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La questione demografica come questione sociale
di Eugenio Mazzarella
In un intervento recente Massimo Livi Bacci (Fine della demografia?, in "il Mulino” n. 4/14) mette in guardia, nell’analisi delle dinamiche demografiche da qui al fine secolo, da due illusioni. La prima è che i comportamenti demografici – riproduzione, sopravvivenza, mobilità, migrazione – siano destinati a convergere verso modelli uniformi, e che tendano a ridursi ed annullarsi le macroscopiche differenze (tra aree geografiche, gruppi etnici, sociali o religiosi), ancora in essere, proprie dell’ultimo secolo. La seconda, correlata, che in uno stato di stazionarietà demografica, anche la geo-demografia del mondo conseguirebbe una struttura fissa. Eventualità improbabile, ma che, pure realizzata alla fine del secolo, vedrebbe, già a metà secolo, il peso demografico dell’Europa, passato dal 20% nel 1800 a 25% nel 1910, per scendere poi a 22% nel 1950, a 10% nel 2014, attestarsi ad un modesto 7% previsto per il 2050. Differentemente, solo per restare all’Africa, il suo peso demografico, passato da 9% a 16% tra il 1950 e il 2014, balzerà a 25% nel 2050.
Partendo dal presupposto, pur «senza tuttavia sottoscrivere le affermazioni – care ai regimi totalitari – che il numero è “potenza“», che «sarebbe ingenuo pensare che le dimensioni demografiche siano ininfluenti nel contesto internazionale», perché numero «significa forza lavoro, prodotto, influenza economica nei rapporti tra Paesi», Livi Bacci segnala l’urgenza di porre in essere linee d’azione su questo terreno per arginare il declino economico e sociale che queste dinamiche annunciano all’Europa e in genere ai paesi occidentali. In un quadro in cui le stesse migrazioni in atto non saranno sufficienti ad arginare una demografia in declino per l’Europa e i paesi occidentali in un secolo in cui è prevista stazionarietà nei paesi ricchi, un incremento del 30% nei paesi meno poveri nelle aree in via di sviluppo e addirittura un raddoppio nei paesi poverissimi, in gran parte nell’Africa sub-sahariana.
E questo nel contesto, cognitivo e politico, di una difficoltà strutturale a invertire il trend in atto, perché le dinamiche di declino demografico dell’Europa e dei paesi “ricchi” sono sostenute da due fattori: 1. Il maggior indice di natalità dei paesi meno sviluppati e l’abbattimento della natalità europea a livelli ben lontani dal mero rimpiazzo della popolazione; 2. La difficoltà di efficaci politiche di promozione della natalità, molto più problematica da “spingere” in alto a confronto delle politiche di controllo della natalità.
Una situazione che merita una considerazione attenta non solo sotto il profilo socio-economico, come prevalentemente si tende a fare in analisi centrate sulla marginalizzazione del peso economico e geopolitico dei paesi in progrediente denatalità, e sul rischio della sostenibilità sociale, per questi paesi, del loro impoverimento demografico; ma anche sotto un profilo che si tende a sottacere, perché forse “politicamente poco corretto” per il timore di cedere al lessico e alle suggestioni dello “scontro di civiltà”. E cioè sull’incidenza geopolitica della civilizzazione europea, come sistema di valori, culturali, religiosi, politici, quando questa civilizzazione si sia ridotta da qui al 2050 al 7% della popolazione del globo. In un mondo che si globalizza in un contesto di “confronto” insieme cooperativo e competitivo, dell’Europa e dei suoi valori ci sarebbe ben bisogno, perché la bilancia penda dal lato dell’integrazione cooperativa, piuttosto del confronto competitivo. Se l’Europa vuole continuare a essere la maggiore piattaforma di “diritti umani” che la civilizzazione umana ha conosciuto, potrebbe essere ineludibile porsi il problema di una demografia a sostegno dei “valori”– che non sono riducibili quelli di mercato – cui ha messo capo la sua storia.
