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Per una storia della tradizione liberale italiana da Croce a Vinciguerra
di
Giovanni Scarpato
Negli ultimi anni un crescente numero di studi ha richiamato l’attenzione sull’esigenza di fare i conti con la storia del liberalismo italiano, verificando la possibilità di attribuire a tale tradizione caratteri propri e riconoscibili. Su questa direttrice è possibile collocare il recente volume di Maurizio Griffo [Momenti e figure del liberalismo italiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016]. I saggi che compongono il volume tracciano un itinerario storico e politico che pur non volendo costituire una storia organica del liberalismo italiano, ne indagano in maniera selettiva alcuni aspetti significativi.
I primi due saggi sono dedicati a Gaetano Mosca e alla sua attenzione, solo apparentemente marginale, per il problema dei sistemi elettorali. Come mostra bene Griffo sin dalla Teorica dei governi del 1884 emerge lo scetticismo dello studioso palermitano verso la tendenza europea all’allargamento del suffragio. A ben vedere, questa posizione è un caso particolare della più generale critica moschiana del sistema parlamentare, prima rifiutato in quanto tale poi accettato in maniera “empirica e circoscritta†come un regime di discussione. Negli anni successivi, con altrettanto vigore, Mosca appare impegnato a contrastare i movimenti parlamentari e d’opinione che si adoperavano per promuovere leggi elettorali su base proporzionale. Come si evidenzia nelle pagine del secondo saggio la fonte della critica moschiana al sistema proporzionale è da rintracciare in uno scritto che il costituzionalista Adhèmar Esmein inserisce nella terza edizione dei suoi Eléments de droit constitutionnel francais et comparé.
Un successivo gruppo di saggi presenta un taglio di tipo biografico. Emerge tra l’altro la capacità dell’autore di riflettere sul rapporto tra biografia, pensiero e prassi politica negli autori presi in considerazione. Più specificamente sono discussi il liberalismo antifascista di Guglielmo Ferrero e il meridionalismo di Giustino Fortunato mentre pagine specifiche sono dedicate alla riflessione di uno scrittore politico come Mario Vinciguerra, poco considerato in sede critica, ma autore di cospicue riflessioni sulla vita politica italiana del secondo dopoguerra. Si segnalano poi due saggi sull’attività intellettuale e politica di Benedetto Croce nel secondo dopoguerra. Il primo, ricostruisce un momento poco noto della biografia intellettuale crociana che nel novembre 1944 viene sollecitato dall’economista austriaco Hayek, principale artefice della ripresa del neoliberismo classico nel secondo dopoguerra a farsi promotore dell’edizione italiana del suo The Road to Serfdom. Seguono le pagine dedicate alla polemica tra Togliatti e Croce, scaturita dall’attacco del segretario del Pci in un corsivo uscito per il primo numero di «Rinascita». Il saggio che occupa una posizione centrale nel volume presenta invece un taglio tematico ed è dedicato a chiarire le ragioni della preferenza della classe politica liberale per una gestione politica e amministrativa del Paese incentrata sull’accentramento politico.
Sebbene l’autore non espliciti tale peculiarità del suo lavoro, ci sembra che una delle possibili chiavi interpretative del volume si possa rintracciare nella particolare rilevanza attribuita alla tradizione liberale dell’Italia meridionale. Quasi tutti gli autori discussi da Griffo, infatti, sono accomunati dalla comune provenienza geografica. Una condizione non estrinseca ma destinata ad incidere profondamente sulla loro riflessione politica contribuendo a creare una compattezza di temi e una omogeneità di vedute su alcune questioni di fondo. Il merito della ricerca di Griffo è proprio quello di cogliere bene i rapporti tra liberalismo meridionale, tradizione risorgimentale e antifascismo. Non sarà inappropriato, quindi, prendere le mosse da queste categorie chiave per orientarci in una ricognizione delle questioni che la lettura dei saggi fa emergere.
