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Il caso Banco di Napoli - S.G.A.
di Giuseppe Galasso - Massimo Lo Cicero
Postfazione

Il volume di Maria Rosaria Marchesano (Miracolo Bad Banke. La vera storia della SGA a 20 anni dal crac del Banco di Napoli, ed. Guida, 2016) percorre una storia che si dipana dagli scorsi anni Novanta ad oggi, e che qui, anche sulla sua scorta, proviamo a ripercorrere.
Sia la natura delle banche che l’ambiente della finanza sono molto diversi da allora, e ciò da almeno un triplice punto di vista. In primo luogo, le banche italiane non sono più pubbliche, e quindi controllate potenzialmente dalla politica e dai governi, ma sono ormai società per azioni (anche le banche popolari stanno emigrando in questo diverso continente dei servizi bancari). In secondo luogo, le banche creano oggi rischio per distribuirlo ai mercati finanziari, che assorbono quei rischi e li distribuiscono nel sistema, mentre prima degli anni Novanta, e forse già da un ben più lungo passato, le banche creavano rischi per poterli contemplare nei loro stati patrimoniali, anche per lungo tempo, al fine di ottenere i rendimenti corrispettivi di tali rischi. In terzo luogo, da questi due cambiamenti deriva una importante conseguenza, e, cioè, che le banche tendono a una divaricazione tra credito e finanza.
Le banche, insomma, diventano progressivamente più grandi, e alcune davvero globali sulla scena del mercato mondiale; e questo processo nasce e cresce per aggregazioni e fusioni tra le banche stesse. La loro nuova configurazione, grazie anche al digitale e ai suoi sviluppi, impone non solo un salto di qualità nelle competenze delle risorse umane,ma anche un ridimensionamento del numero delle risorse umane rispetto ai volumi di fondi e titoli gestiti. Alla fine il digitale determina una distribuzione di moneta e di titoli grazie alle reti di dati ed alle opportunità che si possono offrire ai clienti senza passare per le filiali e le agenzie; e, di conseguenza, anche gli edifici che ospitano le banche e i loro servizi, diffusi o imponenti che siano, verranno ridimensionati.
A fianco di questi processi che si collocano su due pilastri, la moneta elettronica e le strutture finanziarie dei derivati, avanza una vera e propria industria della finanza, che offre servizi, complessi sotto il profilo operativo matematico e quello giuridico, per creare e gestire le configurazioni con le quali si presenta una variegata somma di strumenti di credito,moneta e finanza. Una tale industria dei servizi finanziari può agire anche dall’esterno del sistema bancario, attivando nuovi processi e modalità che saranno controllati, ma non necessariamente integrati in un mercato bancario e finanziario, come è già accaduto nel passato.
I gestori di servizi, i creatori di moneta, i progettisti di strumentazioni finanziarie non saranno necessariamente inclusi nelle banche come parte della loro organizzazione, ma ne rappresenteranno un contorno necessario, per cui dovranno sviluppare forme nuove di prestazioni e modalità nella loro attività. Allo stesso modo – si può aggiungere – dei flussi derivanti dai trasferimenti di moneta bancaria, che ridimensioneranno la moneta legale, il legal tender, e gestiranno catene di trasferimenti digitali che, a loro volta, potranno anche essere escluse e separate dalle banche in senso stretto.
La Marchesano si è riconnessa meritoriamente, a una storia bancaria plurisecolare e tutta meridionale, svoltasi poi nell’Italia unita, muovendo dalla legge Carli-Amato, la n. 218 del 30 luglio 1990. Una legge, quest’ultima, che ha determinato una profonda trasformazione nel sistema delle banche pubbliche italiane, affidando la gestione bancaria non più a enti pubblici con capitale o fondi di dotazione, ma a società per azioni di diritto privato, e favorendo la concentrazione degli istituti bancari, operata in una prima fase, gli anni Novanta, con la costituzione di gruppi ispirati al modello del gruppo creditizio polifunzionale secondo l’impianto definito dall’allora Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi.
