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Italia, fine e inizio d’anno
di G. G.
Nella vita politica italiana l’approvazione della legge finanziaria per il 2007 ha indubbiamente rappresentato l’ evento di maggiore rilievo della fine del 2006. L’ostacolo da saltare era decisamente superabile, e non è necessario ricorrere al nome del signor di La Palisse per notare come fosse tanto superabile che lo s è superato. Naturalmente, pagando dei prezzi.
Tra questi prezzi non porremmo, però, il fatto che il governo sia stato costretto a porre tante volte la fiducia per non rischiare di finire la sua vita prima di averla davvero cominciata. Il carattere composito e l’accentuata pluralità partitica (anche se spesso di partitini e di frammenti di partito) della maggioranza nata dalle elezioni del 2006 erano talmente scontati da indurre a meravigliarsi che non si fossero fatte subito sentire in modo meno strisciante e molto più pericoloso. A voler concludere il cammino parlamentare della legge entro l’anno e senza troppo sacrificare della linea che sembrava scelta dal governo dopo l’approvazione della legge nel Consiglio dei Ministri (anche se più d’uno dei Ministri ha poi disdetto la sua approvazione, criticando la legge per i settori di propria competenza e chiedendo - tutti i salmi finiscono in gloria - più soldi per tali settori), la richiesta del voto di fiducia era l’unica strada percorribile, e non ci vuole molta fantasia per immaginare quel che sarebbe accaduto se il governo neonato fosse stato subito impallinato sul terreno della legge finanziaria.
Porremmo, piuttosto, il fatto che la pericolosità immediata delle molteplici disomogeneità della maggioranza è stata evitata, ma è apparso chiaro nello stesso tempo che la compattezza minima necessaria per reggere al quinquennio di governo al quale la maggioranza è stata legittimata dal risultato delle elezioni non sarà facilmente acquisibile nel prossimo e meno prossimo futuro, a mano a mano che verranno al pettine i nodi di questioni ben più delicate di quelle poste dalla finanziaria. Ci riferiamo, ovviamente, alle questioni dei PACS e alle questioni di bioetica ormai sul tappeto in maniera tale da non essere più facilmente dilazionabile; e ci riferiamo alla questione, meno delicata, ma non meno, e forse addirittura più condizionante, della revisione della legge elettorale. E non ci sembra che possa riuscire rassicurante al riguardo l’argomentazione di chi fa presente che si tratta di questioni che sono e possono essere tutte dirompenti per l’opposizione non meno che per la maggioranza. Questo significa soltanto che, se sul terreno di tali questioni nascono tensioni inconciliabili; e se esse riguarderanno sia l’una che l’altra parte politica italiana, la crisi o le crisi che ne nasceranno saranno ancora più gravi e porteranno a esiti fin troppo imprevedibili e ingovernabili. Per tutti.
Si dice, tuttavia, che tanto nell’uno che nell’altro campo vi sia chi lavora per tali crisi e ne studia o prepara l’utilizzazione in vista di proprie strategie modificatrici; se non rinnovatrici, del gioco politico italiano. Strategie che, a stare a quel che si sente e si dice, sono assai diverse fra loro: il mitico “grande centro”, che servirebbe a sforbiciare sulle ali lo schieramento politico nazionale, costringendo le punte estreme di esso a quella dimora dei loro voti in frigorifero che una volta veniva imputata al vecchio Partito Comunista Italiano a riprova della sua infecondità politica di fondo; o lo stesso disegno di centro, ma riferito, e anche, in qualche modo, limitato, a una non meglio precisata rinascita o riedizione del cattolicesimo politico italiano e, in pratica, della Democrazia Cristiana, sulla quale oggi nessuno sembra più permettersi i disdegni e le condanne di un tempo (e ve ne sarà pure qualche ragione); o una
Grosse Koalition che non sia solo una combinazione di emergenza ma configuri una gestione bipartisan (come si dice con uno degli orribili neologismi conformisti e spesso sciocchi del nostro tempo) del paese sulla base di un perfezionato bipolarismo o, addirittura, bipartitismo, vista che si continua a parlare, a destra e a sinistra, di un rispettivo “partito unico”; a un ritorno apertamente canonizzato a un regime di pieno e autentico parlamentarismo, del tipo che si è avuto in Italia fino agli inizi degli anni '90, o ancora altre e non meglio specificate riarticolazioni del “sistema” attuale.
