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Ferruccio Capelli - La Porta Rossa
di Giovanni Carosotti
La pubblicazione di Ferruccio Capelli [Ferruccio Capelli, La Porta Rossa. 70 anni di Casa della Cultura tra storia e idee, edizioni casa della cultura, Milano 2016], uscita in occasione dei settanta anni di vita de La Casa della Cultura di Milano, non si presenta affatto come testo puramente celebrativo, seppure nei confronti di un’istituzione altamente meritoria, che ha segnato positivamente la vita culturale milanese del secondo dopoguerra; né, nonostante il sottotitolo, come una semplice ricostruzione storica dell’istituzione, la cui vicenda, per i progetti, i nomi dei protagonisti, nonché per i contenuti affrontati nel corso dei decenni in contemporanea a continue, quasi sempre drammatiche, svolte storiche, è già di per sé esaltante. È soprattutto un testo di battaglia, militante, senza peraltro che tale caratteristica attribuisca allo studio qualsiasi atteggiamento retrò o nostalgico.
Conviene sgomberare subito il campo da possibili fraintendimenti: poiché la storia della Casa della Cultura è stata, nel secondo dopoguerra, in forte relazione con il percorso politico-culturale del Partito Comunista italiano –sia pure, come avremo modo di notare, con un’assoluta indipendenza- ci si potrebbe aspettare una rivendicazione di tipo identitario, una difesa a oltranza di ragioni ritenute decisive ad onta del loro esplicito anacronismo nell’epoca della globalizzazione. Niente di più distante dall’atteggiamento di Capelli il quale, da direttore degli ultimi sedici anni della Casa della Cultura, ha saputo non solo interagire e accettare quali sfide le nuove trasformazioni, ma ha dimostrato, con alcune iniziative, di saperle anche anticipare. Il che non è solo un merito intellettuale, ma rende conto di come, in un contesto socio-culturale che sembrerebbe privare l’istituzione milanese di qualsiasi rilevante ruolo nella formazione dell’opinione pubblica, essa ha potuto proseguire con successo la propria esperienza.
Il senso della pubblicazione sta proprio nel difendere il carattere necessario della cultura, unico strumento idoneo a creare un’opinione pubblica consapevole rispetto alle potenti trasformazioni che interessano il mondo contemporaneo. Una convinzione della cui inattualità Capelli è assolutamente consapevole; inattualità motivata da una deriva del dibattito pubblico, all’interno del quale viene negato qualsiasi valore alla riflessione consapevole, approfondita, disponibile al confronto con le posizioni eventualmente antagoniste. Prevale oggi –anzi, in molti casi viene teorizzata esplicitamente- una tendenza alla semplificazione, al ragionamento schematico, che evita il ricorso alla contestualizzazione storica e all’analisi interpretativa, per proporre soluzioni, nei confronti di problematiche complesse, tanto semplici quanto inefficaci.
Un po’ oltre la meta dello studio in oggetto, Capelli propone una significativa definizione di cultura, che dà senso alle sue argomentazioni: «La cultura, alla fin fine, è un tentativo di decifrare e di dare ordine ai fenomeni del mondo e di tracciare, se e quando possibile, qualche indicazione utile per il futuro». Un compito più necessario negli anni recenti, laddove sono in corso trasformazioni così imponenti la cui logica sfugge agli stessi protagonisti della politica mondiale. L’esperienza della Casa della Cultura – ancora di più forse negli ultimi tempi è lì a dimostrare quanto la cultura, nel senso che abbiamo appena indicato, sia indispensabile; ma, soprattutto, quanto tale considerazione sia, nonostante l’intervento in senso contrario della maggior parte dei media (una perversa operazione di «pedagogia del consenso»), pienamente consapevole ai cittadini, quando debitamente informati; presso i quali prevale il desiderio di capire, di orientarsi, di entrare in dialogo con le personalità intellettuali dei più vasti campi disciplinari, nella volontà di non farsi irretire in ideologie e criteri di spiegazione semplificanti. Lo scopo che si prefigge la Casa della Cultura è proprio quello di creare senso critico, di stimolare la volontà di approfondimento e di interpretazione, e non quella di confermare gli interlocutori nelle proprie posizioni identitarie.