Il Banco di Napoli è stata la seconda Banca italiana a operare questa trasformazione e a creare un sistema di società che si adeguarono al modello del gruppo polifunzionale, mentre al centro del sistema nasceva una banca che erogava credito di breve e lungo termine impiegando un capitale sociale nel quale erano entrati anche imprenditori ed azionisti privati.
Nella seconda metà degli anni Novanta si ebbe, poi, una stagione nella quale vennero meno gli incentivi alle imprese da parte della Cassa del Mezzogiorno e degli altri enti addetti alla distribuzione di sussidi finanziari, in aggiunta ai crediti erogati dal Banco di Napoli. Ne conseguì un vero e proprio collasso economico e finanziario, determinato sia dal tracollo dei sussidi alle imprese, sia dalla radicale trasformazione della gestione manageriale della banca. La combinazione tra la fragilità sopravvenuta delle imprese meridionali e i risultati di un deterioramento non limitato solo al Mezzogiorno ma tale da coinvolgere anche il mercato italiano e quello internazionale, determinò un pericoloso passivo di crediti inesigibili pari all’intero valore dei mezzi propri della banca.
Per evitare il collasso definitivo della banca napoletana venne posta in essere una doppia opzione di politica aziendale, sotto il controllo e la vigilanza della Banca d’Italia. Da una parte, venne creata una badbank, una istituzione che poteva mantenere in essere i crediti deteriorati e che poteva anche agire per recuperare, nel tempo e nelle modalità garantite, una larga parte di quei crediti per evitarne l’azzeramento e, con ciò, il fallimento della banca. Questa entità – la SGA Spa, Società per la Gestione delle Attività – venne creata utilizzando le tecniche e le modalità della Legge Sindona. Essa riuscì, in alcuni anni, a riprendere una larga parte dei crediti originariamente inesigibili. Il processo era chiaro. Da un lato, la Banca d’Italia: «al fine di agevolare la ristrutturazione del gruppo creditizio Banco di Napoli, la Banca d’Italia può concedere al Banco di Napoli S.p.a. anticipazioni con le modalita’ di cui al decreto del Ministro del Tesoro del 27 settembre 1974, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 256 del 2 ottobre 1974». Dall’altro lato, il cosìddetto Decreto Sindona1, rispetto al quale, però, avendo a disposizione le anticipazioni, in titoli dello Stato, si poteva utilizzare sia la tecnica che il tempo necessari per arrivare a un esito positivo. a sua volta, il Ministro del Tesoro rappresentava la tutela e il controllo del capitale residuo del Banco di Napoli, poiché l’‘autorizzazione della Banca d’Italia era subordinata alla concessione in favore del Tesoro del pegno, con diritto di voto, delle azioni delle società cessionarie di proprietà del Banco di Napoli, ovvero anche alla concessione, in favore del Tesoro, di mandato irrevocabile, anche per più assemblee e senza indicazione di istruzioni, ad esercitare il diritto di voto, al fine di consentire allo stesso Tesoro di disporre della maggioranza dei diritti di voto.
Come si vede chiaramente, la SGA Spa ha avuto una “madre” la Banca d’Italia, e un “padre”, il Ministro del Tesoro, che hanno guidato adeguatamente il percorso del progressivo rientro della gestione.
Nel tempo che passava per ritrovare un ragionevole recupero dei crediti deteriorati del Banco di Napoli il capitale azionario della banca ha avuto due proprietari: una joint venture tra BNL e INA, che ha acquistato per circa 60 miliardi di lire il capitale del gruppo polifunzionale del Banco di Napoli. Acquistato a quel prezzo il Banco venne, comunque, sostenuto dalla joint venture con una ulteriore massa finanziaria. Alcuni anni dopo, il San Paolo IMI rilevò il Banco e lo fuse con il suo gruppo. In questo modo la joint venture BNL e INA uscì dal controllo del Banco di Napoli. Il quale Banco, in effetti, scompariva con la fusione di cui abbiamo detto, mentre nasceva, grazie al gruppo Intesa San Paolo, una nuova banca destinata a occuparsi delle regioni dell’Italia meridionale, che manteneva il nome di Banco di Napoli e che è ancora in attività, controllata dal gruppo Intesa.
