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La svolta consapevole1
Mario Draghi ha ribaltato clamorosamente il pronostico diffuso in occasione della riunione del Comitato Direttivo della BCE il 10 marzo. Aveva giù annunciato, nella riunione precedente del Consiglio Direttivo della BCE il 21 gennaio del 2016 che era necessario avere una conferma attendibile della dinamica economica europea ed internazionale. Sulla base dei dati prodotti dagli analisti della BCE e con il consenso del Consiglio Direttivo, Draghi ha spiazzato in due mosse la tendenza che, nei giorni precedenti alla scadenza proponeva una singolare comunicazione economica all’opinione pubblica internazionale: ormai gli Stati Uniti hanno ripreso una crescita, tenue, che si accompagna anche alla ripresa dell’occupazione; dunque si deve immaginare che anche l’Europa debba ora rialzare i tassi di interesse, rinunciando ai tassi di interesse negativi che hanno accompagnato la politica monetaria del vecchio continente fino ad oggi.
D’altra parte, in un contesto come quello dell’economia americana, che aveva anticipato la fine della recessione e la ripresa dello sviluppo della crescita e dell’occupazione si poteva certamente indicare che la crescita genera inflazione, che attenua il debito, ed impone un rimbalzo dei tassi di interesse per avere sia vantaggi sul rendimento degli investimenti reali che un rendimento degli investimenti finanziari, per supportare lo sviluppo di flussi di economia reale. In questi casi, se la manovra riesce avviene anche una sorta di ridimensionamento dell’eccesso di finanza rispetto alla capacità di creare investimenti reali grazie alle tecnologie ed alla ricerca applicata. Ma Draghi ha smontato l’idea che l’Europa dovesse seguire passivamente gli Stati Uniti. In prima battuta aveva annunciato, il 21 gennaio 2016, che l’orizzonte era cambiato: le economie emergenti ripiegavano su se stesse, ma «la nostra sfida principale, come Unione, consiste nel fare in modo che la solidità interna prevalga sulla debolezza mondiale. La nostra capacità di influire sull’economia globale è limitata. Tuttavia, possiamo incidere su quanto avviene nell’area dell’euro» conferma Draghi il 26 gennaio
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Ma è proprio in seconda battuta, e non in una conferenza ma nella formalità delle opzioni di politica monetaria approvate dal Comitato Direttivo della BCE il 10 marzo 2016, che Draghi ha formalizzato l’annuncio di una irrisoria inflazione, rispetto alle attese di una crescita, che avrebbe dovuto ma non è riuscita ad esprimersi. Il 4 febbraio Draghi collega l’esigenza di ridurre la incertezza, che si allarga combinando la divaricazione tra economie emergenti ed economia europea, con una singolare descrizione della piega deflattiva, la riduzione dei prezzi, che si presenta in Europa.
L’integrazione monetaria nell’area dell’euro è al tempo stesso completa e sicura. Tuttavia, la politica monetaria è posta di fronte a numerose sfide ... per comprendere come abbiamo affrontato queste sfide, è utile dividerle in due categorie. La prima include le sfide comuni a tutte le banche centrali delle economie avanzate, che sono connesse al contesto di bassa inflazione a livello internazionale. La seconda è rappresentata da quelle specifiche dell’area dell’euro, che sono collegate al nostro particolare contesto istituzionale3.
Il palcoscenico, in questo modo – cioè un annuncio sulla esigenza di avere dati fondati per definire la struttura della politica monetaria, ed una comunicazione, non formale ma analitica e fondata sulla reputazione stessa di Mario Draghi – è pronto per la rappresentazione del 10 di marzo. Dal gennaio ad oggi, insomma, Draghi ha progressivamente valutato i segnali che gli offrivano i suoi collaboratori della Banca Centrale. Una volta diradata, per quanto possibile, l’incertezza – che non è solo il frutto delle economie divergenti tra loro ma anche della geopolitica che allarga la sua aggressività tra le nazioni alla scala mondiale – ha annunciato che la vera minaccia europea è una inflazione troppo flebile, che potrebbe davvero compromettere la crescita. Con una svolta radicale ha comunicato esattamente il contrario di un rialzo dei tassi di interesse. I tassi vanno a zero ed anche sotto lo zero: le banche che lasceranno i depositi presso la banca centrale pagheranno un tasso dello 0,4% invece di ricevere un premio sul deposito. La BCE, inoltre, apre una ulteriore ondata di liquidità in tre direzioni: gli acquisti dei titoli dalle banche passano ad 80 miliardi di euro al mese; la BCE potrà acquistare titoli collegati allo sviluppo dell’economia reale, anche senza la mediazione delle banche; infine ci saranno ulteriori trasferimenti di fondi finalizzati per quattro anni e sostenuti dalla BCE e gestiti dalle banche europee . Ancora una volta il presidente della BCE promette nei tempi annunciati forme di politica monetaria non convenzionale, che ribaltano la percezione diffusa delle logiche convenzionali. L’Unione Europea diventa in questo modo un grande laboratorio che deve scoraggiare la deflazione e supportare la crescita reale della sua economia
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C’è una ultima dimensione di cui la politica monetaria della BCE deve tenere conto. Draghi la espone proprio in relazione ad una ulteriore forma di comunicazione, rispetto alla relazione tra economia e banche centrali: si tratta di due sfide specifiche, la trasmissione e l’espansione dei fenomeni monetari tra la banca centrale e le banche commerciali, od altre istituzioni finanziarie. Sul primo tema Draghi afferma che
La nostra sfida specifica nasce dall’avere un mercato bancario e dei capitali incompleto, il che porta a una minore ripartizione dei rischi. Rispetto a un mercato pienamente integrato, i portafogli di attività private nell’area dell’euro presentano una minore diversificazione geografica e questo concentra l’effetto di congiunture negative locali. I mercati del credito sono meno integrati ed è pertanto più difficile per gli operatori mutuare fondi altrove nell’Unione per attutire tali shock. In aggiunta le istituzioni per la ripartizione del rischio sovrano tra paesi sono meno sviluppate e questo colloca l’intero onere della gestione degli effetti sui singoli Stati. Questo ha due conseguenze per la trasmissione della politica monetaria. In primo luogo comporta che alcuni dei principali canali di trasmissione, specificamente il canale dei prestiti bancari e quello del bilancio, sono più facilmente soggetti a turbative in caso di shock importanti. In secondo luogo, poiché il rischio privato e il rischio sovrano sono collegati a livello nazionale, la frammentazione finanziaria avviene lungo i confini nazionali. Ciò intralcia l’efficacia della politica monetaria nelle regioni dove la sua azione di stimolo è più necessaria.
Sul secondo tema:
La seconda sfida specifica che abbiamo affrontato nell’area dell’euro si è presentata quando è stato necessario espandere il nostro orientamento monetario e più specificamente quando siamo passati dai tassi di interesse agli acquisti di attività tramite il PAA (Programma ampliato di acquisto di attività finanziarie) come strumento principale di politica monetaria. In parte, gli acquisti su larga scala di attività finanziarie sono intesi a ridurre il tasso privo di rischio eliminando il rischio di duration dal mercato delle obbligazioni sovrane. Nell’area dell’euro, tuttavia, non abbiamo un unico tasso privo di rischio in quanto non vi è un unico emittente sovrano che funge da benchmark. Né esiste un mercato nazionale in grado di fungere da sostituto, non solo a causa dei vincoli di volume ma anche perché nessun titolo pubblico nell’area dell’euro è realmente privo di rischio. Il divieto di finanziamento monetario comporta che tutte le obbligazioni sovrane presentano una componente di rischio di credito.
La descrizione di Draghi si conclude in questi termini:
Tuttavia non vi è alcun dubbio che, se avessimo bisogno di adottare una politica più espansiva, il rischio di effetti collaterali non intralcerebbe il nostro cammino. Puntiamo sempre a limitare le distorsioni causate dalla nostra politica, ma ciò che viene prima di tutto è l’obiettivo di stabilità dei prezzi. Questa è l’implicazione del principio di predominanza monetaria, che è sancito nel Trattato e che conferisce credibilità alla politica monetaria.
La predominanza monetaria significa che possiamo, e di fatto dovremmo, riconoscere e mettere in evidenza tutte le conseguenze, desiderate o indesiderate, delle nostre operazioni di politica monetaria. Vuol dire anche, tuttavia, che non dovremmo mai mancare di adempiere al nostro mandato solo per via di queste conseguenze. Questo equivarrebbe a ridefinire il mandato conferitoci per legge, cosa che non abbiamo facoltà di fare5.
Il contrasto tra inflazione e banche centrali si affianca, in questa seconda prospettiva, ai modi con i quali le banche centrali, in particolare la BCE di Mario Draghi, sviluppano effettivamente una politica monetaria non convenzionale.
Se i Governi, dal 2011 ad oggi, avessero avuto la forza e la volontà di agire sulla politica fiscale, riducendo le tasse e riducendo la spesa corrente, per sviluppare strumenti per allargare gli investimenti delle imprese ed i consumi per le famiglie, non ci sarebbe stata questa singolare asimmetria tra una politica monetaria, robusta e convincente, ed una fiscalità portatrice di forze recessive. Se i Governi avessero adeguato le riforme del lavoro e dei mercati, verso una semplificazione ed una riduzione della invasività delle corporazioni e dei tortuosi percorsi amministrativi, la spinta della politica monetaria avrebbe certamente allargato la dimensione della crescita e non subito il peso della recessione. Questo collegamento tra politiche di bilancio e politica monetaria, rimane comunque il canale principale della crescita. Anche se rimane ancora uno scarto tra l’impegno ed i risultati della politica monetaria della Bce e la variegata gamma di ipotesi sulle politiche fiscali, alimentata dalla differenza tra le opinioni dei Governi e dei parlamenti europei e la incapacità di avviare visioni strategiche che supportino i risultati della politica fiscale. Che fine ha fatto il piano Junker? Viene voglia di dire. Ma è proprio la distanza tra i singoli Governi e la Commissione che forma questo scarto di livelli che impedisce una efficace politica economica: che dovrebbe camminare sulle due gambe della politica fiscale e di quella monetaria lungo linee parallele e non secondo scarti e scollamenti reciproci.
Il 14 dicembre del 2015 Draghi propone quali debbano essere i temi della politica fiscale e delle riforme strutturali nel contesto di una politica economica che possa essere articolata su due dimensioni, quella monetaria non convenzionale e quella fiscale:
Mi soffermerò su due punti in particolare. In primo luogo, le riforme strutturali sono chiaramente parte essenziale della questione. Al di là della domanda corrente, gli investimenti dipendono largamente dalla fiducia delle imprese sulle prospettive future: su quanto possano essere favorevoli le condizioni in cui esse svolgono la loro attività a livello micro, sulla crescita futura a livello macro. Se gli ostacoli posti all’attività di impresa sono significativi o se sussiste troppa incertezza sulle prospettive di crescita, gli investimenti saranno inferiori a quanto potrebbero essere altrimenti. Per questo sono importanti le riforme strutturali. Riducendo gli oneri burocratici e amministrativi, queste diminuiscono i costi di avvio di nuove attività e accrescono di conseguenza il rendimento effettivo degli investimenti. Incentivando una partecipazione maggiore del lavoro e elevando la produttività , le riforme migliorano le aspettative di domanda e incoraggiano le imprese nelle decisioni di investire oggi. L’investimento, in fondo, è una scommessa nel futuro.