Ciò che sembra maggiormente preoccupare Capelli è che tale scetticismo nei confronti della cultura, il considerarla irrilevante nella ricerca di consenso presso l’opinione pubblica, sia stato fatto proprio dallo stesso personale politico della sinistra. Nella «sinistra light […] passavano in secondo piano insediamento sociale, chiarezza programmatica, ancoraggio ideale […] gli staff dei leader si riempivano di esperti di comunicazione e di sondaggi, e la discussione si concentrava sulla efficacia della presenza sui media». Una considerazione dolorosa, severa; ma, soprattutto, un dato di fatto che ha posto la Casa della Cultura di fronte a una sfida difficile da superare.
Non era certo la prima volta che l’istituzione si trovava ad affrontare una situazione di difficoltà; ma, subito dopo la guerra e nei decenni successivi, l’idea che la cultura fosse un movimento d’elaborazione d’idee che potesse fare da volano alla politica e darle credibilità era un dato acquisito. C’era semmai da ritagliarsi un ruolo di effettiva indipendenza rispetto alle logiche partitiche che intendevano sottoporre le istituzioni culturali a un parziale controllo, senza che nessuno mettesse in dubbio la necessità della loro esistenza. Per poter continuare a esistere e a incidere nell’attuale sfavorevole, nuovo contesto, senza rinunciare ai propri obiettivi, la Casa della Cultura ha ritenuto di dover valorizzare una relazione di carattere critico con i nuovi fenomeni; un tentativo di comprendere le motivazioni profonde della svolta in atto, della indisponibilità delle logiche del potere a lasciarsi coinvolgere da confronti di ordine culturale.
Capelli definisce tale posizione «umanesimo razionalista d’impronta illuministica non dogmatico», erede del progetto dei «padri fondatori» della Casa della Cultura: Antonio Banfi, Elio Vittorini e Eugenio Curiel. L’idea che la cultura dovesse avere un impegno pratico era convinzione di tutti, e trovava nel Galilei studiato da Banfi un riferimento ideale decisivo. Tre personaggi dalle idee convergenti ma esponenti di campi del sapere differenti (dalla filosofia, alla letteratura e alla scienza), uniti dall’esperienza della Resistenza e da un atteggiamento insofferente per ogni forma di dogmatismo. La Casa della Cultura nasce infatti come progetto già alla fine della guerra, negli stessi ambiti della Resistenza, nella convinzione che la ricostruzione del paese potesse positivamente realizzarsi solo attraverso un profondo rinnovamento culturale.
La cogenza con il Partito Comunista italiano poteva costituire un limite all’attività della Casa della Cultura, rinchiuderla in un orizzonte all’epoca in qualche modo giustificato ma che, alla lunga, ne avrebbe pregiudicato l’impatto ad ampio spettro sulla vita della città. Possibilità tutt’altro che remota con l’inasprirsi della guerra fredda, quando le posizioni di molti intellettuali tra i più creativi tendevano ad irrigidirsi. E non c’è dubbio che non furono i momenti migliori della storia della Casa della Cultura, quelli in cui i rapporti con il partito erano più espliciti. Ma fin da subito, e anche negli anni di maggiore tensione, questo rischio fu sapientemente evitato. Quando la direzione dell’istituzione fu in mano a Rossana Rossanda, per esempio, vennero sempre intensificati i rapporti con le altre componenti della sinistra, e in particolare con i socialisti. Anche nel momento della più aspra divisione, in particolare a seguito delle vicende ungheresi del 1956 –quando persino Antonio Banfi si lasciò irretire da una logica manichea-, mai venne meno alla Casa della Cultura questo confronto con i socialisti. La sede di via Borgogna fu luogo di dibattito, di confronto fra qualsiasi posizione progressista, compresa, negli anni successivi, quella cattolica. Confronto che non venne mai meno anche quando, con l’esperienza dei governi di centro-sinistra, la frattura politica tra comunisti e socialisti divenne di fatto irreversibile. Coloro che gestirono la Casa della Cultura dopo la scomparsa dei fondatori, e in particolare lo psicoanalista Cesare Musatti, che ne tenne la presidenza per circa vent’anni, agirono in piena continuità con queste intenzioni.
