tra istituzioni pubbliche ed imprese: bisogna evitare che i progetti cadano nelle mani di chi riesce ad attirarli e farne man bassa; bisognerebbe che quei fondi arrivassero nelle mani di chi riesce ad estrarre valore dagli investimenti che realizza davvero. L’ottava osservazione è la singolare destinazione di 15 patti di programma: distribuiti tra Regioni meridionali e Città metropolitane. Speriamo che questi patti non siano identici alla eredità di quelli degli anni novanta. Che, come dicevamo, non sono stati dei capolavori. Ma teniamo presente anche che le regioni sono organi di programmazione mentre le città metropolitane dovrebbero essere organismi adeguati a servizi come i trasporti, le scuole, le reti idriche o telefoniche, ed altre infrastrutture metropolitane. Le Regioni pensano al futuro possibile etrasferiscono quelle aspirazioni a chi riesce a realizzarle. Le metropoli e gli organismi, a diretto contatto con i sistemi urbani, realizzano e gestiscono in proprio il contenuto di quei progetti. Strano fare di due erbe un fascio.
Insomma, che l’Italia sia un paese divaricato tra Nord e Sud lo sappiamo bene. Ma dobbiamo trovare una soluzione adeguata per chiudere questo dualismo ed allineare la crescita economica, nel nostro paese, alla tiepida ripresa che si è messa in moto nell’Unione Europea. Siamo circondati da tre ostacoli.
La dimensione prossima allo zero dei tassi di interesse, che genera una politica monetaria espansiva ma non riesce ad intercettare la dimensione reale del nostro problema economico: aumentare i consumi e generare nuovi investimenti, riducendo, contemporaneamente, le imposte e la spesa pubblica corrente.
La presenza ossessiva di un grande debito pubblico con il quale dovremo convivere ancora, anche dopo la eventuale ripresa della crescita. L’impennata del costo del lavoro per unità di prodotto, cioè la caduta della produttività che la recessione, avviata nel 2008, ci ha scaricato sulle spalle. Nonostante la riduzione notevole dell’occupazione.
I primi due ostacoli sono di natura finanziaria; la caduta della produttività ha effetti sull’economia reale. Ritrovare la strada della crescita diventa una strada obbligata in tre passi: rinunciare alle identità locale ed alle divergenze tra le aree economiche del paese, collegare reciprocamente le parti del paese che si ritrovano in condizioni tali da generare un insieme virtuoso, unire le forze per ottenere un risultato che superi la somma delle singole economie locali.
Cercare la crescita collegando le aree in cui l’industria, che è lo scheletro e la cultura dell’economia nazionale, potrebbe essere la soluzione per trovare una rete di collegamento che la sorregga e che la possa sostenere. Campania e Piemonte sono il test sul quale possiamo sperimentare una simile politica industriale, tornando a crescere in una dimensione reale, supportata dalla finanza bancaria, ma comunque destinata alla produzione di beni e di servizi.
Sia in Campania che in Piemonte esistono importanti filiere industriali: nell’automotive, nell’avionica, nell’agroalimentare, nell’abbigliamento e nella moda. Sia in Campania che in Piemonte si possono costruire reti di impresa che possono saldare l’industria del turismo con l’ambiente ed i beni culturali.
Le due maggiori banche italiane, Intesa ed Unicredit sono radicate in entrambe le Regioni. Inoltre, e non è certo di minore importanza, Torino e Napoli sono le due seconde metropoli italiane: due ex capitali che hanno dimensioni demografiche di poco inferiori a Roma ed a Milano. E sono dunque poli di riferimento per creare una filiera industriale e bancaria, frammentata al centro del paese, ma efficace nelle sue relazioni. Le filiere frammentate sono ormai considerate come l’innovazione della seconda ondata della globalizzazione.
Dopo la crisi del 2008 l’industria ha ripreso la sua espansione nei mercati globali: connettendosi con le tecnologie digitali, collegandosi con lo sviluppo della logistica, utilizzando i partner imprenditoriali attraversando i confini dei mercati nazionali e, nel medesimo tempo, ricevendo dai fornitori supporti innovativi, sia sui processi intermedi che nella progettazione dei beni finali da immettere sul mercato. I collegamenti tra le filiere, ancorchè frammentate, accorciano la distanza del tempo necessario mediante la digitalizzazione della comunicazione, mentre si sviluppano forme di logistica, idonee per trasportare parti dei prodotti finali, da consegnare ai mercati di arrivo rispetto alla partenza dei prodotti semilavorati dalle basi di produzione.
