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Senza Educazione
di
Giovanni Carosotti
Il punto di vista sostenuto da Adolfo Scotto di Luzio nel suo ultimo studio (Senza Educazione I rischi della scuola 2.0, Bologna, Il Mulino 2015) è quanto di più inattuale possa concepirsi, se si fa riferimento alle linee guida sulla didattica prevalenti ormai da due decenni nelle stanze del Ministero dell’Istruzione. Nonostante ciò, l’argomentazione di Scotto Di Luzio è problematica e non assertiva, propone dubbi e si mostra totalmente aliena da presupposti dogmatici. Nel farlo, però, non può che far risaltare la grossolanità dei fondamenti pedagogistici sui quali è impostata la cosiddetta “didattica innovativaâ€, metodologia ormai fattasi norma con l’approvazione della Legge 107. Ne deriva una conseguenza paradossale, poiché sono proprio le argomentazioni ministeriali, che pure si concepiscono e si autocelebrano come esito in qualche modo inoppugnabile di una rivoluzione di ordine cognitivo che si sarebbe verificata negli ultimi vent’anni, a presentare i classici tratti del dogmatismo. Ciò che emerge infatti dalla lettura di alcune pagine del testo di Scotto di Luzio è il carattere retorico delle teorie che vorrebbero sostenere la didattica digitale, le quali fanno riferimento a procedure sperimentali quanto meno dubbie, tutt’altro che rigorose nel loro argomentare, in cui sono totalmente assenti i dati probanti. In alcuni casi ci si trova di fronte a una strategia volta ad avvalorare risultati già presupposti in base a pregiudiziali ideologiche. Tale prospettiva dogmatica è incapace di porsi obiezioni e, soprattutto, è terrorizzata dall’ipotesi che si possano presentare dati falsificanti, debitamente ignorati. Come spesso infatti capita in questo tipo di letteratura, laddove l’argomentazione dovrebbe stringere su conclusioni necessitanti, compaiono invece «valutazioni impressionistiche in contrasto con i dati reali», in linea con la «fumosità degli scopi».
Da questo punto di vista, l’incipit dello studio in oggetto è rivelativo e avvince il lettore quasi ci si trovasse di fronte a una sapiente struttura drammaturgica, presentata non senza una sottile ironia. Scotto di Luzio fa riferimento a un progetto intitolato «Cl@ssi 2.0», risalente al 2009, il cui rapporto finale può essere consultato sul sito del MIUR. Dal costo tutt’altro che marginale (5 milioni di Euro), il progetto ha prodotto dei risultati quanto meno deludenti, la cui inadeguatezza è confessata nel documento conclusivo, laddove si dà conto delle difficoltà incontrate nel realizzare corrette verifiche, a causa dell’«“inquinamentoâ€Â» e della «“contaminazione†della scena sperimentale. Nessuna distinzione, ad esempio, è stata garantita tra classi sperimentali e classi di confronto; i computer sono stati utilizzati indiscriminatamente da tutti, mandando così all’aria qualsiasi ipotesi di valutazione contro fattuale dell’esperimento». Le classi hanno lavorato in modo diverso, molti Dirigenti Scolastici hanno selezionato gli studenti migliori; tutto ciò in mancanza di protocolli capaci di tracciare con rigore le linee guida dell’esperimento. Nonostante il sostanziale fallimento del progetto, il responsabile dello stesso, Vittorio Campione, ne conclude comunque che «i sistemi educativi che usano le tecnologie […] sono più efficaci e […] probabilmente più equi». Più prosaiche invece le conclusioni dell’Autore: «abbiamo speso 5 milioni di Euro per mettere i banchi a spina di pesce e per creare isole d’apprendimento».
Quanto Scotto di Luzio intende sostenere in queste prime pagine – e la valutazione gli serve per impostare l’analisi di più ampio respiro contenuta nel volume – è l’incapacità della cosiddetta “scuola digitale†a garantire eguali condizioni di partenza a tutti gli alunni. Il che fa comprendere il carattere quanto meno improvvisato della sperimentazione sopra ricordata, e sorprende il credito attribuito dal Ministero a un lavoro tanto inefficiente; probabilmente era già orientato a convalidare conclusioni predeterminate, garantendone il carattere scientifico nonostante le tesi non suffragate. Procedura, peraltro, recentemente denunciata – anche qui con un intervento adeguatamente ironico – da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera.
