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La Malfa
di Adolfo Battaglia
Questo libro di Paolo Soddu chiarisce e definisce fondamentali elementi della posizione democratica italiana: cioè della posizione riformatrice non socialista e non liberal-liberista che nel secondo dopoguerra ebbe in Italia la sua massima espressione politica nella figura di Ugo La Malfa. Di 350 pagine di testo, e dotato di un apparato di note di tutto rispetto, è un libro da leggere integralmente per intenderne tutti i fili che si annodano insieme e che ricompongono un tessuto vivo nei colori quanto solido nella trama.
Parte in certo senso dalla constatazione che la posizione riformatrice democratica è stata perennemente minoritaria nel Novecento italiano. Ma è certo che quella posizione, pur non riscuotendo mai forti consensi elettorali, è stata forte di grandi figure. Per citarne alcune alla rinfusa, Salvemini e Nitti, Amendola, Gobetti, Rosselli, e i due capi del Partito d’Azione Ferruccio Parri e appunto Ugo La Malfa, e quei due grandi e poco conosciuti padri costituenti che furono Tomaso Perassi e Giovanni Conti, e poi lo Sforza, il Pacciardi della lotta antifascista e delle scelte euro-atlantiche, e poi i grandi intellettuali, Omodeo, De Ruggiero, Flora, Salvatorelli, Calogero, Calamandrei, Elena Croce, Valiani, Venturi, e poi i grandi banchieri, Mattioli, Siglienti, Tino, Cuccia, Cingano, e poi quegli ammirevoli e un poco bizzarri purosangue che furono Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Bruno Visentini. E poi tanti altri, meno conosciuti, che tuttavia configurano una autentica classe dirigente di cui un giorno bisognerà pur tracciare la consistente vicenda.
In molti passaggi cruciali della vita italiana, effettivamente, questi uomini ebbero parte decisiva. Contribuirono come pochi a rendere l’Italia un paese moderno, più europeo, meno conservatore. Riforme incisive e iniziative coraggiose si debbono alla loro presenza e alla loro azione. Ma la domanda spesso postasi è se la loro opera e il loro peso fossero dovuti ad elementi specifici e irripetibili della loro personalità o invece al valore di una concezione in certo senso cogente e largamente comune. Il volume, attraverso la lente focalizzata sulla figura di La Malfa, fissa in modo convincente la risposta: la concezione da cui fu impregnata la posizione democratica era in certo senso imprescindibile nel processo di modernizzazione dell’Italia entro il quadro della civiltà democratica occidentale. Nel processo cioè che il paese fu costretto a considerare dopo la tragedia della guerra perduta e il crollo del primo fenomeno modernizzante costituito dal fascismo.
Era la concezione fondata su una visione pienamente secolarizzata dello spazio pubblico. Aveva radici antiche perché affondavano addirittura in uno dei pre-requisiti della modernità, la machiavelliana autonomia della politica. Ed era una concezione che, dopo i grandi momenti dell’Illuminismo e del Risorgimento dei cui succhi si alimentava, aveva sviluppato una “visione democratica inclusiva”, come Soddu la chiama: che dietro di sé aveva la questione nazionale ereditata dal Risorgimento (un Risorgimento, ben s’intende, non “tradito” ma “incompiuto”) e che allo stesso tempo si nutriva dei problemi e delle soluzioni poste nel Novecento dalla cultura riformatrice europea e americana. Si trattava dunque di una concezione assai complessa. Non soltanto strutturalmente diversa da quelle del cattolicesimo sociale e del socialismo d’impronta marxista, ma anche più ricca e articolata di quella socialdemocratica, di cui pure recepiva una serie di elementi. Rifletteva certo tutte le esperienze della “grande trasformazione” economica e sociale generata dalle successive ondate della rivoluzione industriale. Ma a comporla era allo stesso tempo il pensiero democratico moderno circa la supremazia dell’analisi scientifica sull’ideologia, per un verso, e, per l’altro, circa la natura dello Stato, il valore delle istituzioni, il significato dell’indipendenza delle istanze di garanzia, il senso possibile dell’eguaglianza, e insomma la sostanza “laica”della politica.