Ed aggiunge una ulteriore e puntuale descrizione delle riforme strutturali: In secondo luogo, nell’ambito delle riforme strutturali occorre rivolgere un’attenzione particolare alle misure che portano a una riduzione dell’eccesso di indebitamento. Certamente, importanti passi sono stati compiuti nel settore bancario con la creazione del meccanismo di sorveglianza unico, e come parte integrante di questo, con l’esercizio di valutazione approfondita e con la conseguente rilevante ricapitalizzazione del settore. Ciò ha altresì favorito il ripristino della piena funzionalità del credito bancario e del meccanismo di trasmissione della politica monetaria. È peraltro evidente che in alcuni paesi l’elevato stock di prestiti deteriorati ancora ostacola una piena ripresa del credito. Consistenze elevate di prestiti deteriorati comprimono l’offerta di credito per varie ragioni: assorbono risorse e capacità operativa, immobilizzano il capitale bancario in impieghi improduttivi e riducono la redditività delle banche, gravando sulla loro capacità di generare capitale internamente. Questi effetti colpiscono in misura più accentuata le imprese minori, che sono più dipendenti dal credito bancario. Inoltre, la lentezza nel riassorbimento dei prestiti deteriorati impedisce il necessario processo di ristrutturazione nel settore delle imprese nel corso del quale le imprese sane riducono il loro debito e riprendono a investire mentre le altre escono dal mercato. Creare le condizioni per un rapido smaltimento dei prestiti deteriorati deve essere parte delle misure di politica economica volte a ripristinare condizioni favorevoli all’accumulazione. Ogni paese ha la propria lista di azioni da compiere per accelerare questo processo. Ritardi su questo fronte costituiscono un serio freno alla crescita. In particolare, una ben disegnata disciplina normativa sull’insolvenza è essenziale per distinguere i debitori solvibili dagli altri e per agevolare la valutazione delle attività da liquidare. Un efficiente sistema della giustizia è anch’esso di importanza fondamentale. Analisi condotte dallo staff della BCE mostrano che la velocità di riduzione dell’indebitamento è ben maggiore nei paesi che dispongono di un apparato giudiziario efficace
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2.
Un passo indietro per capire le dinamiche ed i problemi degli anni alle nostre
spalle
Siamo lontani dalla crisi del 2008. Ma siamo anche consapevoli del fatto che nella Europa dell’euro – al contrario dei paesi che si trovano nell’Unione Europea e ne condividono i vantaggi di un grande mercato e la opzione di poter svolgere scambi monetari tra monete nazionali ed euro nell’insieme del mercato e nelle relazioni con altri paesi limitrofi ai margini ed al contorno della Unione Europea – stiano crescendo economie molto più lente, se non addirittura recessive in alcune delle regioni deboli delle singole nazioni dell’area euro, delle economie emergenti e di quelle in via di sviluppo, ma anche di quelle avanzate. l’Europa dell’Euro è fragile per un eccesso di divergenza nei comportamenti delle singole nazioni.
Questa fragilità è emersa platealmente nella crisi greca esplodendo in un conflitto tra la Grecia e gli organi di Governo, ridondanti, dell’Europa stessa e del Fondo Monetario Internazionale.
La nazione dall’economia più fragile, la Grecia, anche per ragioni tutte interne alla sua storia economica e politica, non è riuscita a reggere la convivenza con l’area euro e, di conseguenza, si era avventurata verso una improbabile divorzio dal resto dell’Europa. Che si sarebbe potuto esprimere anche in una soluzione nella quale entrambe potevano perdere: la Grecia e l’area Euro. Gli sforzi in atto per evitare questo doppio danno erano fortunatamente nelle mani forti di persone adeguate: il Governo Greco in carica, la Commissione Europea, la BCE ed il Fondo Monetario Internazionale.
Bisogna rendere efficace un Governo dell’Europa: scrivevano Zingales e Quadrio Curzio su il Sole 24 ore, nel 2015, con un titolo che legava le loro opinioni: “Stati (poco) Uniti d’Europaâ€
7. Zingales sollecitava la necessità di far convivere meglio la democrazia ed i mercati finanziari: una condizione oggettiva di stabilità . Quadrio Curzio avanzava l’ipotesi che si possano trasferire risorse umane, di grande caratura, dalla dimensione della capacità tecnica a quella dell’arte della politica. Una dimensione soggettiva, un rinnovamento delle risorse umane e non delle regole reciproche tra finanza e democrazia: uno scambio tra i tecnici del mercato e della moneta con quelli che governano le politiche e le aspettative delle nazioni. A prima vista si pensa subito alla terza stagione di Luigi Einaudi, che seguì quella dell’economista, del giornalismo di opinione e poi della politica. Ma questa analogia non corrisponde alle vicende di oggi: ora si deve accelerare la trasformazione dell’insieme delle istituzioni che reggono l’Unione Europea con una istituzione che possa essere considerata come un soggetto pienamente politico. Un primo percorso lungo di questa strada lo abbiamo praticato con un certo successo dal 2011: da quando Mario Draghi ha sostituito il presidente Trichet alla BCE
8. Nel 2012 Draghi (con Herman Van Rompuy, Presidente del Consiglio d’Europa, e con José Manuel Barroso, Presidente della Commissione, e Jean-Claude Juncker, Presidente dell’Eurogruppo) hanno presentato un robusto documento programmatico “Verso una unione economica e monetaria effettiva ed efficaceâ€. Si tratta di un testo che spinge ad una maggiore integrazione tra moneta e banche ed anticipa gli strumenti di un mercato finanziario per l’Europa. Perché possano essere intensificate le relazioni tra economia e politica
9. Sulla falsariga di quel documento, e dei cambiamenti manifestati dopo il 2012, ci siamo trovati di fronte ad un altro documento, più articolato e con un calendario definito: “Completare L’Unione economica e monetaria dell’Europaâ€. Si tratta di una relazione di Jean-Claude Juncker, in stretta collaborazione con Donald Tusk, JeroenDijsselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz. Un piano che offre due traguardi, quasi due tappe, di lungo periodo: il 2017 – per ottenere l’assestamento degli obiettivi che includono anche le politiche di bilancio e le politiche delle infrastrutture – ed il 2025. Nel 2017, in analogia al Libro Bianco – con cui Delors rilanciò il progetto Europeo – dovrebbe essere pubblicato un ultimo volume, per definire gli assetti dell’Unione economica e monetaria nel 2025
10. Questo ambizioso progetto offre, nell’articolo di Quadrio Curzio, l’ipotesi di scambiare la capacità tecnica dell’analisi con l’arte della politica:«Si direbbe che dove c’è un ruolo diretto di Mario Draghi, si accelera. Per questo dovrebbe diventare Presidente di una Eurozona politica forte». Ma, personalmente, non credo sia questa una soluzione adeguata ai problemi europei, allo squilibrio che democrazia e mercati, finanziari o reali che siano, presentano nel vecchio continente. La forza di una prospettiva si misura sulla qualità , ed il comportamento, degli individui che devono intervenire nei processi di cambiamento. Le qualità della politica e quelle della capacità analitica di costruire e gestire organizzazioni sono molto diverse tra loro.
Un uomo politico progetta ed offre visioni ma propone anche aspettative condivise con larga parte della popolazione, che intende guidare, creando una maggioranza che lo sostenga e lo porti alla realizzazione materiale della sua visione.
Alla dimensione della politica si contrappone la capacità analitica ed il governo delle grandi organizzazioni. Anche la burocrazia deve essere governata con una tecnica analitica e non dall’arte della politica. La sostenibilità della democrazia dovrebbe assestarsi sulla convivenza della visione di uomini di Stato che possano prefigurare il futuro e la capacità che lo costruisce, con gli strumenti delle organizzazioni e dello scambio. La visione viene dalla politica, le riforme, se ci sono, rappresentano l’effetto del cambiamento grazie alla capacità di fare. Se la politica riesce a convivere, con quella capacità , si realizzano le riforme ma se la politica accusa una deficienza, che la ridimensiona rispetto alla tecnica dei processi di cambiamento, si manifestano due danni rilevanti: il fallimento delle visioni annunciate allontana gli elettori dalla politica partecipata; la qualità della democrazia si restringe alla dimensione della miopia e delle opportunità contingenti. Meno elettori e molti appetiti sul confine tra amministrazione e servizi, che si collegano con l’amministrazione: in una dimensione oligopolistica ed opportunistica.
La democrazia italiana subì nel 1992 una prima regressione della politica e dei partiti politici.
Ma ha anche sperimentato, nel 2011, lo scambio tra la tecnica e la politica: con Monti e Berlusconi, e successivamente, all’inverso, tra Monti, Letta e Renzi. Priva di fondamenti elettorali, cioè di consenso ed adesione alle visioni, la democrazia italiana oggi affanna e l’elettorato si ritira come le maree dell’Atlantico. Meglio la cooperazione tra arte della politica e capacità di fare – come si è visto dall’accelerazione che Draghi ha offerto all’Europa – che lo scambio dei ruoli. Certamente la qualità della politica, in Italia come in Europa, è scivolata sotto una media poco affidabile. Servirebbe una nuova generazione di attori sulla scena politica ma anche un ritorno convinto di molti elettori che tornino nelle urne a dire la loro. Serve nuova linfa per una politica ormai molto gracile e priva di forza: in Grecia, in Italia ed anche in Europa.
Nel 2014, l’economia mondiale ha generato un forte impatto sull’area dell’euro: una crescita disomogenea nelle diverse regioni del mondo; una perdurante debolezza del commercio internazionale; un calo del prezzo del petrolio e di altre materie prime; un indebolimento del tasso di cambio tra euro e dollaro
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La dinamica della crescita mondiale ha mantenuto ritmi moderati nel 2014, in un contesto di divergenza tra le aree del mondo ed all’interno delle stesse. Si affacciano anche rischi, di natura geopolitica, legati ai conflitti tra Ucraina e Russia e nei paesi produttori di petrolio ma il loro impatto diretto rimane contenuto. In Italia si sono manifestati segnali congiunturali favorevoli ma non si è ancora riavviato il ciclo economico e, con esso, la ripresa della crescita.