Per quale motivo la scuola digitale non garantirebbe l’eguaglianza? Una simile affermazione sembra in effetti stridere con il senso comune, il quale ovviamente ritiene le competenze digitali un elemento non più eludibile nella preparazione di qualsiasi giovane, al fine di renderlo competitivo. Un prima argomentazione è che l’istruzione digitale non ha senso se non si mettono in grado gli alunni di approfittare delle tecnologie (hardware e software) più recenti; e poiché l’informatica rappresenta un ambito di applicazione tecnologica ad alto tasso di sostituibilità e di invecchiamento precoce, essa presuppone un livello di investimento estremamente elevato. Poco credibile da realizzare in una fase storica impegnata al risparmio della spesa pubblica, tanto da prefigurarsi la scuola digitale quale vero e proprio «lusso educativo», possibile solo in alcuni istituti favoriti da ben precisi contesti territoriali. Da valutare è poi il fatto che le famiglie degli alunni possiedono differenti disponibilità nel sostenere i ragazzi con risorse tecnologiche adeguate. A questo proposito, nel Capitolo 5, Scotto di Luzio ricorda un’inchiesta realizzata tra il 2001 e il 2002 negli Stati Uniti, il cui risultato è stato quello di affermare come la «tecnologia […] serve a ribadire, in alcuni, il proprio privilegio, negli altri la propria sconfitta».
In effetti, buona parte degli studi che si interrogano sulle conseguenze cognitive di una didattica impostata unicamente sulla tecnologia digitale, laddove questa è in atto da tempo, non fanno che confermare lo «sciocco chiacchiericcio sulle promesse della tecnologia e sui nativi digitali (come per ogni nativo, quello che conta è il lato della barricata sociale rispetto alla quale si ha la fortuna di nascere)». Lo studio di Scotto di Luzio ha il merito di richiamare «l’attenzione su una considerazione realistica della disuguaglianza sociale invece che sulla disuguaglianza tecnologica, che della prima è una mera trascrizione». In altre parole, neanche la scuola digitale è in grado di risolvere il problema delle non eguali condizioni di partenza, come previsto dalla Costituzione repubblicana.
Questa convinzione possiede anche un importante valore metodologico; il continuo riferimento ai fondamenti scientifici guadagnati in questi anni dalle teorie cognitivistiche (in realtà un’insieme di teorie fra loro concorrenti, nessuna delle quali è in grado di imporsi in modo definitivo; e rispetto alle quali è tutt’altro che evidente la traduzione in una concreta metodologia didattica) non è altro che un tentativo di introdurre nelle nostre scuole un modello didattico mutuato dall’esperienza anglo-americana. Per cui sarebbe utilissimo valutare le riflessioni che, in quell’ambito, sono state prodotte per verificare l’efficacia di quelle stesse metodologie; pubblicazioni invece puntualmente ignorati dal MIUR e dai pedagogisti che tali innovazioni sostengono. Si pensi, a proposito, ai fondamentali contributi di L. Shiner jr, che affossano definitivamente la retorica delle competenze, per cui ciò che conta è non il “contenuto†ma il “processoâ€. Laddove lo studioso americano dimostra che le competenze metodologiche possono acquisirsi solo attraverso un serio studio dei contenuti, e non a prescindere dagli stessi. Oppure al lavoro di Keith Sawyer – citato da Scotto di Luzio –, il quale ricorda quanto siano ancora oggi prematuri i tempi per valutare le concrete ricadute sul piano cognitivo della didattica digitale. Per cui non è affatto detto che i risultati didattici ottenuti con il costoso investimento nella tecnologia digitale non si possano raggiungere, o anche migliorare, con altre strategie tradizionali meno impegnative, inevitabilmente sacrificate dalla didattica innovativa.