La base industriale e finanziaria di cui dispongono Campania e Piemonte sono, quindi, il terreno possibile di un sistema di filiere frammentate analoghe a quelle che si trovano oggi sui mercati globali. Lo sviluppo del quale potrebbe creare le premesse per una rete italiana del sistema delle filiere, che non sono solo quelle che collegano Piemonte e Campania. Unificando davvero la nostra economia nazionale: facendola diventare un attore importante e rilevante dell’Unione Europea, come merita di essere16.
Le banche del territorio, nella parte forte dell’economia italiana, accusano perdite e malversazioni mentre nel Sud manca una dimensione adeguata dell’economia: e trionfa la disoccupazione mentre banche e finanza non riescono a produrre crescita. L’Italia di mezzo (Toscana, Emilia e Venezie) con le quattro banche medie in crisi, con una dimensione media delle città in queste regioni, e con la dimensione media delle imprese in quei territori, che sono cresciute vertiginosamente dagli anni Ottanta per arenarsi, senza però subire danni economici e sociali – come accadeva nel Sud che era già e comunque una economia più fragile – rappresenta adeguatamente la frantumazione italiana negli ultimi venti anni. Complice un velleitario regionalismo, ed una supposta “questione settentrionale” – da contrapporre ai lamenti residuali ed incongruenti di quella che era stata la questione del Nuovo Meridionalismo, fino agli anni Settanta, degradata dalla catastrofe amministrativa e politica delle leggi sul terremoto dell’Ottanta e dalla scomparsa dei partiti dal 1992 – il nostro paese si ritrova diviso in tre parti: Il nord ovest e la Lombardia; le tre regioni mediane; la capitale che cerca di evitare il Mezzogiorno e lo lascia abbandonato, complice la capitale desertificata del Mezzogiorno, Napoli.
Le vicende delle quattro banche di questa terra di mezzo (dalla Toscana alle Venezie) sono da leggere in due dimensioni. Se guardiamo alla natura media delle banche e delle imprese, ma anche a quella delle città di queste regioni, e se guardiamo ai livelli di reddito, dobbiamo riconoscere che l’assenza di città metropolitane e l’esistenza di un benessere diffuso sui territori, ha creato un’isola felice. Come accade in queste circostanze, tuttavia, il processo di trasferimento del risparmio dalle famiglie alle imprese sembra essersi incagliato, in termini significativi, garantendo risorse alle imprese ed alla popolazione ed accumulando perdite significative nelle quattro banche in questione. Perdono coloro che erano, anche a volte senza averne cognizione di causa, proprietari di quelle banche ed hanno dovuto sopportare il ripianamento delle perdite accusate. Si legge nei quotidiani che in quelle banche, nonostante le pressioni della banca centrale, sia il modo di sviluppare il credito che la capacità organizzativa, o la competenza delle risorse umane direzionali, non fossero troppo adeguate. Nelle facoltà di legge degli Stati Uniti si insegna che, in questi casi, ci sono due alternative: l’effetto Titanic e la tempesta perfetta17. Il primo, essendo la conseguenza degli errori umani, sembra essere il caso delle quattro banche in questione18. A questa percezione microeconomica, che guarda le strutture ed i comportamenti che si sono sviluppati, si è affiancato, purtroppo, un problema di recessione dopo il 2009 e fino al 2014. Una lunga pausa recessiva che ha cumulato la impossibilità di offrire credito per sviluppare la crescita delle imprese. Questo danno italiano, ed europeo, ha condizionato anche il nord Ovest ed il Sud. Ma il primo aveva imprese grandi da rinnovare nelle tecnologie e nelle strategie, il secondo aveva perso colpi dagli anni Ottanta ed aveva poche imprese – alcune anche capaci di crescere – ma troppa popolazione rispetto alla base economica e molta disoccupazione. Senza contare un basso reddito pro capite ed una conseguente area di lavoro nero e precario. Molti giovani, infatti, sono emigrati per cercare un futuro adeguato. Molte imprese, dopo la caduta del cambio dell’euro, hanno ripreso vigore esportando.