Nei primi mesi dell’anno l’industria presentava un andamento ancora incerto ma sembrava anche emergere un miglioramento nelle opinioni delle famiglie e delle imprese. Per uscire davvero dalla recessione l’Italia avrebbe dovuto mettere in campo sia misure dal lato della domanda che dal lato dell’offerta. Anche perché sembrava che un possibile percorso espansivo sarebbe stato alimentato da una ripresa della domanda interna e dalla opzione di un consolidamento della domanda estera, anche grazie al regime dei tassi di cambio che avevano ridimensionato l’euro. Ma, per poter sostenere la crescita, aumentare l’occupazione ed alimentare il prodotto potenziale, che non riesce ancora ad esprimersi, dal lato dell’offerta servirebbero riforme: cioè il miglioramento delle norme e delle condizioni per investire.
Che a loro volta generano l’opportunità di finanziare i progetti sui quali si concentrano gli investimenti e gli sforzi imprenditoriali.
Nel rapporto annuale del 2014, presentato dalla BCE, si legge che «l’attuazione delle raccomandazioni specifiche (delle riforme) per paese si è confermata piuttosto deludente […] Nessuno dei paesi dell’area ha pienamente applicato alcuna delle raccomandazioni del 2014 […] Occorre soprattutto un’azione risoluta nei paesi dell’area dell’euro in cui la Commissione europea nel febbraio 2015 ha segnalato la presenza di squilibri eccessivi (Francia, Italia e Portogallo) e negli altri paesi dell’area oggetto di un monitoraggio specifico nel 2014 da parte della Commissione (Spagna, Irlanda e Slovenia)»
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Ma quali sono le ragioni che hanno condotto in questa dimensione residuale l’Italia nel contesto dell’area euro rispetto all’economia mondiale? Ci sono due modi per leggere la dimensione dei problemi italiani: guardare gli attori del mercato (le imprese, i lavoratori e le banche) e guardare la relazione tra il Governo, il Parlamento e l’apparato pubblico.
Lo Stato ed il Mercato si fronteggiano ma non si legano né si pongono in relazione reciproca. Questo è il primo dato negativo che corrompe la possibilità di una ripresa della crescita dopo una lunga stagnazione. D’altra parte la mancata relazione tra la dimensione della politica e quella dell’economia ha generato una implosione negli anni più recenti.
La concertazione, che sembrava tenere in piedi il sistema attraverso la conversazione tra associazioni datoriali e Governo, dopo la comparsa di Renzi sulla scena del Governo, ha mostrato interamente la propria fragilità : sotto il vestito, dell’associazionismo, abbiamo scoperto che per alimentare la crescita economica c’è davvero troppo poco, quasi niente, per dare sostanza e corpo ad uno sforzo collettivo. La fragilità dell’associazionismo deprime sia la qualità che i contenuti di potenziali progetti industriali: lo sviluppo degli investimenti si arresta, il finanziamento, eventuale, di quei progetti rimane sterile. Anche perché le banche hanno un grande problema di sofferenze e di crediti non performanti. Ma, irrigidita dagli incagli che sopportano le banche, ferma la leva del credito, ed anestetizzata la progettazione degli investimenti, la crescita appare davvero come un traguardo ancora troppo difficile da conseguire nel trapasso tra il 2014 ed il 2015. Una sorta di vortice accentua la concentrazione delle azioni da realizzare, imputandole tutte al Presidente del Consiglio: diradando progressivamente la complessità e l’articolazione del Governo da lui diretto in termini abbastanza monocratici e centralizzati. Se si osserva la relazione tra Consiglio dei Ministri e Parlamento si nota subito che, da una parte si addensa il nocciolo duro della presidenza del Consiglio, dall’altra si frantuma la maggioranza parlamentare e si definiscono, componendosi e scomponendosi in maniera singolare, sistemi di riferimento tra quote della maggioranza e quote delle opposizioni, piuttosto che coagularsi programmi, diversificati ma convergenti, nella sfera della maggioranza parlamentare ed in quella della opposizione. Parliamo da molti anni di bipolarismo ma questa immagine bipolare, che seduce molta parte del ceto politico, promosso dopo la crisi dei partiti nel 1992, sembra piuttosto un’aspirazione che un percorso capace di costruire un futuro ed una strategia coerente con obiettivi proposti all’elettorato ed al paese.
Guardando, infine, alle dimensioni dell’azione dello Stato emergono tre segmenti ben assestati al proprio interno: uno dalla dimensione orizzontale e due dalla dimensione verticale.
La pubblica amministrazione centrale e l’insieme degli enti pubblici economici – nella sua gigantesca dimensione singolare e nella sua grande concentrazione su alcune imponenti organizzazioni, come le grandi imprese pubbliche – sono le due dimensioni verticali che si proiettano su se stesse e sui propri progetti di intervento.
La dimensione orizzontale è quella dei Comuni: una sorta di web, molto diffuso ma poco profondo, nel quale spicca il ruolo dichiaratamente maggioritario dei Sindaci, di grandi e piccoli comuni, come attori politici significativi, ma anche la scarsa profondità , sia finanziaria che organizzativa, che le strutture comunali sono capaci di mettere in campo.
Anche in questo caso due forze si contrappongono e si neutralizzano a vicenda: quella dello Stato, che a sua volta si scompone nella densità del Governo e nella frastagliata struttura del Parlamento.
Dall’altra parte ci sono le banche, le imprese ed il mercato del lavoro, che non riescono a trasformare la dinamica economica una volta avvertita la mancata realizzazione delle riforme: come recita la BCE e come si capisce dall’implosione delle forme di rappresentanza.
In effetti la fiacchezza dell’economia italiana dipende proprio dalla dimensione frastagliata in cui si riducono gli attori, pubblici e privati, rispetto al Mercato, compromettendo la ripresa della Crescita. Manca, insomma, la dimensione di un contesto macroeconomico, che Mario Draghi ha costruito, grazie alla politica monetaria non convenzionale della BCE.
Il Governo italiano, e l’insieme degli apparati dello Stato, dovrebbero avere la medesima qualità organizzativa endogena, ed una adeguata dimensione strategica macroeconomica, all’interno della quale gli attori economici potrebbero e dovrebbero agire, lasciando definitivamente alle proprie spalle la dimensione della concertazione e riproponendo un disegno alternativo ed innovativo dell’associazionismo, sia per le imprese che per i lavoratori e, forse, anche per le banche.
Nel febbraio 2014 entra in carica il Governo Renzi e sembra che si annunci una certa brezza positiva per la crescita: in Europa ed in Italia. Ad oggi siamo nel 2016 ma sono passati oltre due anni e la dinamica degli eventi non è stata proprio entusiasmante.
Nella seconda metà del 2014 la brezza della crescita, lo abbiamo detto, si raffredda e nel 2015 maturano importanti novità : cedono le economie emergenti; cede il prezzo del petrolio e delle materie prime; si allargano conflitti geopolitici nel mediterraneo, che aumentano il livello dell’incertezza e riducono la probabilità di una ripresa degli investimenti; si allontana la crescita in Europa. Il 2016 conferma l’insieme di questi problemi
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In dettaglio abbiamo quattro problemi che circondano il perimetro della politica economica del Governo: uno scollamento tra nord e sud, che impedisce la convergenza verso una crescita del mercato domestico; una legge di stabilità che prepara la strada ad una diminuzione, annunciata, di tasse e spesa corrente pubblica, solo oltre il 2017; la necessità di supportare il sistema bancario, provato da una lunga recessione che ha generato notevoli sofferenze; la mancata strutturazione dei fondi europei per il ciclo 2014/2020 per i quali, proprio nel Sud che ne avrebbe un grande bisogno, non è partita alcuna ricognizione su cosa e come quei fondi dovrebbero essere utilizzati. La legge di stabilità non si è collegata al masterplan per il sud, annunciato all’inizio dell’estate nel 2015, che, nel frattempo, è rimasto fermo al palo in una sorta di “riserva meridionaleâ€. Una riserva indiana scollegata anche nelle relazioni tra le regioni, che quella riserva, in alternativa, potrebbero almeno essere considerata come una macroregione capace di tenere testa al Governo ed alle sue strategie: avendo quella macroregione le dimensioni demografiche di un terzo dell’Italia. Frantumare la macroregione, e relegare ad uno sforzo amministrativo e gestionale, senza alcuna impostazione di strategia economica, le singole regioni della riserva ne frantuma sia la capacità dei governi locali che le aspettative delle popolazioni. Per colpa, forse per inerzia, di una procedura di programmazione dal basso, come negli anni novanta. Invece di lasciare la strada a banche ed imprese, ed alla ingegneria finanziaria dei Fondi Europei, si dovrebbero creare 8 patti per il sud con 8 regioni ed altrettanti patti per il Sud con le 8 città metropolitane del Mezzogiorno.
Nel mondo della globalizzazione frammentare il Mezzogiorno continentale si presenta davvero come una mossa temeraria. Lo scheletro industriale, che esiste nel Mezzogiorno ma risulta fragile rispetto alla dimensione demografica – che crea disoccupazione, lavoro nero ed un eccesso di spesa pubblica e di lavoratori pubblici rispetto all’economia locale – si deve integrare con i sistemi imprenditoriali, del nord est e del nord ovest, per dare luogo ad una politica economica italiana. D’altra parte questa dimensione nazionale della politica economica dovrebbe a sua volta impiantarsi nel cuore dell’Unione Europea, considerando la capacità industriale del nostro paese
14. L’economia e la società del Mezzogiorno sono cadute quindi, ed ancora una volta, nelle tre trappole che, dal 1992, hanno aperto la frattura che oggi è diventata un burrone tra le due Italie: quando il dualismo, che era uno scarto nella quantità di ricchezza, è diventato progressivamente una barriera che esclude la società meridionale rispetto al resto del paese. La prima delle tre trappole è la programmazione dal basso, che si concentra sull’ombelico del territorio locale abbandonando le opportunità e gli sviluppi di una integrazione nazionale. La seconda trappola è lo stile del ceto politico nelle Regioni meridionali. I Fondi Europei sono scaglionati di sei anni in sei anni, perché devono essere un supporto ai progetti reali delle comunità locali. Ne consegue che, finiti i sei anni, si devono concludere nel settimo e collaudare i risultati ottenuti. Nel Sud si aspetta il primo anno, in cui arrivano i fondi, e si comincia a discutere lentamente su cosa si potrebbe fare ma si conclude con un nulla di fatto, per larga parte dei fondi potenzialmente utilizzabili. Nel Nord, europeo ed italiano, al contrario, si preparano prima i progetti che al primo giorno, del primo anno in cui si ottengono i fondi, sono pronti per aprire i cantieri ed utilizzare i flussi monetari.