La scuola digitale, però, nelle intenzioni dei documenti ministeriali, ha ben altri fini: non intende tanto favorire l’accesso all’innovazione tecnologica (proposito verso il quale non ci sarebbe nulla da obiettare), quanto quello di obbligare a mutare surrettiziamente e in modo sostanziale la metodologia didattica nel segno delle competenze. Da questo punto di vista il digitale non viene ritenuto importante sul piano dell’apporto tecnologico, bensì quale modello cognitivo sul quale impostare in modo esclusivo la trasmissione del sapere, per qualsiasi orizzonte disciplinare, sino a dissolverlo nella sua specificità . Il principio da cui parte la scuola digitale, stando alle parole del MIUR, è infatti quello per cui «la conoscenza è frammentata e le discipline […] vanno integrate in nuovi quadri d’insieme. E per questo, al ministero, ritengono “occorra†trasformare gli ambienti d’apprendimento, i linguaggi della scuola, gli strumenti di lavoro e i contenuti. Praticamente tutto […]».
Buona parte dello studio di Scotto di Luzio è dedicato al confronto con tale idea di rivoluzione pedagogica, di cui la didattica digitale assolve solo la funzione di schermo ideologico. Anzi, la tesi di fondo è che la cosiddetta rivoluzione digitale non ha affatto a cuore l’innovazione tecnologica che possa supportare la libertà d’insegnamento dei singoli docenti; piuttosto in base alla retorica di dover assicurare a tutti i giovani la competenza digitale, rivoluzionare metodologie e contenuti della didattica in funzione di un obiettivo tutt’altro che neutro. La vera finalità è infatti quella di piegare l’intero processo formativo alle richieste del mondo del lavoro. Come sostiene l’autore «mai […] si è dovuto assistere a un tentativo così smaccato di sottomettere l’intera sfera dei suoi significati [riferimento alla sfera educativa, [N.d’A.] alla necessità della subordinazione salariale».
Tale proposito implica la rinuncia al valore dell’educazione, che trova senso solo in riferimento a una pratica, quella dello “studioâ€, ormai totalmente assente dal lessico della nuova pedagogia. Esso presuppone l’apprendimento da parte degli studenti di determinati contenuti, insegnati da un docente che deve declinarli in base alle individualità che ha di fronte e dello specifico gruppo classe nel suo complesso; al suo posto una «triste e reiterata ingiunzione di adeguamento alle richieste di conformità avanzate dal mercato del lavoro e del sistema delle imprese». La conseguenza è che «viene esplicitamente perseguita la disponibilità dei singoli a lasciarsi plasmare secondo le esigenze della loro mutevole e incerta impiegabilità ». Si tratta di un’osservazione importante: la “didattica innovativa†pretende di rappresentare, contro lo squallore uniformante del nozionismo di derivazione neoidealistica – luogo comune peraltro completamente infondato dal punto di vista filologico –, una forma di didattica che pone finalmente al centro dell’impegno docente la personalità del singolo alunno. In realtà si rivela un processo quanto più uniformante si possa immaginare, in una logica della generalità della prestazione quasi totalitaria. Come scrive Scotto di Luzio, si tratta di una «riduzione della scuola a un modello standard su brutali fondamenti comportamentistici», che rende superflua la relazione individuale maestro-allievo. Con corretto riferimento storico, l’Autore scrive: «tutta la tradizione umanistica è incentrata sulla nozione suppletiva del maestro che nemmeno nel caso dell’insegnamento scientifico è autorizzato a sostituirsi all’allievo». Ridurre l’educazione all’efficienza significa invece sacrificare proprio la personalità dell’alunno. Poiché la finalità è quella di valorizzare non l’intelligenza individuale, ma di rendere trasformabili quelle stesse menti secondo le finalità stabilite dalla logica produttiva; riducendo «l’educazione all’efficienza», è evidente che l’esito sarà quello di forgiare individui di bassa qualità intellettuale, destinati ad essere manodopera precaria e subordinata sul piano salariale.