Ma la grande svolta storica, che rischiava di rendere superflua l’azione della Casa della Cultura, fu la fine della Guerra fredda. Un lungo processo storico, probabilmente degenerativo che, come abbiamo detto all’inizio, ha reso la questione della cultura irrilevante nella formazione dell’opinione pubblica, nella vita dei partiti, nella ricerca del consenso, relegandola a un gretto specialismo, sostanzialmente ininfluente. Non è un caso che la storia dei primi trent’anni, forse la più esaltante per chi ricorda con stima e entusiasmo intellettuale le straordinarie figure della cultura italiana che frequentavano l’associazione, occupi una parte relativamente minima del testo in oggetto. A partire dal quinto Capitolo, siamo già immersi nella cupa atmosfera della fine degli anni Novanta, successiva alla tragedia della ex Jugoslavia e in procinto di conoscere i drammatici eventi dell’undici settembre 2001. Non è però secondario rilevare come, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, in Casa della Cultura il tema della crisi era già emerso. Si tennero i primi dibattiti sulla crisi del marxismo, si introdusse la teoria della complessità, si dibatté la questione di genere. Un’intuizione di quello che doveva essere un radicale cambio di paradigma, che la Casa della Cultura ha dimostrato di padroneggiare adeguatamente.
Da questo punto di vista, la direzione di Capelli ha promosso un sottile lavoro che ha proceduto in due direzioni parallele ma, nello stesso tempo, fittamente intrecciate. Da una parte ha messo a nudo e dibattuto, senza sconti, tutti i problemi relativi all’identità storico-culturale della sinistra. Dall’altra ha analizzato, evitando qualsiasi scorciatoia interpretativa, i nuovi fenomeni della contemporaneità, in modo tanto più articolato e approfondito quanto più essi potevano apparire estranei agli originali riferimenti della istituzione.
Il primo aspetto ha voluto in parte contrapporsi alla assoluta smobilitazione, e in alcuni casi a un vero e proprio cambio di campo, attuato improvvisamente da esponenti dei vertici della sinistra comunista; in modo così affrettato e poco credibile, anche nelle motivazioni culturali, da lasciare disorientata la base e il gruppo sociale di riferimento.
La presa di distanza dalla tradizione più dogmatica della sinistra, non ha impedito alla Casa della Cultura di mantenere salda la discussione sull’antifascismo, inteso come valore fondante della democrazia repubblicana. Sia chiaro: ancora una volta non si è trattato di sposare una tesi predeterminata, ma di opporsi alle semplificazioni dominanti che rifiutavano il confronto storiografico e si sottraevano alla possibilità dell’interpretazione. L’esigenza è nata proprio dallo scadimento in questo senso del dibattito politico, in particolare a seguito delle pubblicazioni dei libri di Giampaolo Pansa. Ciò che sorprende l’autore è, soprattutto, il silenzio da parte dei post comunisti: «Si dimentica il fatto che, nonostante legami storici perniciosi e narrazioni ideali che le dure repliche della storia hanno smontato, quel pezzo di sinistra italiana ha pur sempre qualcosa da rivendicare con orgoglio. In primis, l’avere contribuito alla riconquista della libertà. Per quanto nel dopo 1989 possa sembrare strano, la libertà in Italia (e in Occidente) è stata riconquistata – e difesa- dall’insieme delle forze che hanno fatto la Resistenza, comunisti compresi. Non da Dino Grandi e affini. Così è andata la storia».
Di fronte a questa intollerabile semplificazione del linguaggio politico, l’iniziativa più significativa –anche perché periodica, evolventesi nel corso degli anni- è stata l’istituzione, a partire dagli anni 2010-2011, della «Scuola di Cultura politica»; attiva da ottobre a maggio, impegna i corsisti un fine settimana ogni mese, con lo scopo di organizzare un lavoro orientato «allo scavo analitico e all’approfondimento che richiede ai corsisti tempo, disponibilità all’ascolto e alla rielaborazione». I docenti del corso, che si rinnova ogni anno, sono studiosi italiani e internazionali prestigiosi. Ciò che ha maggiormente sorpreso di questa iniziativa è stato il suo deciso successo: «i cittadini, tra cui molti giovani, hanno accolto con vivo interesse la proposta: in cinque anni un migliaio di iscrizioni, con alcuni corsisti che hanno seguito anche un percorso pluriennale. E tanti partecipanti, dopo il percorso formativo, hanno scelto di impegnarsi, in vari modi, nella vita pubblica».
Analogo successo hanno avuto le iniziative dedicate ad Antonio Gramsci, conclusesi con un’opera teatrale sul politico comunista, creata da un greppo di giovani, messa in scena per la prima volta proprio alla Casa della cultura e poi a Roma. «Essa –salvo segnalazioni non pervenute- risulta l’unica operazione di qualche rilievo che, durante il 2007, si sia proposta di dare rilevanza e senso alla celebrazione dei settant’anni dalla morte di Antonio Gramsci, per l’appunto quell’autore in Italia ormai praticamente sconosciuto».