Se queste strategie effettivamente sussistano, e con quanta decisione e capacità politica le si porti avanti, non sapremmo dire. Il comportamento di molti politici italiani sembra accreditarle, almeno come velleità di singoli o di gruppi: ultimo e tipico esempio, l’esodo di Follini dal partito di cui è stato segretario e la sua successiva promozione di un’altra sigla politica (non vogliamo dire gruppuscolo, come tutto induce a credere, in un panorama politico che di sigle ne esibisce ormai tante da sopravanzare di una buona spanna il deprecato eccesso del numero dei partiti nel precedente assetto politico del paese). Avere le strategie o disegnarne quante se ne vogliano è, tuttavia, una cosa. Altra cosa è disegnare, prima, e, soprattutto, realizzare, poi, quelle di successo. E su questo piano chi riesce a trarre un ragno dal buco in cui prospera la selva dei partiti e gruppi, partitini e gruppuscoli dell’attuale quadro politico italiano è davvero bravo.
Il “grande centro”, di cui da sempre si parla, è più o meno, come la Fenice: «che vi sia ciascun lo dice - dove sia nessun lo sa», a gloria dell’immortale melodramma italiano (anche se sarebbe davvero interessante assistere alla coabitazione di tante teste e testoline, capi e capetti politici in una tale formazione di centro, specie se si trattasse di una nuova Democrazia Cristiana). Sulla possibilità di un ritorno al parlamentarismo puro della cosiddetta Prima Repubblica c’è da avanzare un fiero scetticismo, ma non per questo eviteremmo di tenere desta al massimo possibile l’attenzione al riguardo, se un tale ritorno non lo auspicassimo. Non è affatto da trascurare – è questo il punto - la moltitudine dei “minori”, che non aspirano ad altro che ad alzare la soglia della loro possibilità di condizionamento (altri dicono ricatto) delle maggioranze o delle minoranze di cui fanno parte: sempre, naturalmente, e nobilmente (dove si va a ficcare a volte la nobiltà!), in nome delle rispettive “culture” e “identità”, ma con effetti anch’essi rovinosi, raramente positivi, da molti punti di vista. Si tratta, infatti, di una moltitudine che in circostanze neppure straordinarie o eccezionali può ottenere sul punto della legge elettorale soddisfazioni tali da avvicinarsi di molto, se non in tutto, all’obiettivo prediletto.
I “partiti unici” di cui si parla sembrano ogni giorno avvicinarsi e, allo stesso tempo, ancor più allontanarsi dalla realizzazione. Può essere un’impressione errata; e, tuttavia, si ha, però, l’impressione che questa marcia del gambero vi sia a sinistra alquanto più che a destra, e non soltanto per la difficoltà di mettere insieme la Margherita e i Democratici di Sinistra. Almeno fino a quando vi sarà la guida di Berlusconi, è presumibile che le analoghe difficoltà della destra siano coperte e tacitate dalla personalità prevaricante del
leader. A sinistra, invece, le difficoltà appaiono maggiori, e non tanto come difficoltà di materiale e formale raggruppamento di forze diverse, che debbono stabilire una nuova piattaforma organizzativa e un equilibrio di potere in un modulo inedito di azione politica (sia un partito o un movimento o un gruppo o quel che sia, o una federazione di siffatti elementi). Appaiono maggiori, piuttosto, come difficoltà di stabilire una piattaforma politico – programmatica che serva, se non altro, quale indirizzo di massima della nuova “cosa” a cui si mira: e una piattaforma di questo tipo può mai mancare in una forza che si propone di essere protagonista del gioco politico nazionale?