Quando la joint venture BNL ed INA trasferì le azioni al San Paolo IMI rimase sulla scena un’altra entità singolare: la Fondazione Banco di Napoli. Le fondazioni bancarie sono nate separandosi dalle banche pubbliche e dalle casse di risparmio per dedicarsi ad attività di assistenza e di beneficenza. Ma sono anche, in parte limitata, azionisti di banche che hanno la possibilità di nuovi modi di operare grazie alla già citata legge Carli-Amato. Con quella legge le banche hanno potuto trasformarsi in società per azioni. Ulteriori, e finora ultime, modifiche alla disciplina delle fondazioni bancarie sono arrivate con la riforma finanziaria di Tremonti: una modifica netta che ha ribadito ulteriormente la natura privata delle fondazioni bancarie. La Fondazione Banco di Napoli, essendo stata trasferita la banca di cui era azionista, prima alla joint venture BNL-Ina e poi al San Paolo - IMI, è l’unica fondazione che non ha avuto per lungo tempo la possibilità di agire come azionista in una azienda bancaria. La Fondazione agisce su molti campi, dall’archivio storico del Banco di Napoli (che raccoglie una documentazione cinque volte secolare) fino a molti progetti di vario genere. Recentemente, la Fondazione ha sottoscritto azioni di due banche napoletane, che non sono, comunque, da essa controllate, perché è vietato alle fondazioni bancarie di diventare il maggiore azionista delle banca o delle banche in cui esse hanno investito in azioni.
Insomma, una entità che era stata realizzata con la legge Carli-Amato, il Banco di Napoli con la sua Fondazione, si è frammentata in tre parti, separate e distinte: il Banco di Napoli controllato dal gruppo Intesa San Paolo, la Fondazione Banco di Napoli e la SGA Spa.
Quest’ultima ha superato gli scogli contro i quali aveva lottato per evitare il disastro finale del Banco di Napoli e ha dato una buona performance nei primi anni della sua attività dopo il 2000, cioè dopo l’avvento dell’euro. Con quell’ingresso si sono sviluppati importanti processi che hanno condotto la SGA, nel 2016, all’esercizio del pegno e al controllo e acquisto delle azioni dell’articolo 6 bis della legge che aveva definito il salvataggio e dunque anche la identità della SGA. Ora la SGA, entrata nella sfera del Ministero dell’Economia e delle Finanze, sarà collegata ad altri orizzonti, relativi ai servizi dell’industria finanziaria e dei progettisti di strumentazione finanziarie di cui abbiamo accennato.
Nel libro della Marchesano si trovano anche espresse alcune opinioni sui mutamenti sia delle dinamiche che delle tecniche della banca nel mondo, cui pure abbiamo già accennato; e tra coloro che ne hanno parlato sono stati anche Luigi Zingales e Adriano Giannola: due eccellenti economisti. Del resto, gli echi giornalistici della questione sollevata dal libro della Marchesano sono stati moltissimi, e alcuni di particolare incisività.
Di recente è poi anche apparso su “Project Syndicate” un intelligente e provocatorio articolo di altri due economisti: Lucrezia Reichlin e Shahin Vallée, che hanno dato al loro testo un titolo molto significativo: risolvere la crisi bancaria in Europa attraverso il caso italiano2.
Secondo la Reichlin e Vallée le banche europee sono paralizzate e molto frammentate. «Il settore – essi dicono – opera su un livello di redditività che è, in media, inferiore al costo del suo capitale di rischio e mantiene uno stock di crediti non-performing e di risorse difficili da valutare abbastanza ampio perché ne sia compromessa la sua capitalizzazione per gli anni a venire».