La terza trappola è la più insidiosa: quella che ritiene la spesa pubblica o gli incentivi, la chiave di volta della crescita. La crescita la fanno le famiglie, con i consumi, e gli imprenditori, con gli investimenti. Aumentando la domanda di tecnologie e risorse umane capaci di accelerare lo sviluppo: trasformando la domanda di tecnologie e di risorse umane in capacità di produzione, che eccita la produttività e realizza la crescita. Dal 1992 ad oggi sono passati oltre venti anni nella speranza che la spesa pubblica ed i sistemi locali avrebbero potuto o dovuto essere la leva dello sviluppo. Ma la torta della produzione deve prima crescere e poi se ne può ridistribuire una parte del valore, se si vuole davvero alimentare la dinamica dello sviluppo per riequilibrare la ricchezza ed il benessere della popolazione. Senza crescita della produzione non si possono realizzare né il welfare né un mondo migliore. Ed oggi, infatti, la società meridionale è davvero distante dal resto dell’Italia. Ma quella restante parte d’Italia non capisce che, senza una identità nazionale, nella loro solitudine anche loro diventerebbero periferia di un impero europeo: che si concentra sempre più verso il nord est che non verso il sud ovest. Vogliamo perdere altri venti anni, e diventare un paese periferico, o dobbiamo svegliarci e capire che, solo con la convergenza e l’intelligenza del nostro paese, potremmo tornare ad essere non solo più rispettati ma anche più felici rispetto agli anni che abbiamo attraversato fino ad oggi faticosamente?
Ci sono, in definitiva, tre questioni di fondo da affrontare nel rapporto tra l’Italia e l’Europa: la ricostruzione di una identità politica dell’Europa; la frammentazione tra attori singoli ed attori collettivi, che si traduce in un attrito capace di impedire le riforme necessarie alla ricostruzione delle relazioni tra scambi e gerarchia nella vita economica e sociale; la necessità di ritrovare le ragioni di una convergenza tra sud e nord dell’Italia, riducendone l’attuale ripresa di un dualismo pericoloso, e, parallelamente, affrontare la esigenza di un convergenza tra aree deboli ed aree forti all’intero delle regioni europee. Chiudendo il cerchio della convergenza europea nel momento in cui i divari interni alle regioni europee siano stati ricondotti anche ad una maggiore convergenza economica, e politica degli stati partecipanti all’Unione Europea.
3.
Cambia il vento dell’economia globale
Mario Draghi ha percepito questa circostanza tempestivamente e ne ha descritto l’effetto:
L’area dell’euro ha iniziato il nuovo anno affrontando due dinamiche opposte: il rafforzamento dell’economia interna e l’indebolimento di quella mondiale. Sul fronte interno prosegue la ripresa, trainata soprattutto dai consumi. Tale andamento è sostenuto dalla nostra politica monetaria accomodante, dal calo dei prezzi dell’energia e dall’intonazione neutra della politica di bilancio. Il numero di occupati è in aumento e risulta oggi superiore di oltre due milioni rispetto al minimo del 2013. Tuttavia, nell’economia mondiale il quadro è più incerto15.
Ma l’Italia sta diventando un problema per l’Europa: anche perché cammina piano verso la crescita e presenta crepe, ed attriti, importanti e pericolosi. Perché se questi attriti e queste crepe dovessero paralizzare davvero il nostro paese, allora emergerebbe di nuovo il fantasma della divergenza nell’ambito dell’Unione Europea. Con un rischio ulteriore: la circostanza che un paese fondatore dell’Europa, la seconda potenza industriale dopo la Germania, debba essere retrocessa nella serie B. Cioè nella sfera di quelle economie che non riescono a crescere.
Questa mancata crescita sarebbe un danno per l’Europa che deve, ora, sostenere il rafforzamento della sua economia interna di fronte all’indebolimento dei paesi emergenti nell’economia mondiale.
Si profila un paradosso singolare: che l’Italia sia ormai uno dei mezzogiorni d’Europa, proprio come dal 1992 ad oggi – dopo venticinque anni, che non sono pochi ma moltissimi al ritmo del mondo contemporaneo – il Sud dell’Italia sia stato progressivamente insabbiato.
Il rallentamento del Mezzogiorno italiano ha subito tre pesanti frenate: la caduta della produttività italiana, enfatizzata dalla fragilità presente all’ingresso nell’euro e dalla frantumazione regionale della identità nazionale; la lunga crisi recessiva, scoppiata nel 2008, che, grazie alle fragilità precedenti, ha generato una caduta degli investimenti ed un incremento della disoccupazione; il degrado progressivo del sistema degli enti locali e della capacità dei gruppi dirigenti nel sistema politico, che si sono tradotti in un eccesso patologico della spesa pubblica ed hanno spiazzato la dimensione industriale.
La combinazione di queste circostanze si è tradotta in un degrado economico ed in un crescente malessere sociale: che si rinforzano a vicenda. Ma questa sovrapposizione di una politica debole e confusa, si ribalta sulle istituzioni e la loro progressiva frammentazione – anche se l’Italia centrale ed il nord del paese mantengono un tenore di vita quasi doppio di quello delle regioni meridionali – e genera una paralisi progressiva, che trasferisce molte patologie meridionali all’economia ed alla società italiane. Una vittima, inconsapevole, di questo processo degenerativo si manifesta nella separazione tra le grandi organizzazioni rappresentative – le associazioni imprenditoriali, le associazioni sindacali e le associazioni che si riconducono alla banca ed alla finanza – e la dimensione politica ed istituzionale dello Stato, nelle sue multiformi ramificazioni. Questa mancata, e sempre più mancante, comunicazione – tra sindacati, imprenditori e sistema finanziario, la dimensione pubblica del sistema politico e la qualità delle istituzioni – è il vero nodo che riduce progressivamente le possibilità di uno sviluppo economico, adeguato alle potenzialità latenti della nostro paese.
Ricapitoliamo questo stato delle cose: i soldi pubblici, e le organizzazioni statali, si collegano al ceto politico e diventano il vero problema della mancata crescita nel Sud. Non si può fare una politica economica utilizzando solo gli strumenti delle amministrazioni pubbliche: lo Stato deve esistere, essere utile, ma non invadere e distruggere il mercato e le relazioni tra banche, imprese, lavoratori e consumatori. L’insieme di questi attori sociali viene, infatti, progressivamente respinto dalla espansione dell’economia pubblica ed il paese si blocca e si impoverisce. In Europa esiste un minimo comune denominatore nella politica economica: la convinzione che occorrono riforme che possano liberare gli attori del mercato, ridurre le pretese degli apparati pubblici, ridimensionare tasse e spesa corrente. Effetti che, se realizzati, possano lasciare spazio agli investimenti privati ed alle infrastrutture, necessarie per allargare i modi ed i risultati degli scambi, di merci, persone e servizi.
Il Mezzogiorno italiano oggi è sull’orlo di un burrone ma il resto del paese potrebbe diventare in poco tempo qualcosa di molto simile
16.
Il problema rimane quello di una parte dell’economia e della società italiana, il Sud, che non riesce più ad essere sostenuta dalla spesa corrente, per fortuna, ma che dovrebbe avere la forza e la determinazione di avere uno scatto per qualificare i propri progetti, utilizzare le competenze e le capacità che esistono anche al Sud ma sono troppo poche rispetto alla demografia del paese per ottenere risultati di sviluppo e di crescita.
Serve, servirebbe, una politica economica per il paese, come ai tempi della Nota aggiuntiva al bilancio dello Stato che Ugo la Malfa, allora Ministro del Bilancio, propose come visione strategica del futuro possibile del miracolo economico italiano. Era il 22 maggio del 1962. Non si vedono purtroppo né gli attori né le opportunità che potrebbero ridefinire quella grande scommessa, in larga parte incompiuta nelle aspettative di la Malfa, sulla politica dei redditi per ottenere la crescita economica: i mitici anni Sessanta, quando il nostro paese era davvero una economia capace di uscire dalle crisi. Se il Governo italiano vuole costruire una politica nazionale dovrebbe supportare il rilancio del piano Junker in Europa e lasciare perdere esercizi locali come il Masterplan per il Sud. Se l’Italia non serra le righe tra Nord e Sud, potrebbe diventare reale l’ipotesi che l’Italia venga considerato un paese di serie B. Malauguratamente questo sarebbe il nostro destino di questo secondo decennio nel terzo millennio: in fondo mancano solo quattro anni alla meta del 2020.
Negli anni alle nostre spalle si sono scontrati due comportamenti in materia di politica economica nel Mezzogiorno: le politiche dal basso, bottom up (le istituzioni locali che presidiano i territori) e quelle calate dall’alto, top down (il Governo nazionale che crea le grandi infrastrutture ed i contesti di contorno per lo sviluppo industriale e la redistribuzione della ricchezza prodotta).
Se vogliamo mantenere l’Italia nelle prime file del’Unione Europea dobbiamo ridistribuire i pesi e le misure di queste due politiche.
Nel Sud dell’Italia abbiamo esagerato con il bottom up ed i territori: guardare il centro del proprio ombelico non è la migliore strategia per attivare la crescita. Non abbiamo bisogno di contesti di largo raggio per includere i progetti di territorio nella struttura complessiva della strategia di Governo: ammesso che questa strategia esista, ovviamente. La cabina di regia, il commissario che riordini l’area di Bagnoli e la struttura di Invitalia, al servizio della strategia del Governo, sembrano un eccellente caso di studio.
Una scommessa che potrebbe ribaltare l’eccesso di localismo.
Ma perché bisogna trovare questo nuovo equilibrio tra localismo e centralismo nel nostro paese? Per il semplice motivo che l’Italia si sta spaccando in due: tra il Sud ed il Centro Nord. E gli italiani dovrebbero ritrovare l’equilibrio di una coesione nazionale.
Nel 2015, per fortuna, il prodotto interno lordo del paese (il pil) ha ripreso, assai moderatamente, la crescita
17.
Nel 2011 l’Italia aveva un prodotto interno lordo di 1.613 miliardi di euro. Nel triennio successivo il pil si è ridotto del 2,8% nel 2012, poi si è ridotto del 1,7% ed ancora dello 0,34% ed infine, nel 2015, con uno scatto di reni, siamo ad uno 0,8% (0,760, per essere precisi). Nei tre anni alle spalle del 2015 abbiamo perso 4,9% di pil. Dunque questa modesta rimonta, che è importante e non deve essere sottovalutata, porta il nostro prodotto interno lordo del 2015 solo a 1.547 miliardi di euro. I due valori sono stati costruiti dall’Istat a prezzi concatenati: cioè collegati alle dinamiche dell’inflazione e della descrizione reale, non solo monetaria, della crescita. L’Istat ci dice, insomma, che nel 2015 abbiamo prodotto merci e servizi per un valore inferiore a quello del 2011 ma che siamo anche tornati a crescere
18. Certo, ora si devono recuperare altri quattro punti percentuali di pil nei prossimi anni: per tornare ai valori reali del 2011! Un anno terribile: che segnò l’avvento del Governo Monti e la nomina di Draghi alla Banca Centrale Europea. Dopo un triennio faticoso e complesso sembra che sia possibile aprire uno spiraglio nella ripresa della crescita. Non è facile perché, purtroppo, l’economia italiana è ancora debole. L’Unione Europea presenta un tasso di crescita pari ad 1,9% mentre l’area euro espone un tasso di crescita pari ad 1,5%. Italia, Estonia ed Austria, invece, sono tutte sotto l’uno per cento nel 2015. L’Italia presenta anche ulteriori problemi: il reddito procapite del Sud ammonta a 17mila euro mentre quello del Centro Nord si colloca a 32mila euro. Il reddito meridionale vale solo il 54% del reddito centrosettentrionale. La Svimez ci dice che la media italiana della crescita nel 2015 sia l’0,8% . Ma aggiunge che la crescita del centro nord si colloca ad 1% mentre quella del Sud, un terzo della popolazione nazionale, rimane al palo dello 0,1%. Non ci possiamo più permettere di avere un paese tagliato in due. Per questo serve una politica di contesto nazionale mentre le istituzioni pubbliche del Mezzogiorno dovrebbero darsi una sveglia.