Ma non basta a dare al Sud una finanza adeguata per la crescita. Perché mancano gli orizzonti unitari di una politica economica nazionale capace di rimettere insieme le tre Italie: il Nord Ovest. Il Sud e l’Italia di mezzo. Senza una dimensione nazionale, molto coesa al suo interno, le banche, le imprese ed i lavoratori italiani, con le loro famiglie, avranno una vita magra nei prossimi anni. L’Italia può, e deve, essere una grande regione economica dell’Europa ma i rischi geopolitici, che aumentano oggi l’incertezza dell’ambiente economico, procurano danni notevoli. Il peggiore dei quali sarebbe l’illusione di accodare l’Italia di mezzo al nucleo forte della Germania e dei suoi satelliti principali. La partita si deve giocare, invece, unificando il Nord Ovest ed il Sud, le regioni dove esistono grandi aree metropolitane da riordinare e mettere in campo. Non ci sono né i tempi né gli spazi per tenere diviso il paese: che può crescere solo lasciandosi alle spalle le piccole patrie, evitando effetti Titanic e riconoscersi, almeno in una, delle grandi forze nell’Unione Europea.

















NOTE
1 Si veda IMF, Subdued Demand, Diminished Prospect, January 19, 2016. Il testo si può scaricare at http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2016/update/01/pdf/0116.pdf.^
2 Si veda la dichiarazione introduttiva, successiva alla riunione del Consiglio Direttivo della BCE, di Mario Draghi, Presidente della BCE, e di Vítor Constâncio, Vicepresidente della BCE, Francoforte sul Meno, 21 gennaio 2016. Il testo si può scaricare at https://www.ecb.europa.
eu/press/pressconf/2016/html/is160121.it.html.^
3 Si veda “World Economic Outlook, Adjusting to Lower Commodity Prices”, October 2015, che si può scaricare at http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2015/02/text.pdf.^
4 Riportiamo di seguito i testi proposti da Mario Draghi prima e dopo le sue dichiarazioni del 21 gennaio 2016. Nella prima metà del 2015 viene proposto un tema di politica economica innovativo, che è ovviamente una conseguenza della politica monetaria non convenzionale che la BCE ha posto in essere. Si tratta della terna necessaria di supporto a quella politica: le riforme strutturali, una politica fiscale dei Governi europei che sia adeguata al ritorno della stabilità finanziaria ma che non si traduca in una misura deflattiva che penalizzi la domanda effettiva dei singoli mercati nazionali, l’esigenza di un trait d’union tra la crescita ed il ridimensionamento della disoccupazione, in Europa ma anche nel rapporto tra USA ed UE, dove la ripresa della crescita ed il ridimensionamento dell’occupazione si stanno muovendo in favore dell’economia americana e non di quella europea. I due discorsi di Draghi, in questo caso, sono “Le recenti misure di politica monetaria della BCE: efficacia e sfide”, Camdessus Lecture di Mario Draghi, Presidente della BCE, FMI, Washington D.C., 14 maggio 2015 che si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp150514.it.html e “Riforme strutturali, inflazione e politica monetaria”, Intervento introduttivo di Mario Draghi, Presidente della BCE, in occasione dell’ECB Forum on Central Banking, Sintra, 22 maggio 2015, che si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp150522.it.html. Nella seconda metà del 2015 Draghi allarga questa ricognizione delle possibili nuove forme della politica economica con il “Discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico all’Università Cattolica del Sacro Cuore”. Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 5 novembre 2015, che si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp151105.it.html. Sempre nel mese di novembre viene proposto “Politica monetaria: passato, presente e futuro”, Intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, in occasione del Congresso bancario europeo a Francoforte sul Meno, il 20 novembre 2015. Che si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp151120.it.html. Ed ancora “Inflazione globale e inflazione interna”, Intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, Economic Club di New York, 4 dicembre 2015, che si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp151204.it.html. ed infine “Politica Monetaria e Riforme Strutturali nell’area dell’euro”Intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, Prometeia40, Bologna, 14 dicembre 2015 che si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp151214.it.html. Naturalmente ai primi di gennaio si è tenuta la dichiarazione introduttiva, successiva alla riunione del Consiglio Direttivo della BCE, di Mario Draghi, Presidente della BCE, e di Vítor Constâncio, Vicepresidente della BCE e la conferenza per la stampa internazionale Francoforte sul Meno, 3 dicembre 2015. Anche questo testo si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2015/html/is151203.it.html.^