I due autori vorrebbero costruire un caso di studio attraverso un’analisi della “dimensione italiana” del sistema bancario europeo, anche perché essi ritengono che l’area dell’euro non riesce a trovare la strada per avere non solo una dimensione monetaria unica, ma anche una dimensione bancaria unica delle nazioni che partecipano al sistema dell’euro. Il sistema bancario europeo è per varii versi considerato un punto debole e critico rispetto alle esigenze di una robusta architettura del sistema dell’euro, mentre la moneta unica dovrebbe ricondursi anche a sistemi bancari che possano gestire in maniera unitaria le tecniche delle varie banche nazionali.
Molti hanno, del resto, pensato a misure capaci di arginare la frammentazione finanziaria, stabilire condizioni di parità e ridurre i rischi di future crisi bancarie. Reichlin e Vallée ci dicono che «la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. L’unione bancaria europea, nel suo stato attuale, non è solo incompleta; i suoi difetti di progettazione hanno creato problemi e instabilità potenzialmente peggiori dei mali che si intendeva di curare».
In effetti, sembra che si debbano usare sempre e solo monitoraggi e ricerca di miglioramenti sulle singole banche, mentre sarebbe assai più utile rivolgersi a un progetto di sistema per l’intero sistema bancario di un paese. Ed è questa la soluzione che Reichlin e Vallée propongono come focus del caso italiano di studio e che potrebbe agire sulle accelerazioni e le strutture necessarie per superare i residui limiti in Italia i no performingloans, soddisfacendo all’evidente necessità di trovare soluzioni per l’industria della finanza e delle non banche e di capire se, e come, si possano ridefinire i perimetri dei sistemi bancari per dimensione e per fragilità strutturale.
Secondo Reichlin e Vallée, insomma,«questo nuovo approccio richiederebbe, in primo luogo, un sostanziale aumento delle dimensioni di Atlante – il fondo istituito per ricapitalizzare alcune delle banche italiane più deboli – affinché esso possa realmente svolgere il ruolo di una badbank per l’intero settore bancario. La necessità di ulteriori risorse pubbliche italiane potrebbe essere accettabile, se l’autorità di concorrenza della Commissione europea dovesse svolgere un ruolo nella governance di Atlante».
Ci sono molti spunti di questo articolo che entrano a fondo nei temi che il volume di Maria Rosaria Marchesano ha analizzato e spiegato riferendosi pure alle vicende della Cassa del Mezzogiorno negli anni Novanta per gli effetti che la immediata cessazione dell’azione della Cassa ebbe anche sul sistema creditizio meridionale. È, comunque, soprattutto sui problemi di oggi e sulle prospettive della nuova dimensione che le banche e la finanza utilizzano per il futuro prossimo e remoto che l’articolo della Reichlin e di Vallée intendeva, come ha fatto, intervenire. Collegare uno studio di caso italiano per capire se e come agire sul mercato bancario europeo è davvero una sfida a quelle che sono opinioni molto correnti su questi temi proprio in relazione all’Italia e ai suoi problemi bancari. I due autori ci danno, però, ancora una volta una spinta a meglio riflettere: «l’Italia – essi concludono – ha bisogno di dimostrare che si può essere sia un vigile del fuoco che un costruttore», mentre «le autorità europee non sono in grado di formulare i piani necessari, date le frammentate e incomplete competenze dell’unione bancaria».
Concludere con questa ultima provocazione dovrebbe spingere a scrivere almeno un altro libro, magari un caso di studio, sui modi e le tecniche con cui i problemi di cui abbiamo parlato sono stati affrontati dalle banche del Centro-Nord in Italia e sui risultati da esse ottenuti.
Le considerazioni di ordine economico-finanziario finora svolte non sono, tuttavia, le sole alle quali il caso Banco di Napoli induce a pensare. C’è, infatti, un altro aspetto della questione da considerare che appare ancora più importante dal punto di vista della vita pubblica italiana e, in essa, di quanto in particolare riguarda Napoli e il Mezzogiorno.