Servono una politica fiscale e le riforme strutturali per la crescita ma serve anche rimettere al centro il mercato domestico in Italia.
Purtroppo, nell’ultima decade di gennaio 2016, emergono due giudizi importanti sulle dinamiche dell’economia globale: il Fondo Monetario Internazionale afferma che la domanda effettiva si va smorzando, in particolare quella che si incontrava con la produzione delle economie emergenti, mentre le prospettive di crescita accusano una diminuzione delle aspettative fino ad ora coltivate
19. Nella medesima decade, Mario Draghi conferma la politica monetaria non convenzionale. Afferma che l’area dell’euro ha iniziato il nuovo anno affrontando due dinamiche opposte: il rafforzamento dell’economia interna e l’indebolimento di quella mondiale. Indica che la ripresa, tenue ma esistente, viene trainata soprattutto dai consumi. Funziona il circuito del reddito ma manca la forza degli investimenti, che diventano capitale quando vengono realizzati, mentre generano domanda se le imprese si convincono di potere e dovere scommettere sulla crescita. Le due lame della forbice, politica monetaria e politica fiscale, purtroppo non sono coordinate nell’area euro. Draghi lo ha ribadito in termini ripetuti ma poco ascoltati dal parterre dei Governi nazionali. La Banca Centrale Europea, grazie ai progetti in corso di realizzazione sulla Unione Bancaria, allarga le proprie azioni dalla moneta alle banche ed alla vigilanza sulle banche. E guarda in prospettiva anche alla dimensione finanziaria dei mercati europei.
La politica fiscale, invece, non viene governata da una unica istituzione, ancorchè complessa, come la BCE. Le strategie dei Governi in carica dipendono da due gruppi di nazioni: l’area dell’euro e le sue regole fiscali; l’area del mercato unico, che include l’intera Unione, ma premia la crescita dei paesi al di fuori dell’area euro.
La svolta del mercato globale, indicata dal Fondo Monetario, si affianca alla divaricazione della politica monetaria e fiscale in Europa. I paesi emergenti ripiegano su se stessi e la turbolenza della geopolitica mondiale accentua l’incertezza verso il futuro. Razionalmente sarebbe quindi utile concentrare la spinta della crescita verso i mercati interni dell’area euro. Abbandonando la remora dell’austerità senza allentare una gestione puntuale della natura e degli effetti generati dalle politiche fiscali. La Commissione Europea, ed i Governi delle nazioni europee, devono ridimensionare la pressione fiscale e la spesa corrente.
Molti paesi europei dipendono ancora da una correzione strutturale ulteriore: per promuovere la fiducia nelle loro finanze pubbliche. Secondo Mario Draghi «La chiave per un risanamento favorevole alla crescita va ricercata nella
composizione dell’aggiustamento: dal lato delle uscite, la riduzione dei consumi e non degli investimenti; da quello delle entrate, lo spostamento – ed eventualmente la riduzione – dell’onere fiscale invece che il suo aumento. Naturalmente, tuttavia, è anche importante innalzare il potenziale di crescita delle nostre economie per favorire una riduzione del debito»
20.
Come abbiamo già detto precedentemente servono anche due strumenti ulteriori per completare gli effetti delle politiche fiscali: riprendere il Piano Juncker per creare infrastrutture ed investimenti nell’Unione; attivare investimenti fondati sulle nuove tecnologie e l’innovazione. Nel 2014 e nel 2015 l’euro è scivolato da 1,35 ad 1,10 sul dollaro, come avvenne nel 1992 una svalutazione della lira molto significativa: anche in questa occasione l’industria italiana ha potuto utilizzare la caduta del cambio come una risorsa per produrre vendendo all’estero. Ma ora bisogna attivare, in Italia, una riduzione delle imposte e della spesa corrente, per avviare la ripresa degli investimenti privati ed anche per aumentare la produttività .
4.
Lo stato dell’economia europea a marzo del 2016
Mario Draghi ha giocato una partita importante collegando le due riunioni, quella di gennaio e quella di marzo 2016, per arginare i problemi emersi dal trapasso tra il secondo semestre del 2014 ed il 2015. Ma anche per intensificare gli strumenti in suo possesso (la politica monetaria), arricchire il monitoraggio dei problemi (l’inflazione) e ribadire che serve necessariamente una politica fiscale che i Governi e gli stati europei devono mettere in campo sotto tre profili: la fiscalità , lo sviluppo del piano Junker, le riforme di sistema.
Non credo sia utile la figura di un ministro delle finanza e dell’economi insediato nella struttura istituzionale attuale dell’Unione Europea e delle sue articolazioni. Serve un processo capace di far convergere gli Stati ed i Governi, ottenendo un salto verso una dimensione politica che, in futuro, dovrebbe unificare e rimettere in parallelo la poltica monetaria e le politiche di bilancio. Questo è un traguardo di lungo periodo ma non possiamo restare sempre fermi al palo
21. Diceva Draghi, alcuni mesi or sono, che siamo in terre incognite. Cominciamo a picchettare ed organizzare queste terre incognite in vista di un lungo percorso che, comunque, ci porterà , dovrebbe portarci al traguardo.
Per ora ricapitoliamo lo stato delle cose ed aspettiamo gli sviluppi del prossimo Consiglio Direttivo della BCE. L’economia mondiale si ridimensiona e continua ad espandersi con un ritmo modesto. Tassi di interesse, miglioramenti nei mercati del lavoro, un clima di fiducia più positivo sostengono le prospettive per le economie avanzate. Il quadro a medio termine per i paesi emergenti rimane più incerto. La Cina potrebbe continuare una decelerazione, con ripercussioni negative nelle altre economie emergenti, in particolare in Asia. Il tasso di cambio effettivo dell’euro si è notevolmente apprezzato negli ultimi mesi. I mercati finanziari hanno evidenziato una maggiore volatilità .
L’incertezza sulla crescita mondiale ha contribuito alla discesa dei prezzi, per le attività finanziarie più rischiose, tra i primi di dicembre 2015 e la metà del febbraio 2016. I rendimenti delle obbligazioni sovrane, nei paesi con un rating più elevato, sono scesi ulteriormente negli ultimi tre mesi.
Nel quarto trimestre del 2015 la crescita del PIL in termini reali è stata prossima allo 0,3% sul periodo precedente: un dato sostenuto dalla domanda interna ma frenato dal contributo negativo delle esportazioni nette.
I dati indicano una dinamica della crescita più debole delle attese rispetto agli inizi dell’anno. la domanda interna dovrebbe essere sorretta dalle misure di politica monetaria della BCE e dal costante incremento dell’occupazione sviluppata dalla presenza delle riforme strutturali. I bassi prezzi del petrolio dovrebbero fornire un sostegno ulteriore al reddito disponibile delle famiglie ed ai consumi privati, oltre che alla redditività delle imprese ed agli investimenti. L’orientamento fiscale nell’area dell’euro è lievemente espansivo ma la ripresa economica continua ad essere frenata dalle prospettive di crescita contenuta nei paesi emergenti, dalla volatilità nei mercati finanziari, dagli aggiustamenti dei bilanci pubblici e da una lenta attuazione di riforme strutturali. Le proiezioni macroeconomiche per l’area dell’euro formulate nel marzo 2016 dagli esperti della BCE prevedono una crescita annua del PIL in termini reali pari all’1,4 per cento nel 2016, all’1,7 nel 2017 e all’1,8 nel 2018. Le prospettive di crescita rimangono decrescenti in relazione all’evoluzione dell’economia mondiale ed in vista di rischi neopolitici di ampia portata. Secondo Eurostat, nell’area dell’euro l’inflazione sui dodici mesi, misurata sullo IAPC, si è portata a -0,2 per cento in febbraio rispetto allo 0,3 per cento di gennaio.
Le misure di politica monetaria della BCE continuano a sostenere la dinamica dell’aggregato monetario ampio e del credito. La crescita della moneta rimane solida e quella dei prestiti ha continuato a seguire il profilo di graduale ripresa osservato dagli inizi del 2014 ma le condizioni economiche e finanziarie si sono indebolite ulteriormente dopo l’ultima riunione del Consiglio Direttivo, tenutasi nel gennaio del 2016. I rischi per la stabilità dei prezzi a medio termine sono chiaramente aumentati, come mostrano anche le revisioni al ribasso per l’inflazione e la crescita contenute nelle proiezioni macroeconomiche della BCE nel marzo 2016. Il Consiglio Direttivo, nella riunione del marzo 2016, ha deciso di includere anche obbligazioni denominate in euro, emesse da società non bancarie situate nell’area dell’euro. Decisione che rafforzerà ulteriormente la trasmissione degli acquisti dell’Eurosistema alle condizioni di finanziamento dell’economia reale. Il Consiglio Direttivo ha deciso anche di introdurre, a partire da giugno 2016, una nuova serie di quattro operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine, ciascuna con scadenza a quattro anni. Queste nuove operazioni rafforzeranno la politica monetaria della BCE e potenzieranno la trasmissione della politica stessa alle economia, incentivando ulteriormente l’erogazione di credito bancario all’economia reale.
In aggiunta alle misure del giugno 2014, ed attraverso le decisioni assunte a marzo 2016, viene fornito un considerevole stimolo monetario per contrastare i rischi più elevati. Se da un lato tassi di inflazione molto bassi o persino negativi saranno inevitabili nei prossimi mesi, in relazione agli andamenti dei prezzi del greggio, dall’altro bisogna spingere l’inflazione su livelli inferiori ma prossimi al 2 per cento.
Il tasso di cambio effettivo dell’euro è cresciuto
22. L’euro si è fortemente apprezzato in termini effettivi tra i primi di dicembre 2015 e la metà di febbraio 2016, a fronte dell’aumento dell’incertezza a livello globale: da allora, il tasso di cambio della moneta unica in termini effettivi, e,rispetto al dollaro statunitense, si è di poco indebolito, in un contesto caratterizzato sia da un ampliamento dei differenziali sui rendimenti obbligazionari a lungo termine tra gli Stati Uniti e l’area dell’euro, sia da aspettative di ulteriore stimolo monetario da parte della BCE. I consumi privati, che hanno rappresentato la determinante principale della ripresa in corso, hanno rallentato alla fine del 2015.