In questo scenario di “transizione demografica” che alla sua fine, al 2100, dovrebbe consegnarci, al netto di oscillazioni locali pur significative, una stazionarietà demografica e geo-demografica (equilibrio di rimpiazzo tra nascite e morti, fine dell’incidenza del ricambio popolazione per migrazioni) tendenzialmente stabilizzata in linea con gli scompensi descritti a danno dell’area europea (cfr. M. Livi Bacci, Il pianeta stretto, Il Mulino, Bologna 2015), sono generalmente posti sotto osservazione – dagli Obbiettivi del millennio proposti dalle organizzazioni internazionali– gli aspetti ambientali, socio-economici, geopolitici; e la loro sostenibilità negli scenari previsti, che dovrebbe essere perseguita. I focus di attenzione sono il peso dell’impronta ecologica, gli scompensi demografici in quanto tali, la capacità di regolazione delle popolazioni moderne nella forbice tra riproduttività e migrazioni (tra ricambio biologico e ricambio sociale), l’insostenibilità sia dell’esplosione che del declino demografico, le conseguenze geopolitiche delle alterazioni geo-demografiche, il controllo dei flussi migratori, la sostenibilità sociale della lunga vita, la “trappola malthusiana” sempre in agguato nelle aree economicamente deboli sotto la pressione dello sviluppo demografico. Manca in questi focus un’adeguata attenzione allo squilibrio della competizione valoriale sulla scena della globalizzazione, che le dinamiche demografiche e geo-demografiche porteranno con sé.
Il punto, per quanto riguarda l’Europa, non è tanto la crisi della sua identità etnica, culturale, sociale. Presumibilmente, gli islamici non supereranno i 30 milioni attorno al 2030. Certo una minoranza importante (il 5-6% della popolazione), ma da qui a temere che la marea sommerga la civiltà europea, ce ne corre. Il punto non è la civilizzazione europea in Europa, ma la sua espansività valoriale fuori dell’Europa come rischio valoriale globale connesso alla denatalità europea. E assumo come tratto distintivo di questa civilizzazione (Atene-Roma-Gerusalemme, sincretizzatasi nelle “radici cristiane dell’Europa”, nonostante l’inconsapevolezza del dibattito che le ha volute postdatare all’Illuminismo) i valori della dignità della persona e della democrazia, più che il “mercato”.
In effetti, quest’ultimo è il vero “valore” universale che l’Europa ha esportato con successo (fin troppo) nel mondo globale. Un valore che però ha dimostrato, per il suo attecchire e imporsi in altre aree culturali e di civilizzazione, di non aver bisogno dei valori di accompagno politici e umani legati alla dignità della persona e alla democrazia liberale. Anzi la sua diffusione “ecumenica” molto deve alla sua capacità di esonerarsi dall’impegno ai valori della dignità della persona e delle democrazia liberale. Anche perché l’esportazione che ne ha fatto l’Europa è stata quella di un “individualismo proprietario” sempre meno garanzia della libertà e dell’autorealizzazione della persona, sempre meno“mezzo” della persona e sempre più fine in sé; anzi piuttosto incline a cancellare e umiliare la persona la cui autorealizzazione era nato per sostenere. Risolvendosi come proposta globale di un “individualismo mercatorio”, magari di Stato o oligarchico, che dei valori liberaldemocratici, e della sottesa dignità della persona, non si fa affatto problema.
Con l’effetto di rimbalzo per l’Europa che, per reggere la competitività del tipo di mercato globale che ha generato, essa è spinta a mettere da parte proprio i valori dell’individuo che con il mercato voleva emancipare dalle attribuzioni di ruolo tradizionali (sociali, economiche, valoriali). Potente fattore di frustrazione identitaria per un Occidente europeo che avverte di stare perdendo proprio quando credeva di vincere facile sul campo di gioco che aveva posto, e imposto: il primato del mercato.
In termini di geo-demografia prevedibile, c’è una riserva strategica valoriale per l’Europa cristiana nel senso sopra descritto, che possa essere affidata ai numeri geo-demografici della civilizzazione cristiana extraeuropea? Una riserva su cui la Chiesa alle prese con la globalizzazione, non solo del dialogo interreligioso, da Giovanni Paolo II a Francesco pare stia investendo da alcuni decenni. Qui va comunque valutata la differenza europea, per dirla all’ingrosso, in termini di resistenza all’individualismo mercatorio di stampo anglosassone, e all’interpretazione lasca dei valori di democrazia liberale in molte aree della civilizzazione cristiana. E se il bisogno d’Europa, come ritorno alle radici solidaristiche per le periferie morali e materiali dell’esperienza cristiana della vita, ovviamente nella dimensione laica (diritti, aspettative, bisogni umani e materiali) che ha storicamente acquisito, non sia poi il contributo “politico” che l’Europa può recare alla governance della globalizzazione nel tragitto del compimento della transizione demografica.
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