Gli esponenti del liberalismo italiani richiamati nelle pagine di Griffo, come si è detto, appaiono unanimi nel sostenere la necessità di una gestione amministrativa del paese incardinata sull’accentramento. Se la tradizione liberale classica, aveva indicato nel decentramento dei poteri la condizione essenziale per la salvaguardia delle garanzie individuali, i liberali italiani (e in maniera più marcata quelli dell’Italia meridionale), non appaiono in sintonia con questa impostazione del problema. La preferenza per l’accentramento, ricorda Griffo, è la risultante di due ordini di fattori tra loro strettamente irrelati: l’eredità risorgimentale e la constatazione delle condizioni politiche, sociali e materiali della società meridionale. Una posizione di lunga durata, sarebbe il caso di dire, in quanto destinata a coprire il periodo che corre dai prodromi del Risorgimento fino alla ripresa della vita libera del secondo dopoguerra. Silvio Spaventa è considerato «l’ispiratore primo della tradizione politica meridionale dell’accentramento», (p. 85), in quanto già nel 1848 rifletteva sull’impossibilità di procedere nella realizzazione del disegno unitario senza l’azione militare e diplomatica del Regno di Sardegna. Ma anche quando il processo unitario sarà concluso la preferenza per l’accentramento tornerà a manifestarsi in alcuni passaggi storici cruciali, come nel 1861 in occasione del dibattito sul disegno di legge Minghetti per l’istituzione delle regioni, poi riproposto da Jacini nel 1879, e destinato a ritornare in diversa forma con la richiesta delle autonomie regionali del secondo dopoguerra. Posizioni unitarie, quindi, nate da un sentire comune che i liberali avvertivano come la difesa delle scelte politiche proprie delle elite risorgimentali, convinte di poter rinsaldare i legami tra i territori degli antichi Stati della Penisola solo attraverso l’adozione di un modello centralistico. Nell’opera di Giustino Fortunato si rinviene la più completa sintesi di queste posizioni, in quanto, nella visione dell’uomo politico di Rionero – scrive Griffo – «la questione meridionale fa tutt’uno con la necessità dell’accentramento politico, condizione di lungo periodo per assicurare il progresso materiale e morale dell’Italia» (p. 95). Convinzioni che non nascono «da ragioni dottrinali o da opzioni teoriche» quanto piuttosto «da una constatazione realistica dell’ambiente in cui si trovavano ad operare» (p. 84). Per le ragioni presentate le tendenze municipali e ancor più regionalistiche saranno ritenute fattori di potenziale disgregazione. In tal senso può leggersi la polemica di Turiello, che se pur espressiva di un pensiero marcatamente conservatore, manifestava un sentire diffuso quando denunciava nella sinistra nicoterina una pratica clientelistica incardinata attorno alla politica municipale disgregatrice delle più sane istanze accentratrici espresse dalla Destra storica. Nel giudizio di Turiello incideva il prestigio assunto dal modello bismarckiano, la cui affermazione costituiva anche per il Croce della Storia d’Europa un momento periodizzante nella storia europea.
La sintesi più alta di queste posizioni comuni a più di una generazione di liberali la si può trovare espressa nella Storia d’Italia di Croce. Come ha ricordato Giuseppe Galasso, si tratta del libro che all’interno della produzione storiografica crociana si presenta più ricco di risonanze autobiografiche, in quanto l’autore rifletteva sul proprio contributo al processo di costruzione nazionale. Griffo ci ricorda come già la Storia del Regno di Napoli crociana manifesti la convinzione che gli intellettuali costituiscano l’unica possibile classe dirigente, specie per il Mezzogiorno. Croce rinveniva i prodromi di questo atteggiamento già nel riformismo settecentesco. L’analisi crociana è sia constatazione realistica che programma politico, ma osservata con distanza storica si presenta – come scrive Griffo – «Rinascita determinata da una condizione storica, tipica di una minoranza colta in una società arretrata» (p. 83).