Il tasso di disoccupazione nell’area dell’euro si riduce ma rimane ancora elevato.
A gennaio 2016 il tasso di disoccupazione si è collocato al 10,3 per cento, il livello minimo dalla metà del 2011. L’occupazione è costantemente aumentata dal 2013 e l’occupazione complessiva nell’area dell’euro è salita di oltre due milioni di unità nel terzo trimestre del 2015. Tuttavia, dalle origini della crisi si è osservata una divergenza tra il numero di occupati e le ore lavorate totali, per effetto di una flessione ciclica delle ore lavorative degli occupati a tempo pieno e di un incremento nell’utilizzo di occupati part-time, nel settore dei servizi. Misure più ampie di eccesso di offerta di lavoro, che tengono conto anche di segmenti della popolazione che si trovano in condizioni di occupazione a tempo parziale di natura involontaria, o si sono ritirati dal mercato del lavoro, rimangono elevate. Con circa sette milioni di persone (5 % delle forze di lavoro) che lavorano attualmente a tempo parziale involontario, per mancanza di un’occupazione a tempo pieno, e con oltre sei milioni di lavoratori scoraggiati (coloro che hanno rinunciato a cercare un’occupazione e si sono ritirati dal mercato del lavoro), il mercato del lavoro nell’area dell’euro presenta un eccesso di offerta di lavoro superiore a quanto indicato dal solo tasso di disoccupazione. Si prevede un rafforzamento della ripresa economica, che può essere frenata da una domanda estera inferiore alle aspettative. Fattori negativi quali un indebolimento della crescita nelle economie emergenti, un rafforzamento del tasso di cambio effettivo dell’euro, un deterioramento del clima di fiducia e l’accentuarsi della volatilità sui mercati finanziari peseranno negativamente nell’area dell’euro nel breve periodo.
Le proiezioni formulate in marzo dalla BCE prevedono una crescita annua del PIL reale dell’1,4 per cento nel 2016, dell’1,7 per cento nel 2017 e dell’1,8 per cento nel 2018. La revisione al ribasso della crescita del PIL reale, rispetto alle proiezioni di dicembre, riflette principalmente l’impatto del calo della domanda estera e dell’incremento del tasso di cambio effettivo dell’euro sulla crescita delle esportazioni, nonché l’effetto negativo dell’aumento della volatilità dei mercati finanziari e del deterioramento degli indicatori di fiducia. I rischi per le prospettive di crescita dell’area dell’euro restano orientati al ribasso, riflettendo l’acuirsi delle incertezze circa gli andamenti nelle economie emergenti e rischi geopolitici più in generale. Dal 2010 al 2016 le variazioni percentuali del trimestre precedente, del pil reale dell’area dell’euro, sono oscillate tra lo 0,5% e l’1% tra il 2010 ed il 2011. Dal 2011 al 2013 i tassi sono calati fino allo 0,5%. Il rimbalzo ha riportato i tassi allo 0,5% nella metà del 2014. Dal secondo semestre del 2014 al 2015 sono tornati a 0,5%. Ma si sono abbassati allo 0,3% nel primo trimestre del 2016. Resteranno su quella quota fino al dicembre 2016. Questa è una previsione della BCE. Ma dal 2016 si apre un cono dell’incertezza che potrebbe risalire verso lo 0,7% o scendere verso lo 0,2% dal 2017 al 2019. Il cono dell’incertezza, ovviamente, risente della incertezza medesima e dunque riporta in parallelo la previsione da cui si parte per il dicembre 2016.
5.
Regole ed istituzioni: la fiducia nasce dal rispetto delle regole ed alimenta la
solidità delle istituzioni ben costruite e governate
L’Unione Europea è ancora fragile ed i singoli Stati sono ancora troppo legati alla propria sovranità . Servono istituzioni più robuste e regole meno numerose: solo in questo caso la fiducia alimenterà la crescita. E la crescita, ed il benessere, offriranno una opzione politica unificante dell’Europa: perché rassicurata dalla crescita e dal benessere. Questo schema di ragionamento avrebbe potuto essere utile ed efficace fino al 2014. In un crescendo, che parte dalla stessa data di nascita dell’euro, ed in parallelo con gli sviluppi del mercato globale, sono apparsi in termini crescenti problemi difficili, da aggredire e ridimensionare, che non sono meramente economici ma si riconducono ad un difficile quadro geopolitico che quei problemi hanno generato ed amplificato.
La crisi del 2008/2009 aveva prodotto due conseguenze sull’economia dell’Unione Europea: un contagio finanziario molto rischioso per i debiti pubblici, degli Stati sovrani, che aderiscono all’Unione, ma anche per le banche; la necessità di accelerare la convergenza tra le singole economie nazionali. Bisognava rimuovere rapidamente l’esistenza del club della moneta e del club del mercato, da una parte l’area euro, ed i paesi residuali dell’intera Unione Europea dall’altra. I due gruppi marciano su regimi diversi di crescita asimmetrica: debole l’area dell’euro mentre coloro, che non sono vincolati alle regole della moneta unica (Maastricht), crescono più rapidamente. Anche perché hanno mercati del lavoro flessibili ed un regime fiscale molto soffice. I due effetti – governare i rischi della crisi ed accelerare la convergenza tra le economie del sistema – ci hanno svelato un errore basilare nella costruzione monetaria europea: l’Unione non è un’area monetaria ottimale, sia perché le economie si presentano con tratti diversi e divergenti, sia perché l’ordinamento delle istituzioni europee non è riuscito ancora ad unificare la sovranità fiscale degli Stati. Una fiscalità diseguale induce un’amministrazione molto diversa tra gli Stati e questa differenza genera il costo crescente degli interessi sul debito pubblico. Nei paesi fiscalmente aggressivi e, contemporaneamente, assai propensi alla spesa corrente maturano le condizioni dell’austerità e lo spiazzamento di consumi ed investimenti rispetto alla gestione dei fondi pubblici. In questo modo l’austerità comprime la crescita.
Mentre la politica monetaria, guidata dal 2011 da Mario Draghi, ha prodotto una gamma di strumenti per governare sia la moneta che le relazioni tra le grandi banche e la vigilanza sui loro comportamenti. Se sulla struttura delle imposte e della spesa pubblica agiscono i governi nazionali – ciascuno nella sua prospettiva di politica economica e non essendo ancora convergenti i le economie dei mercati nazionali – si manifestano in Europa squilibri persistenti, che divaricano, invece di rendere omogenei, i potenziali percorsi dello sviluppo.
La politica monetaria non convenzionale, invece, si alimenta della scelta iniziale di aver dato vita ad una organizzazione, la BCE, che avrebbe creato le condizioni per gestire se stessa e garantito gli effetti delle sue scelte.
Le regole, delle politiche fiscali, ma anche delle riforme strutturali, che ogni nazione dovrebbe rapidamente realizzare, non hanno la medesima forza
23. Bisogna cambiare le regole per ottenere uno spettro delle riforme possibili, dal fisco al mercato del lavoro ed alla tutela della competizione, se vogliamo accelerare la crescita. La crisi del 2008/2009 ha ottenuto un risultato ambiguo: la recessione ed il ridimensionamento del mercato interno, per i consumatori e le imprese, ma ha anche svelato il nodo che strozzava lo sviluppo dell’Unione Europea.
Allo stato attuale dei fatti, e delle aspettative future, bisogna riportare alla convergenza sia la forza delle organizzazioni – come la BCE – che una efficace uniformità nelle regole nelle singole nazioni e tra le nazioni. Grazie a questo ulteriore strappo in avanti potremo, forse, vedere affiorare sulla scena europea la forza di una sovranità collettiva e non il rimpianto delle tante, troppe, forze, ciascuna rinchiusa nel proprio perimetro nazionale.
La crisi della Grecia, ed il salto di qualità che ci attendiamo dall’Unione Europea, e dalle sue istituzioni, avrebbe dovuto accelerare la sovranità condivisa nell’Unione e consolidare la qualità della politica monetaria ed il governo dei sistemi bancari. Ma, per raggiungere questi obiettivi, bisognerebbe anche tenere fede alla scommessa sul 2025 come punto di arrivo
24.
Il momento nel quale deve essere raggiunto e consolidato il raccordo tra la politica monetaria non convenzionale della BCE, la politica fiscale proposta da Juncker, e dal suo piano, e gli effetti delle riforme strutturali: che sono la chiave di volta, tra atteggiamenti e comportamenti sociali, e garantiscono il funzionamento dei mercati nazionali, in termini di domanda ed offerta aggregata. Le principali istituzioni europee sono tre: il Parlamento, la Commissione ed il Consiglio dei capi di Stato e di Governo. Nell’ambito di questo Consiglio domina la figura dell’Ecofin, cioè della riunione formale tra i ministri del tesoro e delle Finanze delle 19 nazioni che adottano l’euro. L’Ecofin si fonda, a sua volta, su un ulteriore organismo, l’Eurogruppo, che prepara le riunione dell’Ecofin in relazione ai collegamenti ed alle relazioni tra l’area dell’euro e le nazioni che non appartengono a quell’area ma che sono incluse nell’Unione Europea. Questa catena che si colloca a cavallo tra i leader dei Governi nazionali ed il coordinamento della politica economica nell’Unione Europea è molto complicata e ridondante, ma è anche vero che regge la condivisione di 28 nazioni.
Esiste, insomma, un processo che sta realizzando effetti amministrativi e politici con una certa efficacia ma anche con lentezza e basso profilo. Non si può avere fiducia nel futuro se non si scommette su quale futuro dobbiamo o vogliamo raggiungere.
Il trait d’union tra questo processo amministrativo, e la nascita di una identità politica europea, sono, in ultima analisi, gli sforzi per creare riforme istituzionali negli Stati nazionali, per generare processi di convergenza e rendere più veloci le scelte che possano portare ad una dimensione unitaria di comunità la popolazione europea. Le riforme strutturali sono necessarie per modificare gli attriti interni alle singole nazioni. Modificando quegli attriti si mettono in moto, con una velocità crescente nelle nazioni in cui le relazioni tra gli attori sociali sono più rigide e meno leali, due ipotesi per il futuro.
Se la domanda e l’offerta aggregata, nei mercati nazionali, si spostano verso l’aumento del reddito interno si aumentano le opportunità della crescita. Se, al contrario, gli effetti non accendono entusiasmi e speranze convincenti, inizia una spirale recessiva. Se l’aumento delle spese si collega a quello delle tasse e delle entrate si allarga ulteriormente l’effetto recessivo: l’austerità impedisce la crescita. l’Italia è un caso emblematico. Le riforme strutturali sono la chiave di volta per andare oltre le nebbie dell’incertezza e costruire una dimensione espansiva del benessere europeo. Nel caso contrario, evitare le riforme strutturali, l’economia ripiega su se stessa ed aumenta la disoccupazione. Non serve – da sola ed in questo caso – neanche la leva del ribasso dell’euro, che presenta vantaggi per una parte delle imprese: serve ma non basta di fronte ad un mercato domestico dove manca la domanda aggregata. Aumenta, invece, la divergenza tra le nazioni e lo scoraggiamento verso il traguardo possibile, ma non necessariamente raggiungibile, di una sovranità condivisa tra i popoli europei.
