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Nazione napoletana
di Giuseppe Galasso
Non è un po’ strano che di nazioni e di idea nazionale si parli oggi nel dibattito storiografico un po’ meno che fino a qualche tempo fa? Eppure, le cronache dei nostri giorni in Europa non fanno che parlare di resistenza e persistenza nazionalistiche che si frappongono a una più autentica e piena realizzazione europea, di grettezze nazionalistiche che portano a chiusure di frontiere e a barriere normative isolazionistiche, di imprevisti sviluppi nazionalistici che avevamo ritenuto frutto di spinte estemporanee senza alcun legame col passato.
Forse questo è anche frutto degli approdi spesso deludenti o ripetitivi o inconsistenti del luogo comune sulla storia delle nazioni europee, e in particolare nell’ultimo periodo, in cui si è parlato soprattutto di identità nazionali a scapito delle realtà nazionali nella grande varietà delle loro forme e manifestazioni. E forse l’eredità più negativa che ne è derivata sta nella tuttora perdurante che la nazione sia una realtà unica, unitaria, univoca, corrispondente a un modello a sua volta, unico. Si potevano perciò qualificare agevolmente nazioni conformi a quel modello, e quindi “vere” nazioni, e nazioni difformi da quel modello, e quindi “anomale”. E si capisce che a qualche storico la nazione sia finita con l’apparire come una realtà dell’immaginario, proiezione delle passioni, delle velleità, delle pulsioni sentimentali e culturali di un mondo lontano dal corrispondere, nella sua realtà, a una tale proiezione.
Tra le “nazioni anomale” l’Italia viene tuttora citata come un caso esemplare. Quando poi si va a scrutare a fondo nella sua “anomalia”, affiorano molte e molte ragioni per ritenere che questa anomalia non sia poi altro che il modo specifico e originale in cui si è formata e sviluppata, rispetto alle altre, la nazione italiana; e che anomale, ciascuna rispetto alle altre, siano tutte le nazioni europee. Certo non può essere una anomalia la formazione tardiva di uno Stato unitario nel paese italiano. Dovrebbe essere ormai chiara la distinzione fra nazione (realtà ben più antica) e Stato nazionale (realtà recente) ovunque, non solo in Italia. Un precoce Stato unitario nel paese spagnolo non ha impedito alla Spagna di avere ricorrenti e gravi problemi di unità nazionale, mentre una tardiva unificazione nazionale (come in Italia) in Germania non ha impedito la formazione di un vigoroso nazionalismo in Germania.
In effetti Spagna, Germania, Italia sono casi esemplari di Stati nazionali che sono insieme multinazionali, e in cui le sue realtà nazionali concorrenti nella loro rispettiva e più generale realtà nazionale, hanno storie di indubbio spessore e natura nazionale.
Il caso della “nazione napoletana”, esaminato da Aurelio Musi in un saggio di grande vigore e senso storico [Mito e realtà della nazione napoletana, Napoli, Guida, 2016] dà il modo di contattarlo in maniera certamente esemplare. Ciò dipende dal fatto che quello di Musi è un lavoro fondato sugli sviluppi di lunga durata dell’oggetto storico a cui si riferisce. Egli parte, infatti, dalla fondazione della monarchia napoletana ai giorni nostri: otto o nove secoli di storia ricchi di continue variazioni e innovazione di un sentimento originario della nazione-Regno, ossia di appartenenza a una precisa comunità politica, il Regno appunto fondato dai Normanni nel secolo XII.
Si forma così una triplice catena, in cui quella appartenenza si articola: la mai mutata idea monarchica dello Stato, la centralità della capitale identificata ben presto come chiave e compendio di tutto il paese, la prevalenza del momento politico sull’azione e sviluppo del paese. Parallelamente si sviluppa il senso, sempre più evidente, dell’appartenenza del Regno alla sfera culturale e nazionale dell’Italia, che culminerà, alla fine, nella viva partecipazione meridionale al Risorgimento e all’unificazione italiana.
Le analisi di testi e documenti che Musi conduce su questi binari di ricerca sono in generale di grande interesse, e non si può fare a meno di notare che in particolare per quanto riguarda la parte della storiografia meridionale in questa complessa vicenda i suoi apporti sono ancora più interessanti.
Musi non si ferma, però, al momento conclusivo della storia del Regno nel 1860. La parte più originale e pregnante del suo lavoro sembra, infatti, propria quella altrettanto ampia che agli dedica al dopo 1860, seguendo quelle che gli appaiono le metamorfosi essenziali della triplice catena da lui individuata. Col sentimento monarchico - dice - si è passati ai forti legami con personalità carismatiche. Napoli ha continuato ad avere una parte importante, sia positiva che negativa, nella storia complessiva del Mezzogiorno. La prevalenza del momento politico su quello economico e sociale nel rinnovamento del paese è anch’essa rimasta sostanzialmente viva. In più, però, attraverso dibattiti e polemiche di cui si dà conto, si coglie l’emersione di una linea, che Musi definisce populista, come “variabile distorta della nazione napoletana”, in parallelo coi più generali processi di crisi della società nazionali che nell’Europa sono maturati nel passaggio dal XX al XXI secolo.
Con Musi si può essere d’accordo o in disaccordo su questo o quel punto. Non gli si può, invece, davvero negare di aver fatto il punto in modo vivo e stimolante su un tema di grande attualità, che se ne parli di più o di meno. Il caso napoletano dimostra con viva evidenza la molteplicità di forme di percorsi in Europa che hanno avuto gli sviluppi nazionali sia considerati a sé, sia considerati come sezione o parte di sviluppi nazionali più ampi. Musi ha cercato di tenere in equilibrio sia gli elementi culturali sia le forme materiali che danno vita a quegli sviluppi. Nel caso dell’Italia direi che ciò conferma sia la validità del modulo multinazionale, sia le particolarità e specificità storiche della nazione italiana nel suo nascere e nel suo farsi. E l’attualità del tema non deriva soltanto dagli andamenti polemici in materia di nazioni e nazionalità che si sono avuti nell’ultimo mezzo secolo (e in Italia e in Spagna più forti che altrove). Deriva anche da ciò che vediamo rispetto all’Europa e all’Unione Europea. Identità e sentimenti nazionali suscitano e si fanno fortemente valere, ma non hanno più la pregnanza e la capacità di spinta che avevano fino alla metà del ’900. Dall’altro lato, una identità europea sostituiva o complementare rispetto a quelle nazionali è ancora molto vaga e inefficiente. La crisi delle nazioni non ha voluto dire più Europa. Ha voluto dire soltanto una generale incertezza di coscienza storica e di prospettive e volontà d’azione, che non porta da nessuna parte e non orienta verso nessun dove. La fragilità politica dell’Unione è strettamente legata a questo dato di fatto. Tutto sommato, anche la “anomalia” della multinazionale realtà nazionale italiana appare, al confronto, più costruttiva e concreta, e la così problematica napoletanità sembra offrire un processo più coerente.
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