Con il primo dopoguerra la riflessione degli autori liberali s’inserisce appieno nel dibattito sulla “crisi dell’autorità †tipico di quella fase e trova il suo esito finale nell’antifascismo. Particolarmente rilevante è il contributo al pensiero antifascista di Guglielmo Ferrero, autore che solo negli ultimi decenni è ritornato al centro dell’attenzione critica, nonostante la risonanza mondiale riscossa dalle sue opere storiche e pubblicistiche. Tra le due guerre Ferrero sviluppa una riflessione organica sul nesso legittimità /terrore, poi esposta nell’opera Potere del 1941. Il potere usurpato presenta – scriveva Ferrero – «la diabolica facoltà di terrorizzare chi se n’era impadronito prima ancora di terrorizzare quelli che lo subivano» (p. 49), principio che lo storico avrebbe appreso meditando sulle Memorie di Talleyrand. Da qui l’interesse per la storia sociale e politica della Francia del XIX secolo, dall’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte al 1848, anno in cui si afferma il suffragio universale come nuova forma di legittimazione politica, destinata a frantumare la dialettica propria di quel secolo tra tendenze democratiche e principio dinastico. Nel 1920 Ferrero poteva prevedere gli esiti nefasti della pace di Versailles, il cui fondamento era ancora una volta la paura reciproca tra le due potenze. La stessa situazione italiana non si presentava incoraggiante, in quanto Ferrero interpretava la storia recente della politica italiana, soprattutto da Crispi in avanti, come una sorta di piano inclinato il cui sbocco non poteva che essere rovinoso. Alla luce di questa continuità negativa della storia d’Italia la dittatura appariva come uno dei possibili esiti della crisi. Non si potevano condividere le attese ottimistiche di larga parte dello schieramento liberale per una normalizzazione del movimento fascista, in quanto violenza e illegalità non rappresentavano caratteri transitori di quell’esperienza politica ma un loro tratto costitutivo. Il criterio euristico fornito dalla teoria della legittimità si mostrava valido per intendere l’uso solo apparentemente irrazionale della violenza fascista. Del resto le angherie e le notevoli restrizioni alla libertà personale subite dallo stesso Ferrero e dalla sua famiglia, favorivano – scrive Griffo – «un confronto continuo tra l’ampiezza dei mezzi adoperati e un pericolo (la sua supposta volontà cospirativa) assolutamente immaginario» (p. 61).
Come ricorda l’autore, nella storia italiana il liberalismo era destinato a costituire una tradizione minoritaria. Una condizione destinata ad acuirsi ancora nel secondo dopoguerra sotto la spinta di un sistema politico che andava progressivamente polarizzandosi. Le pagine di Griffo dedicate al Croce del secondo dopoguerra, restituiscono bene il senso di un’intera tradizione politica che appariva ora costretta sulla difensiva. Il filosofo napoletano aveva sperato che l’esito della caduta del fascismo fosse il ritorno al sistema liberale tipico dell’anteguerra. Tale auspicio era destinato a non realizzarsi. Nonostante tale circostanza il filosofo napoletano si mostrerà indisponibile – scrive Giuseppe Galasso - a «tirare il liberalismo a convivenze, contemperamenti o fusioni di principi con altre idee, come la democrazia e, ancor più, il socialismo» [G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Bari, Laterza, 2002 p. 421]. Nel caso crociano, quindi, se dal punto di vista dell’attività filosofica si assiste ad un ripiegamento sulla categoria di vitalità , intesa quasi come il risvolto negativo dello spirito, l’impegno politico si presenta ormai attivo e diretto, non più esclusivamente mediato dall’attività storiografica. Erano gli anni in cui la concezione liberale crociana, inoltre, era destinata ad essere attaccata anche dal punto di vista dell’egemonia culturale. Tale era il senso della polemica che Togliatti scatena contro Croce già col primo numero di «Rinascita». In quella vicenda, avverte Griffo, è utile distinguere due diversi livelli. Se dal punto di vista politico Croce e Togliatti erano entrambi ministri del nuovo governo Badoglio, condizione essenziale per la costruzione del «partito di tipo nuovo» propugnato dal segretario del Pci, la dottrina gramsciana dell’egemonia suggeriva la necessità di un attacco a Croce dal punto di vista della politica culturale. Togliatti, com’è noto, contestava la natura dell’antifascismo di Croce che in quanto «campione della lotta contro il marxismo» avrebbe instaurato con il regime «un’aperta collaborazione» che gli avrebbe consentito anche di «arrischiare ogni tanto una timida frecciatina contro il regime». Di natura diversa era la polemica che nel settembre del 1945 coinvolse Croce e il presidente del consiglio Parri. Quest’ultimo, nella prima seduta della Consulta Nazionale definì «non democratici» i governi che avevano preceduto il fascismo in Italia, puntualizzando poi che il suo giudizio andava inteso in senso «tecnico», in quanto tali governi potevano essere definiti liberali ma non democratici. Griffo sulla scorta dei Taccuini del filosofo fa notare come nell’immediato il discorso di Parri non avesse prodotto nessuna particolare reazione in Croce. Del resto, ci sentiremmo di aggiungere, la distinzione tra liberalismo e democrazia avanzata da Parri trovava adeguata giustificazione nella stessa filosofia politica crociana. Se il filosofo si muove in sede di governo per chiedere una riparazione fu essenzialmente per la pressione in tal senso del Partito Liberale che tramite Croce chiese ed ottenne che Parri ristabilisse l’idea di una continuità positiva della storia d’Italia anteriore al fascismo. Il saggio di Griffo consente anche una utile messa a punto circa i rapporti tra Croce e il marxismo che attraversano fasi diverse: dall’ammirazione giovanile negli anni dell’apprendistato con Labriola che generano l’accettazione del marxismo sul piano euristico e metodologico, al progressivo distacco che diviene critica demolitrice nel saggio del 1942 sul Comunismo in quanto realtà politica.