NOTE
1 Dichiarazione introduttiva alla conferenza stampa di Mario Draghi, Presidente della BCE, VÃtor Constâncio, Vicepresidente della BCE, Francoforte sul Meno, 10 marzo 2016.
Il testo completo e lo scambio con i giornalisti della stampa internazionale si possono leggere athttp://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2016/html/is160310.en.html.
^
2 Si veda
Come la solidità economica interna può prevalere sulla debolezza mondiale, Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, al ricevimento organizzato da DeutscheBörse Group in occasione del nuovo anno, Eschborn, 25 gennaio 2016. Il testo si può leggere, anche in lingua italiana, nel sito web della BCE at http://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp160125_1.it.html.
^
3 Si veda
Come le banche centrali affrontano la sfida dell’inflazione bassa, MarjolinLecture tenuta da Mario Draghi, Presidente della BCE, alla Conferenza SUERF organizzata dalla Deutsche Bundesbank, Francoforte, 4 febbraio 2016. Si può leggere athttp://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp160204.it.html .
In particolare Draghi esprime una scala di ragioni per avere sotto controllo l’inflazione: «È dunque vero che i mutamenti strutturali osservati oggi esercitano un impatto permanente sui livelli di inflazione di lungo periodo?
Un elemento evocato spesso a questo riguardo è il cambiamento demografico. Benché preluda senz’altro a importanti mutamenti economici, il suo impatto sull’inflazione non è chiaro
ex ante. Potrebbe esercitare spinte al ribasso sui prezzi se la domanda aggregata diminuisce più dell’offerta aggregata. È però altrettanto possibile che generi pressioni al rialzo: secondo l’ipotesi del ciclo di vita, in un contesto di invecchiamento della popolazione gli anziani finiscono per ridurre il risparmio e aumentare i consumi. La prevalenza di uno dei due effetti dipende da una serie di fattori. Sembra in ogni caso improbabile che questo cambiamento riesca a spiegare il motivo per cui l’inflazione si colloca oggi su livelli bassi in economie avanzate con profili demografici molto diversi […] Altri mutamenti strutturali sono altresì percepiti da alcuni come all’origine di un impatto di lungo periodo sull’inflazione. Uno di questi è l’inversione del ciclo di lungo periodo dei prezzi delle materie prime. Un altro è il cambiamento tecnologico, e in particolare il commercio elettronico, che accrescendo la trasparenza di prezzo e la concorrenza tra fornitori e distributori può mantenere i prezzi su livelli bassi. Un terzo è la globalizzazione, che può far aumentare l’importanza dei prezzi mondiali rispetto a quelli interni e rendere più difficile per le economie avanzate evitare di importare disinflazione dall’estero […]. Non esiste quindi alcun motivo per cui tali cambiamenti strutturali debbano rendere irraggiungibili i nostri attuali obiettivi di stabilità dei prezzi. Essi possono generare forze disinflazionistiche a livello mondiale, ma queste sono di natura transitoria. Se tuttavia dette forze esercitassero un impatto
persistente sull’inflazione, vale a dire se si radicassero nella dinamica dell’inflazione e nelle aspettative di inflazione, allora questo potrebbe incidere sul nostro obiettivo. Non si tratta però di un problema strutturale, bensì di una questione di credibilità della politica monetaria come ancora delle aspettative di inflazione».
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4 Il Comunicato Stampa della BCE elenca in questo modo le decisioni che, il 10 marzo 2016, il Consiglio Direttivo della BCE ha adottato:
(1) Il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell’Eurosistema è ridotto di 5 punti base, allo 0,00%, a decorrere dall’operazione con regolamento il 16 marzo 2016.
(2) Il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento marginale è ridotto di 5 punti base, allo 0,25%, con effetto dal 16 marzo 2016.
(3) Il tasso di interesse sui depositi presso la banca centrale è ridotto di 10 punti base, al -0,40%, con effetto dal 16 marzo 2016.
(4) Gli acquisti mensili nel quadro del programma di acquisto di attività sono ampliati a 80 miliardi di euro a partire da aprile.
(5) Nell’elenco delle attività ammissibili per gli acquisti regolari sono incluse obbligazioni investment grade denominate in euro emesse da società non bancarie situate nell’area dell’euro.
(6) A partire da giugno 2016 viene introdotta una nuova serie di quattro operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (OMRLT II), ciascuna con scadenza a quattro anni. Il tasso di interesse applicato a queste operazioni potrà essere ridotto fino a raggiungere un livello pari al tasso sui depositi presso la banca centrale.
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5 Si veda ancora una volta
Come le banche centrali affrontano la sfida dell’inflazione bassa, Marjolin Lecture tenuta da Mario Draghi, Presidente della BCE, alla Conferenza SUERF organizzata dalla Deutsche Bundesbank, Francoforte, 4 febbraio 2016.
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6 Si veda
Politica Monetaria e Riforme Strutturali nell’area dell’euro, Intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, Prometeia40, Bologna, 14 dicembre 2015.
Il testo integrale si può leggere athttps://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp151214.it.html.
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7 Si vedano Luigi Zingales,
I tempi della finanza, i tempi della democrazia, Il Sole 24 ore, 28 febbraio 2015 http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-06-28/i-tempi finanzatempi-democrazia-081428.shtml?uuid=ACBLCNI; Alberto Quadro Curzio,
L’Unione che manca e i passi mai fatti, Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2015 http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-06-28/l-unione-che-manca-e-passi-mai-fatti-094759.shtml?uuid=ACKpyNI; ed ancheLorenzo Bini Smaghi,
Così il paese ha già perso, Corriere della Sera, 28 giugno 2015; http://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20150628/281535109640907/TextView.
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8 L’ingresso di Draghi nel ruolo di presidente della BCE coincide con la nascita del Governo Monti in Italia. Il parallelo sviluppo delle loro politiche si può leggere in M. Lo Cicero, Diario italiano (2011-2012).
Il panorama economico da un autunno all’altro: Draghi e Monti (ottobre 2012), in «L’Acropoli», 14 ( 2013) pp. 9-50. L’articolo si può leggere sul sito web della rivista: http://www.lacropoli.eu/indice.php?autore=Lo+Cicero+Massimo . In particolare vale la pena di citare l’impianto con il quale Monti propone una sorta di manifesto per la politica economica europea che, purtroppo, nel seguito degli eventi risulta uscire di scena. Si legge nel testo dell’articolo appena ricordato che «I primi passi del Governo Monti, come in ogni brusco trapasso, sono stati lenti ed, a volte, anche contraddittori. Troppi cambiamenti ed un doppio handicap: da una parte una ridondanza di ministri tecnici che erano anche alti dirigenti della pubblica amministrazione. Un Governo tecnico dovrebbe comunque essere un Governo che si pone in una relazione dialettica con la dimensione e le culture della pubblica amministrazione. Coinvolgere alti dirigenti nella struttura del Governo genera un paradosso: i “macchinisti†vengono trasferiti nella “macchina†della pubblica amministrazione che dovrebbero gestire, e che in effetti gestivano anche prima del trasferimento in questione. Questa condizione genera una successiva contraddizione: la distanza che si crea tra Governo e Parlamento, che pure ha votato a larghissima maggioranza la nomina del Governo, in ragione della stretta relazione tecnica, tra Ministri ed alti dirigenti, confusi nella medesima funzione. La mancanza di un canale di comunicazione tra Governo e Parlamento non ha consentito di utilizzare in maniera compiuta la dimensione latitudinale della maggioranza e la profondità della cultura professionale dei ministri in carica. Molti provvedimenti hanno finito per essere manipolati troppe volte ed, anche dopo approvazione, non hanno generato tempestivamente gli atti amministrativi necessari perché essi fossero trasformati in atti e processi e non rimanessero solo dichiarazioni programmatiche o di principio. La prima impressione, nel trapasso dall’inverno del 2011 alla primavera del 2012, poteva anche sembrare opaca od appannata. Ma in primavera arrivano due segnali importanti: uno dal fronte del Governo, che si proietta, grazie al protagonismo del presidente del Consiglio dei Ministri, in una dimensione europea. L’altro da parte di Mario Draghi, che avvia una virata significativa rispetto alla stagione della presidenza precedente della BCE, quella governata da Jean-Claude Trichet.Eppur si muove, viene voglia di dire del Governo Monti alla fine del febbraio del 2012: si manifesta una spinta per aggredire il sentiero della crescita e ridurre burocrazie ed ambiguità nella costruzione del mercato unico europeo. David Cameron e Mario Monti, insieme con altri dieci capi di Stato e di Governo, inviano una lettera al presidente della Commissione ed al presidente del Consiglio Europeo, e per conoscenza ai componenti dello stesso Consiglio, dal denso contenuto politico. Una lettera che è un vero e proprio manifesto che riapre il confronto su cosa sia, dove debba andare e come possa arrivare ai suoi traguardi il grande mercato unico europeo. Si tratta di una lettera che espone un’agenda politica in otto punti programmatici, con una premessa impegnativa e netta: “Ci incontriamo a Bruxelles in un momento pericoloso per le economie in tutta Europa. La crescita è in stallo. La disoccupazione è in aumento. L’Europa dispone di molti assets “fondamentaliâ€, ha radici solide. Ma la crisi che stiamo affrontando è anche una crisi di crescita […] Abbiamo bisogno di ripristinare la fiducia tra cittadini, imprese e mercati finanziariâ€. Gli otto punti dell’agenda sono questi: 1. migliorare le regole del mercato unico; 2. creare un vero mercato digitale; 3. costruire un mercato interno dell’energia; 4. dare vita all’Area europea della Ricerca; 5. favorire gli accordi commerciali nel mercato globale, governare la globalizzazione rifiutando suggestioni autarchiche; 6. ridurre l’onere delle regole comunitarie per imprese e cittadini; 7. promuovere un mercato del lavoro che possa produrre occupazione ed integrare gli attori più deboli e meno tutelati; 8. costruire un sistema di intermediari finanziari che produca lavoro ed offra servizi utili alla popolazione ed alle imprese. Mentre, dopo il 2012 si afferma il paradigma della politica monetaria non convenzionale, della politica fiscale e della necessità delle riforme da parte dei Governi in carica: la terna che diventa la formula, ancora oggi produttiva di risultati, della politica di Mario Draghi
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9 TOWARDS A GENUINE ECONOMIC AND MONETARY UNION, Consiglio di Europa, Dicembre 2012 http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/ec/134069.pdf
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10 Si veda
Completare L’Unione economica e monetaria dell’Europa, Relazione di: Jean-Claude Juncker in stretta collaborazione con Donald Tusk, JeroenDijsselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz, Commissione Europea, 2015 https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/other/5presidentsreport.it.pdf?cb9314da752de77719aa12510cb32d80.