Tale uniformità non è però affatto garanzia di uguaglianza, in quanto creerà fratture sempre più profonde fra coloro che – per vivere in un fortunato contesto familiare e sociale potranno comunque accedere a contenuti culturali significativi, e coloro che ne saranno invece esclusi. Si ritorna, paradossalmente, alla logica dell’esclusione ottocentesca; spesso, quando si parla di “competenzeâ€, si fa riferimento a un concetto nato nel mondo dell’impresa e molto problematicamente trasferito nel campo dell’istruzione. È bene invece ricordare, come fa Scotto di Luzio, quanto la parola, nel suo originario contesto ottocentesco, non si riferiva al mondo del lavoro in generale, bensì a quello del lavoro subordinato. Ovvero, la competenza era l’abilità da consegnare a chi – quasi sempre per provenienza sociale- veniva escluso dall’emancipazione garantita da un completo percorso d’istruzione; sufficiente invece a assicurargli la possibilità di un lavoro subordinato, dal punto di vista sociale e dal punto di vista salariale. Altro che individualismo, qui si afferma la pura disuguaglianza sociale, e la rinuncia alle finalità più alte che la scuola democratica aveva saputo assolvere.
In che modo la tecnologia digitale viene piegata a questo fine produttivistico? Nel momento in cui non diventa una modalità di trasmissione del sapere in relazione ai fini formativi perseguiti dall’insegnante, ma brutale modalità di struttura cognitiva che piega la comunicazione docente entro binari stabiliti, standardizzati e impersonali. Alla logica dell’interpretazione e della storiografia, che di per sé pone a confronto, rendendole irriducibili, le persone del maestro e dell’allievo, creando quel meccanismo di istruzione reciproca nel pur asimmetrico rapporto educativo, si sostituisce come obiettivo il problem solving, ovvero una «facoltà generale dell’intelligenza». Ciò comporta il concepire l’intelligenza stessa non come determinata storicamente da tutta una serie di contesti («diverse modalità storicamente date di misurare le variabili dell’intelligenza», o di «determinare da parte di ogni società il profilo del proprio individuo medio», oppure la «dipendenza dei contenuti dalle immagini e dagli orientamenti valoriali»), bensì come un modello semplicistico senza adeguati fondamenti sperimentali, che rappresenta un «ritorno all’ordine dal sapere funzionalista». In linea con la semplificazione linguistica che, dalla sfera della politica a quella della comunicazione mediatica, investe tutti i settori nevralgici, dal punto di vista formativo, della nostra società ; contro cui la scuola in questi anni ha cercato di opporre una decisa resistenza, contrapponendo la logica dialogante della storiografia al principio della soluzione univoca dei problemi. Una visione dualistica del sapere che elimina le sfumature, e che ritiene come ogni incertezza possa essere risolta tramite una soluzione tecnocratica.
In che cosa dunque la didattica digitale comprometterebbe i principi su cui si è fondata la scuola repubblicana e democratica? Essa, nella sua uniformità , impedisce di elaborare «una risposta personale a un problema di natura intellettuale o morale». In altre parole, la scuola rinuncia alla finalità prioritaria di formare il cittadino democratico, quello che si sa confrontare con atteggiamento di libertà intellettuale rispetto a tutte le problematiche che attraversano il corpo sociale. Personalità democratica che è impossibile da formare rinunciando alla conoscenza astratta, presi unicamente dalla preoccupazione di offrire contenuti cognitivi immediatamente spendibili; in realtà prospettiva miope, se si pensa alla continua sostituibilità di quei saperi nel contesto contemporaneo.
Come scrive l’autore, il vero obiettivo della scuola rimane, o dovrebbe rimanere, quella di «essere competente nella vita pubblica». La nuova scuola digitale «cessa di essere il luogo di un training effettivo delle persone; agli studenti richiede una trainability, una disponibilità tecnica a lasciarsi plasmare». L’insofferenza dei giovani per il libro cartaceo, da questo punto di vista, risulta già essere un risultato di questa azione volta a condizionare le menti; questa enfasi sul digitale, a cui vengono affidate responsabilità formative che non gli competono, rafforzano proprio questo pregiudizio, boicottando di fatto il lavoro dei docenti contro la logica semplificante del linguaggio oggi prevalente.
Una didattica così impostata annulla la funzione del docente, cui si impedisce di realizzare «quella ricerca di senso necessaria per stabilire chi hanno di fronte e quali siano i loro bisogni di crescita». Ma, come conclude l’autore, l’idea di crescita sembra totalmente aliena alle menti dei nuovi legislatori: crescere infatti «non vuol dire prepararsi a una professione», ma saper agire con responsabilità all’interno di una società democratica.
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