La domanda che molti si posero all’epoca dei fatti, ma che è ancora oggi attuale, e che forse è resa addirittura più tale dal passare del tempo, verte sugli atteggiamenti e i comportamenti del mondo politico meridionale, e in particolare napoletano, dinanzi allo svolgersi che di fatto privava la città eponima del Banco e il Mezzogiorno con essa di una istituzione intimamente legata ad alcuni secoli della loro storia ed esperienza civile e che (dopo, e non senza, qualche esitazione) a stento si concluse mantenendo, come si è visto, in mani altrui la sigla bancaria napoletana quale semplice marchio di cui si poteva continuare a beneficiare.
Il perdurare del beneficio fu, in effetti, rapidamente comprovato dal fatto che si ebbe subito modo di vedere come quel marchio mantenesse pur sempre, nonostante tutto,molto del suo prestigio e della sua forza di richiamo nelle consuetudini del risparmio e del credito nel Mezzogiorno. Tutti ricordano la sorpresa dei nuovi proprietari e gestori del vecchio Banco per la difficoltà che incontravano nel penetrare in un mondo delle cui dimensioni sociali erano troppo largamente inesperti. Questa vicenda, che non fu in quel torno di tempo la sola nel suo genere, spinse, anzi, molti a scoprire e predicare che quella tra istituti di redito e territorio è una relazione molto più stretta di quanto a prima vista non si riesca a capire e a giudicare. Qualcuno (Tremonti, ad esempio) ne prese spunto per sollecitare la fondazione di una banca del Sud al fine di ristabilire nel Mezzogiorno quella relazione che appariva sconvolta dal progressivo passaggio dell’intero sistema creditizio meridionale in proprietà di istituti di altre parti d’Italia.
Fu, più o meno, solo a quel punto che nel mondo politico meridionale e napoletano si cominciarono a notare denunce e recriminazioni della vicenda che era passata, nel suo svolgersi, tranne, in pratica, poche e solitarie eccezioni, in una sostanziale e formale assenza di reazioni e di commenti critici. A ben vedere, fu quella una delle prime occasioni in cui si poté notare la graduale, ma, nel giro di pochi anni, inesorabile e piena perdita di influenza e di forza condizionante della classe politica meridionale nel contesto e al livello decisionale nazionale: una perdita che, come tutti ormai convengono, ha fortemente contribuito alla pressoché totale esclusione, negli ultimi venticinque anni, del Mezzogiorno, delle sue esigenze e problemi, dalla attualità dell’agenda politica nazionale.
In questo senso la vicenda del Banco di Napoli ha un interesse storico che non è di ordine puramente cronachistico. L’insufficienza, quando non la latenza, della classe politica meridionale in quella circostanza rivelava, in effetti, una insufficienza che in forme diverse si è manifestata costantemente in questa classe anche nel periodo della sua maggiore incidenza nella vita politica nazionale. Rivelava, però, anche – implicitamente – una davvero scarsa consapevolezza del ruolo del Banco quale fattore strutturale, sul piano creditizio, nel quadro di una qualsiasi politica meridionalistica. Una scarsa consapevolezza che autorizza a pensare che in essa giocasse pure la fiducia, la sicurezza di poter continuare le prassi di utilizzazione politica del servizio bancario proprie di quella classe anche nelle nuove condizioni determinate dalla alienazione del Banco. Si trattava di prassi di lontana ascendenza, per le quali banca e credito erano una delle maglie più importanti dei sistemi e sottosistemi di potere, cui nel Mezzogiorno (ma ciò non vuole affatto dire che altrove non accadesse altrettanto) la classe politica era adusa. Si sa, del resto, che proprio alla fin troppo larga diffusione di queste prassi fu generalmente addebitata la cattiva condizione in cui Banco di Napoli appariva alla vigilia della sua alienazione; e, benché la sollecitazione della polemica politica fosse in ciò evidente e, altrettanto largamente, pretestuosa, bisogna ugualmente riconoscere che un non esiguo fondamento oggettivo di quell’addebito fatto alla classe politica napoletana e meridionale non mancava.