Nota Soddu a questo proposito che «socialismo liberale, liberalsocialismo e democrazia senza aggettivi erano tutte declinazioni di una comune percezione». Esprimevano, in sostanza, l’esigenza di riformare nella libertà l’assetto delle società in alternativa ai totalitarismi della prima parte del Novecento e agli ideologismi della seconda parte, di uno stampo o di un altro che fossero. In questo senso, come sopra si notava, quella concezione era in qualche modo ineludibile per la riforma moderna dell’Italia: e in momenti cruciali della vita del paese non solo infatti non fu elusa ma ebbe peso importante nella determinazione degli avvenimenti.
Naturalmente, il suo difetto primo era che si poneva con troppo anticipo rispetto all’effettiva condizione di un paese che aveva la storia del nostro. E fu questo in definitiva – è l’osservazione di Soddu – a sconfiggerla strategicamente ad opera dei due grandi partiti di massa a sfondo ideologico-religioso, che pur nella profonda differenza delle loro impostazioni si muovevano sul terreno di una analoga sacralizzazione della politica. Ebbero certo grande funzione perché nazionalizzarono le masse e le adagiarono in qualche modo sulla democrazia risorta dopo la Resistenza. Ma le adagiarono su essa arando quel fondo ideologico-religioso cui in modo diverso i due partiti si rifacevano: e certo sarebbe astratto domandarsi se avrebbero potuto svolgere la loro funzione su altra base. Di fatto, ciò non avvenne. Ma è anche un fatto che l’ultra-quarantennale egemonia delle concezioni proprie dei partiti di massa – entrambe insufficienti a fondare la modernità democratica cui mirava la sinistra di riforma, da essi sconfitta – ha concluso il suo non breve ciclo sprofondando il paese in una enorme difficoltà d’ordine morale e istituzionale: in una crisi strutturale che giunge ad esprimersi oggi nell’avanzata dell’antipolitica e nel serpeggiare di istanze di rottura dell’unità nazionale. È dunque in questa storia gran parte dell’origine e della consistenza dei problemi che attanagliano il paese: altro che il “moralismo divisivo” degli intellettuali di sinistra di cui ha parlato Galli della Loggia! (in un articolo del «Corriere della Sera» che sembra ripetere, sul versante di destra, il vezzo deplorato su quello di sinistra; e che, ancor più curiosamente, sembra associare spiriti così diversi come Gobetti e Amendola per condannare poi entrambi!). Ed è per questa storia, anche se non per queste sole ragioni, che la sostanziosa complessità della concezione democratica ricompare all’orizzonte oggi, quando la modernizzazione non può concedere più alcuno spazio alle ideologie cadute del Novecento e torna però ad essere un obbligo politico assoluto: l’obbiettivo e il compito, cioè, imposti da quelle articolazioni tutte nuove della società, dell’economia e della vita morale che sono derivate dall’impatto della scienza e della globalizzazione, non meno che dalla gigantesca diffusione dello spirito dell’individualismo perfino in aree del pianeta fino a ieri immerse nella depressione.
Questo di cui si è discorso pare dunque il primo punto importante fissato dal volume. E da esso potrebbe anche dipanarsi qualche novità interpretativa nella storiografia della prima Repubblica. In effetti l’esatta collocazione delle ragioni storiche e del peso politico della posizione democratica, e dunque l’esatta comprensione del suo significato e della sua funzione (spesso clamorosamente fraintese, come il volume anche documenta) non possono che mutare l’ottica stessa con cui si è guardato al periodo. E definire in modo più completo il valore dei momenti creativi rappresentati dalla Repubblica e dalla Costituzione. E stabilire meglio, altresì, il significato e il valore delle aspre battaglie che le precedettero, nelle quali la posizione riformatrice del Partito d’Azione, e La Malfa in particolare, ebbero una parte tanto grande quanto finora mal compresa. Nello stesso senso, potrebbe essere meglio precisato il significato in certo senso fondativo, e non poco strutturalmente riformatore, sia del centrismo degasperiano, oggi spesso catalogato come esperienza conservatrice se non reazionaria, sia del “primo” centro-sinistra, quello Fanfani-La Malfa: che del centrismo costituì non la negazione ma il tentativo di positivo superamento, e che non moltissimo ebbe di comune, oltre la formula e le esigenze generali, col “secondo” centro-sinistra Moro-Nenni. Egualmente, sulla stessa onda, sembra nascere l’esigenza di fissare meglio il senso profondo del tentativo di salvezza della Repubblica rappresentato dalla politica di solidarietà nazionale, cui mirarono anzitutto i democratici di La Malfa, e l’oscuro esito della sordità degli oppositori di essa.