Già in seno alla Margherita queste difficoltà sembrano notevoli, ma possono essere spiegate e previste come effetto del carattere già composito, per la sua stessa genesi, di questa formazione politica. In seno ai Democratici di Sinistra - per i quali si dovrebbe presumere una omogeneità, almeno di partenza, alquanto maggiore - le analoghe difficoltà appaiono, tuttavia, ancora maggiori, e tali da lasciar prevedere, a parere di molti, che la spinta al partito unico finirà col produrre una nuova scissione di sinistra, che rafforzerà lo schieramento di sinistra più radicale rappresentato dagli attuali partiti di Rifondazione Comunista e dei Comunisti Italiani. Inoltre, e, a nostro avviso, assai più grave è che in seno ai Democratici di Sinistra ancora non si è ben capito quale sia la capacità e la direzione riformistica alla quale essi siano davvero in grado di dar luogo. Recente è stata l’uscita dal partito di Nicola Rossi, ossia di un esponente della cultura riformatrice alla quale si pensa quando si auspica la formazione di un grande e nuovo soggetto politico di sinistra (e, invero, con o senza partito unico). E’ un caso personale isolato? Bisognerà capirlo. Anche perché - vale sempre la pena di ripeterlo – a che cosa servirebbe un rimescolamento del gioco politico italiano se, a sinistra, non assicurasse la formazione di una grande forza di assoluta garanzia democratica e di equivalente capacità riformatrice?
Dunque, ancora tutto da vedere, soprattutto e proprio nel campo della maggioranza, che sul triplice terreno cui abbiamo accennato (PACS, bioetica, legge elettorale: ma non siamo affatto dimentichi delle pensioni, della politica estera e di altri problemi) rischia ben più che su quello dell’approvazione della legge finanziaria. Né vogliamo trascurare di ricordare che, se un compito di maggiore respiro politico questa stessa maggioranza poteva avere e proporsi, era il compito di portare definitivamente le sue frange estremistiche (che non sono soltanto i “disobbedienti”, “no global” e simili) su un terreno di adesione effettiva e convinta alla pratica gradualistica e non massimalistica del governo e del riformismo, che deve restare (deve!) il minimo comun denominatore di un regime liberal-democratico degno del nome, quale si suppone che si voglia continuare a praticare in Italia senza nostalgie e residui vagheggiamenti di altra scuola. E anche per questo compito non si può dire che la maggioranza attuale abbia dato finora segni visibili di conseguimento dello scopo. Né basta gonfiare il petto per quelli che appaiono i risultati finanziari dell’anno 2006, perché anche i bambini capiscono che questi risultati, se sono buoni, lo sono molto largamente, se non in tutto, per effetto (e quindi merito) della politica fiscale e finanziaria perseguita dal governo precedente; e ancora di più sono l’effetto delle energie e delle spinte che ora la società italiana sembra ricominciare a esprimere, conformemente alle sue grandi e sempre riconosciute doti di vitalità e di creatività.
Insomma, gonfiare meno i petti e tendere di più i muscoli nello sforzo di affrontare e superare problemi che vanno lealmente e francamente riconosciuti come problemi di grande spessore e difficoltà politica. Questo può portare ad altri molti difficili momenti della vita di questa maggioranza? Così è sembrato dall’intervista di Fassino sul “colpo d’ala” necessario al governo e alla sua maggioranza. Se, però, così fosse, sarebbe su questo che si potrebbe misurare la capacità di una classe politica di convertire le difficoltà in occasioni di crescita e di promozione politica e sociale.
Al riguardo non è valso a granché, anzi non è valso in pratica a nulla, il “conclave” (che termine!) di Caserta; e non è quindi di lì che si può pensare di ripartire.
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