L’interesse con cui Croce accoglie il saggio di Hayek, rileva Griffo, può essere spiegato dalla sua natura di riflessione sociale radicalmente critica verso il collettivismo e le politiche di pianificazione, consonanti con le convinzioni anti-totalitarie che il filosofo napoletano esprimeva in quel frangente, ma non comportano la piena adesione crociana al liberismo economico classico di cui l’economista austriaco si fa assertore. Nel suo scambio epistolare con Hayek, infatti, Croce ribadiva la distinzione tra liberalismo etico-politico e liberismo economico, già emersa nel confronto con Luigi Einaudi ed espressa in diversi scritti di quella fase. Il primo momento costituisce una concezione filosofica organica della vita e della libertà umana, il secondo una delle possibili modalità di regolazione economica della società . Il liberismo pur presentandosi idealmente superiore alle altre forme analoghe in quanto maggiormente conforme alla natura umana resta pur sempre subordinato alla valutazione delle sue ricadute sul piano etico. Altro elemento che è possibile cogliere leggendo le pagine di Griffo è la capacità con cui Croce riesce a leggere il mutamento degli assetti culturali ed editoriali dell’Europa post-bellica. Quando Hayek lo informa dell’impegno assunto con Mario Einaudi, fratello di Giulio, per la pubblicazione di The Road to Serfdom Croce intuisce che quel volume sarebbe stato del tutto estraneo alla linea che la casa editrice torinese andava assumendo, prevedendo di fatto il fallimento dell’iniziativa editoriale.
La riflessione di Mario Vinciguerra (unico autore trattato che è possibile contestualizzare pienamente nella vita politica italiana del secondo dopoguerra), finisce per molti versi per essere espressiva di quella situazione di impasse che la tradizione liberale italiana si trova a vivere negli anni Sessanta e Settanta. L’adesione al liberalismo di Vinciguerra in realtà affondava le radici nel giovanile antifascismo e nelle convinzioni espresse nell’opera i Girondini del ’900. In quelle pagine l’opposizione tra giacobini e girondini, veniva in qualche modo riportata ad una dimensione metastorica che consentiva all’autore di riflettere sulle sopravvivenze e le trasformazioni novecentesche di queste due categorie perenni della politica. Griffo rileva come l’opera sui girondini del 1927 sia meritevole di attenzione anche dal punto di vista strettamente storiografico per la scelta di fermare l’attenzione sulle modalità della vita politica e parlamentare piuttosto che adottare l’approccio di storia sociale allora prevalente. Ma Vinciguerra non si fermerà a constatare la posizione di retroguardia che i nuovi girondini erano costretti ad assumere, ma dagli anni ’50 in poi si dedicherà a studiare il sistema politico italiano riflettendo sulla frantumazione dei partiti politici, il ruolo crescente dei sindacati, l’inadeguatezza del sistema politico e istituzionale italiano. Una disamina che giungeva alla formulazione di soluzioni controcorrente per l’Italia degli anni ’60 specie quando si presentava finalizzata ad evidenziare le carenze costitutive del sistema istituzionale. Vinciguerra, in particolare, giudicando l’elezione indiretta del capo dello Stato un «relitto» ottocentesco collaborava con Randolfo Pacciardi per una riforma costituzionale in senso presidenziale, giudicando necessario, anche sotto questo aspetto, un cambio radicale delle regole del gioco democratico.
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