È anche tutto questo che può probabilmente permettere di collocare storicamente in modo adeguato, o almeno non tanto corrivo e polemico quanto è oggi, sia il corso che ha portato al progressivo disfacimento del sistema politico, sia le ragioni profonde della crisi presente della nazione. Qui c’è dunque un valore specifico del volume che riguarda certamente la figura di La Malfa ma finisce con l’incidere anche sulla problematica storica dell’intero periodo.

***


Negli anni intorno alla fine della seconda guerra mondiale la concezione moderna della politica si identificò nella parola d’ordine del partito ideato da La Malfa e Tino: “la rivoluzione democratica”. Un secondo punto del volume di Soddu che conviene sottolineare è la precisazione del valore paradigmatico, di modello alternativo, che la formula azionista rappresentava rispetto agli schemi politici cui si ispirarono la Dc e il Pci.
L’idea della rivoluzione democratica derivava in effetti non da una escogitazione momentanea sull’onda della Resistenza, ma dalla riflessione storico-politica sullo svolgimento della vita nazionale unitaria. Una riflessione in cui ebbero peso, più che i risentimenti anti-giolittiani, le interpretazione di Omodeo, Salvatorelli, Salvemini, Venturi, Nello Rossetti. Fu questa riflessione alla base dell’orientamento di fondo dell’antifascismo di sinistra democratica, cioè di quelle forze di borghesia intellettuale e produttiva che diedero le loro prove tanto in Italia, in una clandestinità sofferta e infiorata di processi e condanne, quanto all’estero, attraverso soprattutto il movimento di “Giustizia e Liberta” (il cui fondatore fu certo Carlo Rosselli, ma i cui primi capi in Italia furono Riccardo Bauer ed Ernesto Rossi, accompagnati, notò a suo tempo Valiani, da una schiera di quei “combattenti democratici” che avevano già cercato un rinnovamento della vita italiana nel primo dopoguerra).
La “rivoluzione democratica” passava naturalmente per la vittoria nella battaglia della Resistenza. Non è un caso dunque, né una pura espressione di moralità politica, che il Partito d’Azione abbia versato in essa a livello di quadro dirigente, come De Luna ha rilevato, una montagna di sacrificio e di sangue superiore a quella di tutti gli altri partiti. E non è neppure un caso che della Resistenza sia stato il leader riconosciuto l’uomo più autorevole e rappresentativo del partito, Ferruccio Parri. Ma è con il suo governo, come Soddu torna a rilevare, che il tentativo di rivoluzione democratica rivela la debolezza della sua presa e viene poi definitivamente sconfitto ad opera del sistema dei partiti di massa.
Le conseguenze della débacle di una concezione tanto alta, perseguita con tanto vigore morale, e infine politicamente crollata, non poteva che avere esiti sconvolgenti sulla classe dirigente della sinistra di riforma. Gli interpreti più autentici dello spirito di modernità democratica per una parte si disorientano (Lombardi, Calamandrei, Calogero, Foa, Muscetta, Luigi Russo, ecc.), per un’altra si trovano da allora in poi in seria difficoltà politica (Parri, La Malfa, Reale, Visentini, Spinelli,l’ala democratica del P.d’A.). Il libro di Soddu ha adesso il merito di puntualizzare bene che anche nella nuova cornice interna e internazionale entro cui La Malfa, come leader politico di quella posizione, si trovò ad operare, e nelle controverse formule di maggioranza che ne conseguirono, egli sentì sempre di esprimere il respiro della riforma, della sinistra di riforma: in sostanza, dello spirito democratico della civiltà europea che prendeva forme politiche irrecusabili attraverso il processo d’unità europea, l’alleanza euro-americana e la creazione del Welfare State – cui per prima la sinistra di riforma aveva puntato. Portò questo spirito, anzitutto, nel Partito Repubblicano, in cui l’ala democratica del P.d’A. confluì all’inizio del ’47. Ma lo portò anche, più in generale, nell’opera politica, parlamentare e di governo, che risultarono non certo determinate ma certo non poco influenzate dalla posizione democratica e da quella socialdemocratica, definitasi minoritariamente in Italia con Saragat. E può avere forse positivo significato che questo punto critico venga ora esplicitamente riconosciuto a sinistra – dopo la rivalutazione della figura di La Malfa compiuta da Franco Barbagallo nella sua biografia di Berlinguer – attraverso lo scritto di commento alla biografia di La Malfa pubblicato nell’«Unità» da uno storico di accentuato orientamento come Nicola Tranfaglia.