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11 Sia consentita una parentesi che amplifica il contenuto degli sviluppi che maturano dopo il 2014 i modi e le scelte da parte di Mario Draghi. Si tratta di un testo pubblicato in M. Lo Cicero,
Draghi & Fischer: accademia e management. La macroeconomia micro fondata. Politica monetaria e politica fiscale, in «L’Acropoli», 16 (2015) pp. 7-28, qui p. 11. L’articolo si scarica dal sito web della rivista:http://www.lacropoli.eu/indice.php?autore=Lo+Cicero+Massimo.
«Ricapitolando il perimetro dei tre piani di analisi, dai quali parte Draghi, si ottiene questa terna: una costruzione politica ha generato la moneta ed il mercato unico; la fiducia nella moneta della Banca Centrale Europea allarga lo spettro della sua presenza quando alla moneta si affiancano la moneta bancaria, i depositi, e l’insieme degli strumenti monetari e finanziari utilizzati dalle banche e dai mercati finanziari nell’Unione europea; se viene rallentato un processo, che è stato proposto e del quale si intende raggiungere il risultato da ottenere, non si può restare troppo tempo in una condizione di stallo, perché l’allungarsi della mancata azione induce, con molta probabilità , la scomparsa del risultato dell’azione. In altre parole se non si rimette in moto il processo di convergenza politica verso un più identificabile assetto istituzionale dell’Unione Europea potrebbe non esserci più l’Unione, sbriciolandosi progressivamente parte della stessa, a partire dalle nazioni in cui si presentino insofferenze e rifiuti sulla natura dell’assetto finale dell’Unione. In questo perimetro si collocano molte ipotesi di lavoro interessanti e di sperimentazione sulle politiche economiche che, sinteticamente, riproponiamo al lettore.
La scomparsa delle monete nazionali, e la creazione simmetrica di una moneta unica, ridimensionano il tasso di cambio come variabile controllabile dagli Stati nazionali durante gli shock sulla economia ed il mercato domestico del singolo paese. Condividere politica monetaria e politica fiscale, cercando di far convergere lo spettro della produttività tra le varie economie appartenenti all’Unione, aiuta i Governi, che vogliano cooperare tra loro. Fermo restando il fatto che la rinuncia ad utilizzare il tasso di cambio per svalutare o rivalutare la propria moneta rimane un costo. Questo costo dovrebbe essere pareggiato da un beneficio, quello della cooperazione e del coordinamento reciproco tra i Governi, almeno uguale al costo sopportato. Altrimenti la fuga dall’Unione, di un Governo e dello Stato che lo guida, potrebbe iniziare, a partire dalle economie più marginali, traducendosi, probabilmente in una valanga. Purtroppo lo spettro troppo largo, di una differenza tra la produttività ed i livelli di vita, nelle varie economie nazionali, produce il paradossale effetto di obbligare all’uso di una moneta sopravalutata, l’euro, paesi deboli come la Grecia, la Spagna e l’Italia. Regalando, al contrario, una moneta sottovalutata, l’euro, a paesi forti, come la Germania ed i paesi Baltici. In questo caso le economie più forti si aggiudicano un cambio che le aiuta ad esportare e quelle più deboli devono subire una moneta troppo forte per poter allargare le proprie esportazioni. Per riequilibrare questo processo negativo, ed evitare la prospettiva di eventuali “fughe†dall’area dell’euro, Draghi ipotizza una maggiore flessibilità ed una più attenta allocazione degli investimenti e della produzione nelle singole nazioni».
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12 Si vedano
Le recenti misure di politica monetaria della BCE: efficacia e sfide, Camdessus Lecture di Mario Draghi, Presidente della BCE, FMI, Washington D.C., 14 maggio 2015 che si può leggere athttp://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2015/html/sp150514.it.html ed il
Rapporto annuale 2014 della BCE, athttp://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/annrep/ar2014it.pdf?83446d70180a67ef7b6a82b2ae519848
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13 Si vedanoEuropean Economic Forecast, EUROPEAN ECONOMY 1|2015 Economic and Financial Affairs Winter 2015, at http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/european_economy/2015/pdf/ee1_en.pdf ma anche OVERVIEW DI EUROPEAN ECONOMY 1|2015 che si può leggere athttp://ec.europa.eu/economy_finance/eu/forecasts/2015_winter/overview_en.pdf .
Infine si veda BANCA CENTRALE EUROPEA, Eurosistema, Bollettino economico, Numero 1/2016, da leggere at https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/bollettino-eco-bce/2016/bol-eco-1-2016/bollecobce-01-16.pdf
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14 Sulla dimensione nazionale di una politica economica, capace di includere e ridimensionare i divari che separano le due Italia si vedano
RAPPORTO SVIMEZ 2015 SULL’ECONOMIA DEL MEZZOGIORNO INTRODUZIONE E SINTESI, che si legge athttp://www.svimez.info/images/RAPPORTO/materiali2015/2015_10_27_linee.pdf ed anche il “Rapporto SVIMEZ 2015 sull’economia del Mezzogiornoâ€, slides che si può leggere athttp://www.svimez.info/images/RAPPORTO/materiali2015/2015_10_27_slides.pdf
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15 Si veda
Come la solidità economica interna può prevalere sulla debolezza mondiale, Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, al ricevimento organizzato da Deutsche Börse Group in occasione del nuovo anno, Eschborn, 25 gennaio 2016; si può leggere athttp://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp160125_1.it.html
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16 Nel mese di febbraio 2016 sono stati messi a confronto a confronto il sistema delle raccomandazioni, che la Commissione Europea ha inoltrato al Governo italiano, ed il documento che il Governo italiano ha inviato alla Commissione. Tendenzialmente la politica economica possibile, da parte del Governo italiano, si collega alle riforme di struttura ed alle politiche fiscali che dovrebbero lasciare spazio alle famiglie ed alle imprese riducendo tasse e spesa corrente. Passando dal crowding out al crowding in e dal circuito tra reddito e spesa alla dinamica della crescita. Staremo a vedere come e se questi obiettivi siano realizzabili, e con quali strumenti. Si veda il documento del Governo italiano,
A Shared European Policy Strategy for Growth, Jobs, and Stability, February 2016, at http://www.governo.it/sites/governo.it/files/ASharedPolicyStrategy_20160222.pdf.
Mentre le Raccomandazioni della Commissione Europea si possono leggere at http://ec.europa.eu/europe2020/europe-2020-in-your-country/italia/country-specific-recommendations/index_en.htmedaltrettantointeressante è questo COMMISSION STAFF WORKING DOCUMENT Country Report Italy 2016 Including an In-Depth Review on the prevention and correction of macroeconomic imbalances chesilegge at http://ec.europa.eu/europe2020/pdf/csr2016/cr2016_italy_en.pdf
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17 Ma, nella prima metà del 2015, quando ancora non viene in evidenza la frenata, generata dalle tensioni geopolitiche e dal ribaltamento tra paesi emergenti ed economie domestiche dell’Unione Europea, emergono alcune questioni analitiche sulla politica economica. Ancora una volta riporto una parziale descrizione tratta da M. Lo Cicero,
Il futuro possibile dell’Unione Europea. Ragionando sulle opinioni di Paolo Savona e Mario Draghi, in L’Acropoli, 16(2015), pp. 459-485, qui 460-61 «Tre interventi di Mario Draghi4, alla Camera dei Deputati (marzo 2015), al Fondo Monetario Internazionale (maggio 2015) ed all’ECB Forum on Central Banking svoltosi a Sintra in Portogallo (maggio 2015) hanno offerto una gamma interessante ed approfondita dei temi che riguardano la relazione tra la politica monetaria, la strategia fiscale dei Governi, la esigenza di mettere in movimento processi di cambiamento, appunto le “riforme†di cui si parla, forse con qualche eccesso di ambiguità implicita nei contenuti che quelle riforme dovrebbero esprimere nell’ambito di ognuno dei perimetri statali europei». Il testo completo si trova nel sito web della rivista L’Acropoli: http://www.lacropoli.eu/indice.php?autore=Lo+Cicero+Massimo.
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18 Si veda un addendum interessante, nel sito web dell’Istat, sul pil italiano e le sue conseguenze http://www.istat.it/it/files/2016/03/CS_pil-indebitamentoAP-2016_MARZO_nota-metod.pdf?title=Pil+e+indebitamento+delle+AP+-+01%2Fmar%2F2016+-+Testo+integrale+con+Nota+metofdologica.pdf
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19 Si vedanoWORLD ECONOMIC OUTLOOK (WEO) UPDATE, “Subdued Demand, Diminished Prospectsâ€, January 2016 chesipuòleggere at http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2016/update/01/index.htm.
Ed anche Banca d’Italia, Bollettino Economico n. 1-2016; Le prospettive globali restano esposte a rischi, che si può leggere athttps://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/bollettino-economico/2016-1/index.htm.
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20 Si veda
Come la solidità economica interna può prevalere sulla debolezza mondiale, Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, al ricevimento organizzato da DeutscheBörse Group in occasione del nuovo anno, Eschborn, 25 gennaio 2016, si legge athttps://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp160125_1.it.html.
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21Si veda L. Reichlin,
Europa, la difficile partita dell’Italia, Al di là dell’uscita della Gran Bretagna, il ruolo del nostro Paese è tutto da chiarire, sul «Corriere della Sera» del 27 marzo 2016, si può leggere anche athttp://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_27/europa-difficile-partitadell-italia-272e3bd6-f390-11e5-aa73-ceab61eba560.shtml
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22 Si veda un articolo di Raghuram Rajan,
Valute, serve una nuova Bretton Woods, sul «Sole 24 ore» del 27 marzo 2016. Il testo si può leggere anche athttp://www.ilsole24ore.com/art/ commenti-e-idee/2015-12-29/il-mondo-ha-bisogno-una-pace-monetaria-071349.shtml uuid=AC6OhD1B.
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23 Si veda, sulle riforme strutturali e le politiche di bilancio, un testo particolare ed interessante Gauti Eggertsson Brown University, Andrea Ferrero FRB New York, Andrea Raffo Federal Reserve Board,
Can StructuralReforms Help Europe? May 23, 2013, che si legge athttp://www.econ.brown.edu/…/Gauti…/papers/CR_April15.pdf.
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24 Si vedano O. Blanchard,
Greece: Past Critiques and the Path Forward, July 9, 2015 che silegge at http://blog-imfdirect.imf.org/2015/07/09/greece-past-critiques-and-the-path forward ma anche WEO Update, IMF,
Slower Growth in Emerging Markets, a Gradual Pickup in Advanced Economies, July 2015 che si può leggere at http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2015/update/02/pdf/0715.pdf.
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