È, tuttavia, chirurgicamente separabile una classe politica dal suo contesto sociale? A un’osservazione puramente empirica, dettata soltanto da una semplice esperienza in materia viene fatto di rispondere subito di no a questo interrogativo. A parte il problema metodologico e teorico, un fatto, comunque, appare indubitabile che dietro le prassi della classe politica vi fossero spinte, pressioni, aspettative, comportamenti sociali – e ai più varii livelli sociali – che motivavano quella classe e potevano dare ad essa il senso di una sorta di legittimazione di fatto, e perfino dell’assolvimento di un dovere sociale, nel suo operare al riguardo.
Una cronaca che ricostruisse dettagliatamente, come l’argomento merita, anche questo aspetto politico e sociale della questione sarebbe, ovviamente, di grandissimo interesse, e certamente sarebbe di quanto mai utile ammonimento agli attori e protagonisti attuali della vita pubblica e sociale del Mezzogiorno.








NOTE
1 Il cosiddetto Decreto Sindona ricorre per la prima volta in occasione della crisi della Banca Privata Italiana, e, nel caso di liquidazione coatta e di un valore delle passività superiore a quello dell’attivo, autorizza la Banca d’Italia a concedere un finanziamento straordinario ad un tasso dell’1% per un importo pari a quello dei titoli di Stato concessi in garanzia. Con la Legge 19 novembre 1996, n. 588, dal titolo “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 24 settembre 1996, n. 497, recante disposizioni urgenti per il risanamento, la ristrutturazione e la privatizzazione del Banco di Napoli”, viene ulteriormente sviluppato il processo di risanamento che era stato utilizzato per il caso Sindona. In particolare la legge che costituisce la SGA SpA deve essere analizzata negli articoli 6 e 6 bis. Li riportiamo perché possano rappresentare il senso tecnico della modalità che venne escogitata e perseguita al riguardo: “Articolo 6. Al fine di agevolare la ristrutturazione del gruppo creditizio Banco di Napoli, la Banca d’Italia può concedere al Banco di Napoli S.p.a. anticipazioni con le modalità di cui al decreto del Ministro del tesoro del 27 settembre 1974, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 256 del 2 ottobre 1974, a fronte delle perdite derivanti da finanziamenti e altri interventi effettuati dal Banco a favore di società del gruppo poste in liquidazione, e nell’interesse dei creditori delle medesime, ovvero a favore di società del gruppo a cui siano stati ceduti, previa autorizzazione della Banca d’Italia, crediti ed altre attività non immobiliari del Banco per la parte che eccede la copertura di cui all’articolo 6, comma 2; alle cessioni di cui al presente comma ed a quelle poste in essere dalle società cessionarie si applicano le disposizioni di cui ai commi 2, 3 e 4 dell’articolo 58 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385.Articolo 6-bis. L’autorizzazione della Banca d’Italia di cui al comma 6 è subordinata alla concessione in favore del Tesoro del pegno, con diritto di voto, delle azioni delle società cessionarie di proprietà del Banco di Napoli, ovvero anche alla concessione, in favore del Tesoro, di mandato irrevocabile, anche per più assemblee e senza indicazione di istruzioni, ad esercitare il diritto di voto, al fine di consentire al Tesoro di disporre della maggioranza dei diritti di voto”.^
2 Lucrezia Reichlin e Shahin Vallée, Resolving Europe’s Banking Crisis in Italy, Project Syndicate, at https://www.project-syndicate.org/commentary/europe-italy-flawed-banking-unionby-lucrezia-reichlin-and-shahin-vallee-2016-10?utm_source=Project+Syndicate+Newsletter&utm_campaign=7a8751565e-Stiglitz_How_Trump_Happened_16_10_2016&utm_medium=email&utm_term =0_73bad5b7d8-7a8751565e-104333505 ^
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