Per quanto riguarda invece l’approfondimento delle nuove tematiche che interessano il mondo contemporaneo, esso ha preso avvio dal confronto con la retorica dello «scontro di civiltà», che all’epoca sembrò un approccio ermeneutico vincente alla geopolitica. Una svolta per certi versi cruciale, per Capelli, è stata la discutibile decisione da parte del Corriere della Sera, allora diretto da Ferruccio de Bortoli, di offrire allegato al quotidiano un testo di Oriana Fallaci sull’Islam. Gli effetti di quell’iniziativa furono devastanti, in quanto valorizzarono una mentalità combattente che ancora una volta metteva da parte qualsiasi tentativo di comprensione articolata. «Fu in questo scenario che la Casa della Cultura prese una decisione che si rivelò cruciale per la sua attività futura, ovvero di profondere tutte le sue energie possibili per un ostinato richiamo alla ragionevolezza e al dialogo tra le culture e le civiltà. Un centro culturale fondato nel nome del razionalismo critico, trasudante da ogni angolo la lezione del pensiero illuminista, non poteva ritrarsi dinnanzi a una sfida culturale di quella portata». È impressionante l’alto numero di iniziative da allora dedicate ai temi connessi al rapporto tra civiltà: le relazioni internazionali, il nuovo protagonismo della religione nell’orizzonte geopolitico, il problema del rapporto con le altre culture. E a dibattere su ciò sono stati chiamati «filosofi, antropologi, teologi, studiosi di geopolitica e di relazioni internazionali».«La casa della Cultura non era mai stata espressione di un laicismo autoreferenziale e intransigente», la centralità del tema religioso rappresentò in qualche modo una novità, affrontato nel pieno rispetto degli interlocutori, senza rinunciare all’approccio illuministico. Sull’esperienza della Cattedra dei non credenti, organizzata a Milano dal cardinale Martini, la Casa della Cultura organizzò i cicli di incontri Per il dialogo, che vide anche la partecipazione del cardinale Kasper, e I dubbi dei non credenti.
Il confronto tra religioni, e fra credenti e non credenti, non poteva richiamare l’attenzione su altri due temi decisivi: la questione dell’altro e il problema della soggettività, intesa come esperienza di relazione in grado di prendere le distanze dalle illusioni identitarie. Momento importante nella storia culturale di Milano fu, a proposito, l’intervento alla Casa della Cultura di Tzevan Todorov.
Siamo costretti a sorvolare su molte altre tematiche affrontate negli ultimi vent’anni dal centro culturale milanese, per contrastare un’emergenza epocale, in cui sembra prevalere la mancanza di senso e un agire di carattere nichilistico. Ha ragione Capelli a citare, con orgoglio, la definizione che Mario Vegetti ha dato della Casa della Cultura, quale «isola benedettina di resistenza». Due le direzioni per combattere la mancanza di senso: opporsi alla deriva tecnocratica del sapere e reagire nel contempo alla crisi della cultura umanistica. Capelli parla proprio della necessità di un «nuovo umanesimo», fondato sulla razionalità illuministica, un «illuminismo per tutti», per citare il bello slogan coniato da Salvatore Veca proprio in occasione del settantesimo anniversario.
Tale proposito motiva l’attenzione recentemente dedicata alla tematica della scuola e alla deriva di carattere tecnocratico che la coinvolge, semplificante e ostile alle ragioni dell’interpretazione e della riflessione; scuola le cui finalità formative dovrebbero in fondo coincidere con quelle che Capelli attribuisce alla cultura nel suo insieme. Sul sito della Casa della Cultura, dove è possibile recuperare per altro in formato video e in formato audio buona parte degli interventi, è possibile constatare inoltre una programmazione particolarmente attenta all’arte e alle tematiche estetiche. Nella consapevolezza di come anche tali problematiche – considerate giustamente un patrimonio conoscitivo tanto fondamentale quanto altri ambiti dell’esperienza umana - contribuisca a creare resistenza intellettuale verso la tendenza alla schematizzazione, alle facili illusioni identitarie, alla rinuncia a voler comprendere e agire in modo consapevole e attivo nella realtà.
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