Il volume precisa, così, talora esplicitamente e talora implicitamente, il senso del centrismo di De Gasperi (e in particolare dell’intensa capacità riformatrice degli ultimi tre anni dei suoi governi). Il centrismo è in realtà una fase di ascesa del paese. È in quegli anni che, accanto alla Costituzione, si gettano le fondamenta possibili di un nuovo sviluppo dell’Italia. Sono di quegli anni le poche riforme che sono rimaste con esiti positivi nella vita italiana. Soddu nota gli elementi di continuità e insieme di novità derivanti dal tentativo di superare l’intervento riformatore frammentato della prima Legislatura attraverso la svolta politica di centro-sinistra: puntando all’allargamento della base democratica dello Stato non soltanto attraverso l’ingresso al governo del paese del Partito Socialista ma soprattutto, più strutturalmente, attraverso la programmazione integrale dello sviluppo economico e civile. Siamo appunto alla famosa Nota aggiuntiva del ’62, di cui il Presidente Napolitano, nella sua autobiografia politica, aveva detto chiaramente il senso:
il punto più alto di analisi dell’evoluzione del paese, a partire dal dopoguerra, e di elaborazione di una visione nuova dell’azione pubblica. Tanto che nella politica da essa definita «si sarebbero potute riconoscere tutte le forze della sinistra, anche quelle di opposizione. E questo sia per la critica di fondo da cui la Nota partiva nei confronti della linea di politica economica seguita fin dai primi anni successivi alla conclusione della guerra […] sia per la netta affermazione dell’impegno della politica di programmazione a “indirizzare i processi di sviluppo a favore delle regioni, dei settori, e dei gruppi sociali in ritardo”. Fui tra i più convinti sostenitori di quella che si prese a chiamare la Nota Aggiuntiva di La Malfa. Ma la sinistra di opposizione e i sindacati restarono condizionati da troppe diffidenze e riserve.

E del resto mancò per primo al suo compito lo stesso Partito socialista, che non riusciva culturalmente a cogliere il senso del tipo di riforma della società italiana cui si puntava. E che finì in sostanza per rimanere irretito dalle resistenze che le sue migliori aspirazioni (di recente ricordate dal libretto di Giorgio Ruffolo presso Donzelli) incontravano inevitabilmente nel partito moderato cattolico.

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Comunque, in quei 10-15 anni che vanno dal dopoguerra alla metà degli anni ’60 si gettarono fondamenta che resistettero a molte bufere e sono in parte ancora valide. E lo strumento e la ragione di esse che Soddu annota è l’incontro del riformismo laico (azionista, repubblicano e socialdemocratico) col riformismo cattolico raccolto intorno ai Saraceno, i Vanoni, i Giordani, i Mattei, gli uomini della Svimez: dietro i quali stava, d’altra parte, un tipo di cultura economica molto simile a quella dei riformismo laico. Quello cattolico aveva limitato peso politico ma era inserito in un partito di grande forza elettorale. Si unì a forze di scarso peso elettorale ma collocate in posizione strategica e perciò con forte influenza politica. Era una operazione tipicamente a-ideologica, come sempre la politica migliore. Due posizioni ben distinte si incontravano non per “contaminare” le loro visioni della vita, come tempo fa venne in mente a D’Alema, ma su progetti di riforma specifici e concreti. Questo punto, ben ripreso dal volume di cui si discorre, è stato largamente oscurato da buona parte della storiografia canonica della sinistra. Ma non è sicuramente esatto che in quella fase iniziale la vita democratica non abbia visto importanti riforme e grandi battaglie di rinnovamento. Se c’è un punto della nostra storia politica che esige una revisione è proprio questo. E la revisione non può non portare a concludere che è stata la collaborazione tra le minoranze laiche e cattoliche, con parziale apporto di minoranze socialiste, a determinare le poche grandi riforme di esito positivo da cui è stata segnata in cinquant’anni la crescita del paese.

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Dell’esito complessivamente negativo del “secondo” centro-sinistra, e poi della crisi della Repubblica in una nazione stretta tra alta inflazione e feroce terrorismo, si legge infine diffusamente nei capitoli finali del libro. Il “riformista deluso”, come Soddu lo chiama, tentò di utilizzare le ultime opportunità che si aprivano, e il dialogo con Enrico Berlinguer ed Aldo Moro ne fu l’espressione. Anche sul rapporto politico fra questi tre leader il volume rappresenta una reale novità. Forse non sottolinea a sufficienza come sul terreno dell’elaborazione, la posizione politica di La Malfa fosse parallela ad una novità: l’accentuazione del motivo della libertà del mercato rispetto ai motivi programmatori o dirigisti che furono invece più vivi nella fase di “delusione”. Di essi Galasso individuò fin dal ’62 la permanente validità nella prefazione a un libro di La Malfa ormai dimenticato e intitolato appunto Verso la politica di Piano. Ed essi tornano infatti oggi, proprio in base al tipo di cultura che ispirò sempre i democratici, nella condizione economica contemporanea, alla ricerca di regole e di governance che possono esser fornite solo da autorità pubbliche, di un livello o di un altro.
Scrisse LM nel marzo ’78: «la situazione è terribile ma la classe dirigente non se ne avvede». Non se ne avvedeva neppure una parte importante della dirigenza comunista che sordamente resisteva alla svolta politica di Berlinguer. E che non era rappresentata tanto da Armando Cossutta, quanto dalla destra filo-socialista del partito. In particolare, colpisce la vicenda dell’elezione presidenziale del ’78, raccontata nel libro sulla base dei documenti inediti dell’archivio dell’Istituto Gramsci. Colpisce che dopo l’assassinio di Moro la candidatura di La Malfa fosse sostenuta dalla sinistra cattolica, dalla sinistra laica e dall’ala berlingueriana del partito comunista; e fosse ostacolata invece dalla destra dorotea, dai socialisti di Craxi e da molti comunisti filo-socialisti. Vecchi antifascisti come Giorgio Amendola e Gian Carlo Pajetta non ebbero anch’essi esitazioni, come del resto un sindacalista come Lama, a sostenere l’antico democratico di cui conoscevano lo spirito. Ma un’altra parte della dirigenza comunista, guidata da Bufalini, non ebbe esitazioni ad affermare la priorità dei nomi suggeriti da Craxi in vista dei suoi disegni alternativi alla solidarietà nazionale. Si arrivò, com’è noto, ad una impasse; e il felice scioglimento della situazione fu approvato senza esitazioni da La Malfa, che ritirò la sua candidatura e aiutò Zaccagnini a spostare la Dc sul nome del nuovo Presidente della Repubblica, al quale Craxi preferiva uomini egregi, certamente, ma a lui assai più vicini di quel vecchio combattente d’animo indipendente che era Sandro Pertini.
Così, in conclusione, dietro tutte le battaglie che esprimevano i valori della democrazia riformatrice occidentale, l’ansia di uno sviluppo economico equilibrato, il senso dello Stato di ispirazione risorgimentale, le grandi scelte di politica internazionale che ancoravano l’Italia all’Europa e all’Occidente, stava un pensiero complesso che dagli anni ’20 al ’79 conosce svolgimenti ma non contraddizioni. Questo libro lo illustra in modo nuovo, che penso risulterà per molti sorprendente. Esso, anche, permette di rettificare il frequente stereotipo di un La Malfa essenzialmente “tattico”, notando che dietro i grandi e austeri temi della sua politica stava una visione come dire compassionate, appassionata e partecipe, della realtà italiana; dei suoi aspetti più deboli, più miseri o più toccanti. Era uno sguardo permanentemente rivolto alla gente minuta, all’infinita povera gente del nostro paese: il meridionale che tardava a trovar posto e non si integrava nella comunità nazionale, il disoccupato senza adeguata protezione, l’operaio produttivo sacrificato dalle logiche del parassitismo, l’uomo della strada che non trovava nella pubblica amministrazione un servizio corretto ed efficiente. Era questo, al fondo, che ispirava gli interventi politici riformatori. I deboli, tutti i deboli, non “le classi” della tradizione marxista, furono sempre il costante punto di riferimento di La Malfa. Si intende facilmente allora, chiudendo il volume, quanto la complessità di questo leader, politica e culturale non meno che umana, possa risultare di forte attualità nella situazione italiana turbinosa e tormentata che tutti registriamo, dove ciò che manca essenzialmente è la fibra culturale e morale di sostegno alla vita e alla politica di una nazione.
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