5 Si veda “Le recenti misure di politica monetaria della BCE: efficacia e sfide” Camdessus Lecture di Mario Draghi, Presidente della BCE, FMI, Washington D.C., 14 maggio 2015.^
6 Si vedano anche le slides presentate da Benoît Coeuré, Member of the Executive Board of the European Central Bank, The monetary policy of the ECB Mexico City, 27 October 2015 che si possono scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp151027_slides.en.pdf?4854fa6ac26b4388f7d5086fc9b0b1c9.^
7 Si veda “Politica monetaria: passato, presente e futuro” Intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, in occasione del Congresso bancario europeo Francoforte sul Meno, 20 novembre 2015.^
8 Si veda, ancora,“Politica monetaria: passato, presente e futuro” Intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, in occasione del Congresso bancario europeo Francoforte sul Meno, 20 novembre 2015.^
9 Si veda “Come la solidità economica interna può prevalere sulla debolezza mondiale”. Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, al ricevimento organizzato da Deutsche Börse Group in occasione del nuovo anno, Eschborn, 25 gennaio 2016. Il testo si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp160125_1.it.html.^
10 Si veda, ancora, “Come la solidità economica interna può prevalere sulla debolezza mondiale”. Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, al ricevimento organizzato da Deutsche Börse Group in occasione del nuovo anno, Eschborn, 25 gennaio 2016.^
11 Si veda James Tobin, Moneta, crescita e scelte di portafoglio, edizione italiana Il Mulino, Bologna 1989; in particolare il capitolo 9, “A General Equilibrium Approach to Monetary Theory”, anche in Journal of money, credit and banking, volume 1, febbraio 1969, ed anche nel volume Il dibattito sulla Moneta, a cura di G.Bellone, il Mulino, Bologna 1972^
12 Si veda, ancora, “Come la solidità economica interna può prevalere sulla debolezza mondiale”. Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, al ricevimento organizzato da Deutsche Börse Group in occasione del nuovo anno, Eschborn, 25 gennaio 2016.^
13 Si vedano BCE, Bollettino Economico, numero 5 / 2015, che si può scaricare at https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/bollettino-eco-bce/2015/bol-eco-5-2015/bolleco-bce-05-15.pdf; la Conferenza stampa di anticipazione del Rapporto SVIMEZ 2015 Roma, 30 luglio 2015, Intervento e slide di Riccardo Padovani, Direttore della SVIMEZ, che si può scaricare at h t t p : / / w w w. s v i m e z . i n f o / i m a g e s / R A P P O RT O / m a t e r i a l i 2 0 1 5 / 2 0 1 5 _ 0 7_30_anticipazioni_padovani.pdf. Ma si vedano anche i seguenti articoli: Ernesto Galli della Loggia, Le parole sul Sud che nessuno dice, serve una rottura, Corriere della Sera, 9 agosto 2015-08-10, che si può scaricare at http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_09/parole-sudche-nessuno-dice-serve-rottura-a22c41f4-3e5d-11e5-9ebf-dac2328c7227.shtml; Alberto Quadrio Curzio, Investimenti, questione di qualità non di quantità, Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2015, che si può scaricare at http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-08-08/investimenti-questione-qualita-non-quantita-095702.shtml?uuid=ACcuYxe.^
14 Un volume molto interessante propone una biografia di Pasquale Saraceno, un meridionalista accanito che ha, comunque e sempre, considerato l’Italia come una economia da integrare e condurre dalle macerie della seconda guerra mondiale alla industrializzazione ed allo sviluppo. Si tratta di A. Angelo Persico, Pasquale Saraceno, un progetto per l’Italia, Rubbettino Editore, 2013.^
15 Si veda Masterplan per il Mezzogiorno, linee guida, si può scaricare at http://www.governo.it/GovernoInforma/documenti/masterplan_mezzogiorno.pdf.^
16 Si vedano Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers) “Le imprese italiane tra crisi e nuova globalizzazione” di Antonio Accetturo, Anna Giunta e Salvatore Rossi, si può scaricare at https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2011-0086/QEF_86.pdf.^
17 Si veda 2004 Nancy B. Rapoport, Enron, Titanic, and the Perfect Storm, University of Nevada, Las Vegas - William S. Boyd School of Law. Si può scaricare at http://scholars.law.unlv.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1159&context=facpub.^
18 Si vedano Camera dei Deputati, Sesta Commissione Finanze, Indagine conoscitiva sul sistema bancario italiano. Roma, 9 dicembre 2015, Audizione di Carmelo Barbagallo, Capo del Dipartimento Vigilanza Bancaria e Finanziaria, Banca d’Italia, si può scaricare at https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-vari/int-var-2015/Barbagallo-09122015.pdfed anche Banca d’Italia, Rapporto sulla stabilità finanziaria, Numero 2 / 2015 Novembre, che si può scaricare at https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/rapporto-stabilita/2015-2/RSF2-2015.pdf.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft