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Il San Carlo, Napoli e la “nazione napoletana”*
di Giuseppe Galasso
Il San Carlo nacque, come è noto, nel 1737, quale “teatro del re”, che era allora il giovanissimo Carlo di Borbone, solo tre anni prima, nel 1734, giunto a Napoli portatovi dalle armi spagnole, che così sottrassero il Regno di Napoli, con la Sicilia, agli Asburgo di Vienna e lo riportarono nell’orbita di Madrid1. Il nuovo teatro, al quale non a caso fu dato il nome del Re, e che venne realizzato, come pure è noto, a tempo di record2, doveva essere un simbolo della nuova condizione del Regno, che conseguì allora quell’autonomia dinastica di cui dal 1501 era stato privato, passando alle dipendenze di una «monarchia lontana»3. L’autonomia dinastica era in quell’Europa ancien régime il sinonimo e l’equivalente di ciò che per un paese è l’indipendenza politica e nazionale. Si comprende facilmente che il nuovo sovrano si affrettasse a ornare di un segno di distinzione appariscente e concreto – quale negli status symbol regali e nell’immaginario sociale e culturale del tempo poteva essere un grande teatro moderno di particolare pregio – il trono di recente conseguito, che non gli era ancora riconosciuto nelle relazioni internazionali, poiché questo riconoscimento dipendeva dall’esito del conflitto europeo in corso per la successione al trono di Polonia, cessato solo nel 1738.
A sollecitare l’idea di un nuovo teatro legato alle incipienti fortune dei Borboni di Napoli dové, peraltro, contribuire non poco il fatto che nella precedente epoca, in cui il Regno era appartenuto prima, dal 1503, a Madrid e poi, dal 1707, a Vienna, era già esistito a Napoli un teatro con una sua ufficiosa parvenza di teatro legato al regime vigente, ossia il Teatro di San Bartolommeo, non lontano dal Palazzo Reale, a valle dell’attuale Via Medina, dove ancora esiste la chiesa dedicata a quel Santo. Lo aveva, in verità, costruito e avviato l’ospedale degli Incurabili per procurarsi una fonte di entrate in quel luogo, nel quale già possedeva alcuni immobili e altri ne acquistò, che servirono allo stesso scopo, nel 1620. La speculazione non andò bene, e, invece di procurarsi nuovi redditi attraverso la gestione o l’affitto del teatro, fu l’Ospedale a dovere molto più spesso mantenere il San Bartolommeo. Storia frequente anche in altri tempi e in altri luoghi, ma non se ne deve dedurre che quel teatro non avesse successo. Al contrario, fu in esso che si svolse in gran parte la non oscura o modesta storia dei teatri napoletani, e, quindi, l’attività teatrale a Napoli. Né a quel teatro mancò il favore delle autorità. Il re Filippo IV concesse ad esso una sorta di monopolio sulle rappresentazioni teatrali a Napoli, per cui per quelle fatte in altri teatri si doveva pagare al San Bartolommeo (come poi fu per il San Carlo) un certo diritto. Gli ultimi viceré spagnoli avevano poi stabilito per esso un contributo annuo di 3.000 ducati4. E fu nel San Bartolommeo che anche Carlo di Borbone nei primi tre anni in cui fu a Napoli assistette a rappresentazioni teatrali e musicali, delle quali dava puntuale informazione ai suoi genitori, i sovrani di Spagna, Filippo V ed Elisabetta Farnese5.
Non che il teatro e la musica interessassero il giovane sovrano. Cet homme assurément n’aime pas la musique!, scrisse Charles de Brosse, l’autorevole magistrato francese che fu a Napoli in quegli anni, e precisamente nel 1738-1739, e, nel vivido ricordo che lasciò del suo soggiorno napoletano, lo vide durante uno spettacolo assiduamente chiacchierare per una metà del tempo e sonnecchiare per l’altra metà nel suo palco al centro di quelli di seconda fila6. Se lo spettacolo era lungo, egli ne soffriva e se ne lamentava. Quando a Napoli fu rappresentata La clemenza di Tito, musica di Antonio Caldara, testo di Metastasio, la lunghezza dell’opera disgustò talmente il Re da fargli dire che si trattava, piuttosto, de L’inclemenza di Tito, e da fare rifermento a questa inclemenza in altri casi di opere lunghe e, per lui, noiose7. Tuttavia, il teatro aveva l’importanza pubblica alla quale abbiamo accennato e Carlo non poteva che considerare la frequentazione del teatro come una parte essenziale e ineludibile del suo mestiere di re.
Il San Bartolommeo, però, non si prestava bene alla rappresentazione di opere che richiedessero scene più ampie del consueto, come sempre più spesso accadeva con il nuovo teatro musicale. Né il vecchio teatro appariva sufficiente a ospitare un pubblico ufficiale e cortigiano alquanto più largo di quello del periodo precedente, quando la direzione politica del Regno non era a Napoli (e non vi erano, ad esempio, tranne qualche caso particolare, ambasciate o rappresentanze diplomatiche di altri Stati); e si dovette esortare, perciò, la nobiltà a prendere posto anche in platea, come accadeva anche nei teatri di altri paesi, e non solo nei palchi, insufficienti a ospitare un pubblico crescente. Per di più, pur poco distante dal Palazzo Reale, il San Bartolommeo era situato in un dedalo di viuzze, non molto decorose, fra la strada Medina e quella della Marina, per cui non si rendeva possibile, se non era addirittura sconveniente, dispiegarvi il fasto regale nell’accedervi. Soprattutto, però, il vecchio teatro appariva in progressiva difficoltà e in netto declino nella sua gestione (che, non per nulla, non aveva procurato, come si è detto, agli Incurabili gli utili previsti e sperati). I viceré austriaci (1707-1734) avevano soppresso il finanziamento dei 3.000 ducati annui stabilito dai loro predecessori spagnoli per il San Bartolommeo, e ciò non aveva fatto, ovviamente che accrescerne le difficoltà8. E per tutte queste ragioni non erano in pochi, a Napoli, all’avvento di Carlo, a ritenere opportuno pensare alla costruzione di un altro, nuovo, e più conveniente e più soddisfacente teatro, che portasse il segno della nuova dinastia e riflettesse, per la sua parte, il nuovo status politico e diplomatico di Napoli e del Regno: il che si tradusse poi anche nella denominazione del teatro col nome stesso del Re. Opinioni che si fecero, ovviamente, sentire anche presso il Re, a corte e presso il governo.
Data la limitata autonomia politica di Carlo, del tutto controllato da Madrid e dal governo che i suoi genitori gli avevano posto accanto, si deve certamente pensare che a questo vaglio non sfuggisse neppure una decisione così significativa (e costosa) come quella di costruire un teatro nuovo di grande impegno e rappresentanza. E ciò appare necessario notare per mettere nella dovuta evidenza un punto di particolare importanza: ossia che il nuovo avvio della vita napoletana a partire dal 1734 non è una invenzione o una iniziativa personale del nuovo sovrano, e non è neppure semplicemente l’effetto del nuovo impulso che alle cose napoletane indubbiamente diede il nuovo governo ispirato da Madrid, ma in congrua misura è ugualmente l’effetto di esigenze e di spinte già – come abbiamo accennato – mature a Napoli quando Carlo vi arrivò, e fu perciò salutato con l’espressione di un gioioso sentimento di speranza e di nuova certezza di un diverso e ben migliore futuro9. Bisogna, insomma, considerare verosimile non solo che l’idea stessa di un nuovo teatro possa essere stata già viva negli ambienti napoletano alla venuta di Carlo, ma anche che, se non proprio per suggerimento, certo per la pressione, o anche per la pressione, degli ambienti napoletani portatori di quell’idea nel Re e nel governo maturò la storica decisione al riguardo.
Nella storia successiva del teatro l’interessamento del sovrano e del governo rimase costante, e portò a varii interventi di perfezionamento o di ampliamento delle strutture edilizie e di servizio del teatro, che poté così confermare sempre più la fama di eccellenza immediatamente conseguita e riconosciuta all’atto stesso della sua inaugurazione nel 1737. Allora «le téatre – aveva scritto il re Carlo ai suoi genitori – est reussi magnifique, et on entend la voix mieu que dans aucun autre»10. Bellezza sontuosa, dunque, della fabbrica come architettura e decoro, e sua acustica perfetta come macchina musicale11 (anche se la distribuzione delle voci sulla scena pose qualche problema, fino al punto, incredibile, che ad alcuni il San Carlo apparve sordo e bisognò porvi rimedio, peraltro con pieno successo, mediante alcuni accorgimenti di impostazione della scena e di messa in scena)12. E le due doti sarebbero state ampiamente confermate negli innumerevoli giudizi di visitatori e intenditori di tutta Europa, contribuendo ad alimentare la convinzione, spesso espressa e alquanto diffusa, che quello fosse il teatro più bello e funzionale del mondo musicale europeo. Una convinzione che non escluse riserve e note critiche. Ancora il de Brosses notava, ad esempio, che la sala del teatro era grandiosa («est plus grande que toute la salle de l’Opéra de Paris et large à proportion»), ma trovava pure che, data la grandezza («l’énorme grandeur») di questa sala, in una parte di essa «on ne voit guère, et dans l’autre on n’entend point du tout»13. Era, però, un’impressione non solo in parte sanata dai numerosi interventi operati, come abbiamo accennato, sul teatro nel corso del tempo (fra i quali spiccano quelli, molto importanti, sotto Gioacchino Murat fra il 1808 e il 1815), ma anche assai poco condivisa dalla generalità di coloro che frequentarono o visitarono il San Carlo.
In effetti, il teatro uscì rinnovato e ulteriormente perfezionato anche dal grande incendio che nel gennaio del 1816 lo devastò (malgrado anche allora si esprimessero dubbi sulla ricostruzione, operata da Antonio Niccolini, addirittura per la tenuta statica del tetto, pur ammettendosi subito che il teatro era diventato «più armonioso di tutti agli orecchi di tutti»)14; e il 10 ottobre 1854 vide anche installato un nuovo sipario, opera di Giuseppe Mancinelli, anch’esso universalmente elogiato, pur ancora fra qualche critica, dopo che nel 1816, per la ricostruzione dopo l’incendio, se ne era avuto un altro, rimasto in uso fino al 1844, «anno nel quale notevoli restauri furono compiuti, e fra questi il cambio di colore delle tappezzerie, che da azzurre divennero rosse»: cambio di colore già suggerito dal Niccolini all’atto della ricostruzione del 1816, quando «l’azzurro, colore ufficiale della Casa Borbone, fu voluto personalmente dal Re [Ferdinando], anche perché il teatro restasse il più possibile eguale a com’era prima che il fuoco lo distruggesse»15. A sua volta il sipario del 1854 fu dovuto allo stesso Niccolini per il disegno e, per la pittura, a Giuseppe Cammarano, autore anche della dipintura del soffitto, che ancora è in loco16. E proprio in occasione della realizzazione del sipario del Mancinelli a Napoli ci si compiaceva altamente di quel teatro – si scriveva – «che ha meritatamente celebrità europea», sicché «i Napoletani debbono esserne a buon diritto orgogliosi»: orgogliosi perché il San Carlo era il «Nestore de’ maggiori fra’ moderni, fondato dal fondatore della Augusta Dinastia qui regnante ossia Carlo di Borbone, sorto e risorto quasi per incanto con la medesima»,essendosi avute sotto i Borboni la fondazione nel 1737 e la ricostruzione nel 1816; e perché non vi era «nome illustre per Arti Belle [musica, canto, danza, architettura, arredamento etc.] che non sia associato al suo nome»17.
La storia, dunque, del San Carlo – concludeva l’anonimo descrittore del sipario del 1854 – «si rannoda a quella della nostra politica indipendenza e civile prosperità»18; e la sua, a considerarla non era una notazione di circostanza o un prevedibile moto di retorica napoletana. Rifletteva, infatti, la lunga evoluzione, allora, peraltro, ancora non terminata, del San Carlo, nato come “teatro del re” in “teatro nazionale” sia per la città di Napoli che per il Mezzogiorno. E teatro nazionale non solo e non tanto per la sua immagine e la sua funzione ufficiale che lo ponevano fra i luoghi di massima rappresentanza cerimoniale e, per così dire, biglietto da visita del sovrano e della città, da esibire nelle occasioni più solenni, nonché da vivere, in questa stessa immagine e funzione, quotidianamente e a livello più domestico. Teatro nazionale soprattutto perché esso divenne a poco a poco un elemento di grande rilievo nella definizione sia dell’identità della “nazione napoletana”, sia dell’identità cittadina di Napoli.
Sul piano dell’identità nazionale del Regno l’effetto fu quasi immediato. «Non vi è nazione che vanta un teatro come quello di Napoli», scriveva già alla fine del secolo XVIII il pur equilibrato e non enfatico Giustiniani19. Non era, però, solo un motivo di esaltazione campanilistica per una realizzazione che inorgogliva i Napoletani. Opinione generalmente diffusa fu pure che in quel teatro, nella sua costruzione e nel suo esercizio si esprimesse la nuova personalità della “nazione napoletana” quale era risultata per effetto della recuperata autonomia dinastica con l’avvento del re Carlo nel 1734. E forse tanto più significativo è che una tale opinione si ritrovi in scrittori minori, che certo riflettono più al vivo degli scrittori maggiori le convinzioni sedimentatesi nella cultura corrente. Così E. Taddei scriveva nel 1817 che «la costruzione del nuovo teatro fu nelle Due Sicilie come il segnale di nuova vita per la filosofia, per le lettere e per le arti, le quali, avendo tutti i principii motori, sembravano obbedire al potere delle medesime cagioni»20.
Ben più elaborato e illuminante è la ragione identitaria della “nazione” affermata e definita nel discorso complesso e, per molti aspetti, critico svolto da un intellettuale dello spessore di Giuseppe Maria Galanti. «Presso di noi – egli scriveva – il teatro è di tre generi, cioè di opera drammatica in musica, di opera buffa in musica, di opera comica. Nel primo genere il nostro teatro non ha l’eguale in Europa». E, come per non smentire il suo ricorrente spirito critico, aggiunge, però, subito che
che vi si rappresentano ordinariamente i be’ drammi di Metastasio, e talvolta quelli di altri autori, che non lo hanno potuto agguagliare né sorpassare [ma il monopolio metastasiano degli inizi del teatro produsse qualche inconveniente a cui si dové poi porre rimedio con un’alquanto maggiore varietà di scelte21]. I versi armoniosi del primo esercitano i gran talenti de’ nostri musici, con una varietà meravigliosa. Ma le rappresentazioni del nostro teatro drammatico non sono che spettacoli magnifici per gli occhi e per gli orecchi. Si gusta la musica, la danza, le decorazioni, senza che il cuore vi prenda molto interesse, dove che questo dovrebbe essere l’oggetto principale.

Notava pure che «la musica che si esegue negli intermezzi da un atto all’altro sembra oggi [cioè alla fine del secolo XVIII] divenuta la parte più importante dell’opera», mentre a suo parere si poteva «forse introdurre una novità da recar diletto e conseguenze vantaggiose, se le due disparatissime azioni della danza e del dramma facessero una certa unione, onde si riguardasse sempre il dramma come l’oggetto principale»22. Il fatto era che per lui «i Napoletani meno degli altri Italiani gustano la semplice tragedia», poiché «la loro passione è il dramma buffo, scritto in gran parte nel dialetto nazionale basso e ridicolo» e «contro a tutte le regole dell’arte», e ciò in quanto i «rari talenti» non vi si applicavano. Tuttavia, anche questi drammi buffi erano «sparsi di pezzi ammirabili per naturalezza di avvenimenti, per felicità di espressione, per facezie e per grazie», e venivano «messi in musica da’ più valenti maestri dell’arte», sicché poteva dirsi che «la musica è eccellente, la poesia detestabile»23.
Restava, dunque, che «la nazione ama il ridicolo, e non isdegna drammi licenziosi, privi di buon senso e di gusto, che per non aver di meglio si lasciano correre»; e perfino le commedie, che pure non erano «così sconce come i drammi buffi», apparivano «infette dallo stesso cattivo gusto», poiché «la nazione si compiace delle lepidezze buffonesche del volgo»24. Che erano pensieri non tanto individuali e peregrini del Galanti, se si pensa che Ferdinando IV, incuriosito del successo del Socrate immaginario, se lo volle far rappresentare a Corte, e lo trovò «indiscreto», per cui la rappresentazione di quel piccolo capolavoro fu per alcuni anni inibita25. Naturalmente, altro era la pruderie del Sovrano (che, pure, non era un modello di temperanza e di “discrezione”), altro la fine e acuta analisi del Galanti, che rispondeva a un suo giudizio complessivo, secondo il quale, «di tutte le nazioni, i nostri regnicoli si distinguono per la musica, o perché più degli altri hanno il genio animato ed armonico, o perché in Napoli vi sono fondazioni che ne forniscono un’ottima scuola»26.
Ricorrono, come si vede, nel giudizio un po’ acre del Galanti alcuni giudizi e pregiudizi che il tempo avrebbe consolidato sul “genio musicale” della “nazione”. Un genere, tuttavia, di giudizi e pregiudizi che sono lontani dal luogo comune del canto congeniale al napoletano, sublimato fino al ridicolo nel “napoletano che, se non canta, muore”. In Galanti agiva una preoccupazione di caratterizzazione “nazionale” che voleva far tesoro di una esperienza e di una tradizione tanto per prenderne piena coscienza su un piano critico e autocritico quanto per esaltare non meno che per recriminare ciò per cui gli sembrava che quel “genio” si caratterizzasse. In seguito, sia dall’interno che all’esterno della “nazione” i suoi motivi si ritrovano o ripresi o svolti o integrati con altri, ma sempre formando la solida intelaiatura di quella sua precoce presa di coscienza “nazionale”.
Per la città il valore fondante sul piano identitario del nuovo teatro non mancò affatto, ma seguì sempre sentieri tortuosi e multivalenti. Per l’aristocrazia e per la borghesia intellettuale o più agiata il teatro rappresentò una nuova occasione di socializzazione, resa più prestigiosa e perseguita per il carattere regio del San Carlo e per il notorio interesse del sovrano e del governo alle sue fortune.
Nei primi decennii era uso corrente non solo a Napoli di considerare «il teatro di musica non solo come sede d’arte, ma anche quale scelto luogo di conversazione e di ristoro» lo notò subito l’inglese Sharp, che fu a Napoli nel 1765 e scrisse che «gli Italiani andavano a teatro per conversare e non per ascoltare la musica con serietà e non la smettevano neppure quando si cantava l’aria favorita o per la presenza del Re»: abitudini che «influirono sullo scadimento dell’opera in Italia», finché alla fine di quel secolo la reazione di uomini di cultura o di fine gusto e di musicisti di qualità «portò al risanamento del gusto», al quale contribuì l’attività di Gluck27.
Ad altri livelli sociali le cose ebbero uno svolgimento più complesso. Nel corso del secolo XIX il melodramma penetrò molto nella cultura corrente della medio-piccola e piccola borghesia, e anche di varie frange popolari, soprattutto per la diffusione delle arie e per la fama dei cantanti più celebri, e divenne un segno di comunicazione sociale e di socializzazione da non trascurare nelle sue manifestazioni e nel suo significato. Quanto questo si traducesse in frequentazione del teatro, in conoscenza diretta della musica produttrice delle arie, in sensibilità e cultura musicale meno orecchiata è difficile dire. Si può solo presumere che col passaggio alla produzione e diffusione su disco e, poi, con mezzi di comunicazione come la radio, il cinema, infine la televisione, una tale diretta conoscenza abbia potuto registrare un netto incremento, così come, per varii aspetti dello sviluppo sociale e della politica sociale nel secolo XX, un parallelo incremento abbia potuto registrare la frequentazione del teatro musicale e di altre forme di esecuzione di musica “colta”.
A livello più generalmente popolare, ma non solo a tale livello, anzi molto diffusamente anche a livelli ben più elevati, il San Carlo figurò, nella cultura corrente, nella vita sociale, nell’uso linguistico, per altri motivi. Il teatro era, infatti, uno spettacolo anche al di fuori del teatro stesso. «Allorquando, nelle sere di gala, il re o la reale famiglia vi si trasferisce, offre imponente spettacolo di splendore e di lusso»: l’osservazione di Enrico Cossovich dà la viva idea della partecipazione e della curiosità con la quale si assisteva all’arrivo e all’ingresso nel teatro dei lussuosi equipaggi delle carrozze e degli spettatori più famosi o che più sfoggiavano lusso e lustro. In progresso di tempo si sarebbe giunti alle manifestazioni analoghe accese dal culto della personalità del divismo ben al di là della sfera musicale e aristocratica. Divenne, inoltre, ben presto familiare l’immagine dello “scrivano pubblico” che si ritrovava sotto i portici del teatro, «là dove – ricordava il Dalbono – la spessezza del pilastro offe riparo al vento e alla pioggia». Qui, finché vi era luce, «pochi uomini di sparuto aspetto e di abiti gretti e cenciosi, che siedono preso un tavolo di povera apparenza, tenendo innanzi qualche foglio di carta, uno sporco calamaio di terra ed una selce che frena le volubili carte, se il vento avvien che le sollevi», prestavano i loro servigi ai molti che non sapevano leggere e scrivere e avevano bisogno di compilare qualche lettera, qualche documento o altro di scritto (e talora lo scrivano fungeva anche da traduttore, soprattutto dal o in francese). Una figura popolarissima, magra di condizione e, ancor più, di reddito, che aveva una sua presenza significativa nel linguaggio e nella comunicazione sociale soprattutto, ma non solo dei ceti più modesti28. Può, anzi, dirsi che, nell’immaginario specialmente popolare, il San Carlo facesse, in certo senso, da pendant con la chiesa di San Francesco di Paola, eretta per voto di re Ferdinando in ringraziamento per la sua restaurazione sul trono dopo la caduta del Murat. Si diceva, infatti, “finire sui gradini di San Francesco di Paola” per indicare, compiangere, deprecare o disprezzare quelli che per indigenza e per qualsiasi motivo dormivano sotto i portici di quella chiesa, “barboni” ante litteram, emarginati comunque del tempo o testimoni di infelici rovesci di fortuna. Così il teatro corrispondeva all’altro maggiore luogo borbonico della città per indicare condizioni sociali che avevano un indubbio rilievo nella struttura e nell’esperienza sociale napoletana.
Quanto poi facesse presa l’idea di un teatro regio e “nazionale” nel destare reazioni tipicamente napoletane si vede dalla fortuna che poco dopo la fondazione del San Carlo, dal 1740, ebbe un teatrino popolare non lontano, situato nel Largo del Castello angioino, al quale venne dato con evidente intento satirico nei confronti del vicino teatro regio, il nome di San Carlino, e che era un teatro di spettacoli triviali e istrionici e di parodie delle solenni e ispirate tragedie e opere che si recitavano nei teatri maggiori. Soppresso nel 1759 questo primo San Carlino, ne sorse nei suoi pressi un secondo, che durò dal 1770 al 1884, ed ebbe ancora maggiore successo. Nel San Carlino – notava il Cossovich – «si rappresenta la commedia popolare o “nazionale” che vogliasi dire, cioè le scene ed i fatti del basso popolo, con tutta verità, per lo più nel dialetto, e con attori eccellenti nelle rispettive parti»29.
Il successo di questo secondo San Carlino fu notevolissimo. Esso, scriveva ancora il Cossovich, era piccola cosa rispetto al San Carlo, del quale mimava il nome, ma erano «pure entrambi celebrità, né avvi straniero visitante Napoli, cui dopo San Carlo non desideri di vedere il nostro piccolo teatro popolare», che era ormai «l’unico nel suo genere»30. Una caratteristica e una celebrità che in certo qual modo integravano – su un più basso registro – il valore identitario che per la città aveva il grande teatro regio, con una duplicità di dislocazione e di caratterizzazione che era anch’essa tipicamente napoletana e che i nomi dei due teatri bene esprimevano. Non si trattava, del resto, di duplicità soltanto sul piano immaginario e funzionale. Altrettanto duplice, e altrettanto tipicamente napoletana, era, infatti, l’appartenenza sociale del pubblico che frequentava il San Carlino, «nel quale tanto abbiamo riso nella nostra fanciullezza e che soleva frequentare assiduamente, per il gran gusto che prendeva a quelle commedie e a quegli attori popolari, e per la protezione che largiva alla consorte di uno di quegli attori, il primo re d’Italia Vittorio Emanuele II, quando si tratteneva in Napoli»31. E, del resto, la memoria del San Carlino restò viva anche dopo definitiva chiusura di quel luogo deputato della napoletanità in qualche espressione idiomatica o luogo comune del dialetto cittadino, mentre nella seconda metà del secolo XX ebbe vita anche un San Carluccio, a ulteriore riprova della suggestione memore e attiva del maggiore teatro napoletano.
L’identificazione cittadina con il San Carlo fu, dunque, essenzialmente condizionata entro i limiti sociali e culturali che abbiamo cercato di indicare. Nei grandi momenti di sconvolgimento cittadino del 1799, del 1820, del 1848 il ruolo del San Carlo non assunse nessun significato particolare. Pensavano ad esso gli autori dell’atroce canto sanfedista di macabra derisione della de Fonseca Pimentel, che prima «cantava ‘ncopp’o triato» e poi Zabballava ‘mmiez’o Mercato»? Neppure il risvolto patriottico del melodramma risorgimentale sembra, per la verità, aver avuto a Napoli risvolti equivalenti a quelli di altre parti d’Italia, anche se fu tutt’altro che assente, e anche se una delle conseguenze del 1848 fu un netto attutimento dell’attività del teatro negli anni successivi anche dal punto di vista della sua attività musicale. Né si può dire che, dopo l’unificazione italiana, dal punto di vista dell’identità cittadina le cose mutassero gran che. La funzione musicale del teatro era già da un po’ passata da quella di attiva produzione committente a quella, di molto prevalente, e spesso esclusiva, di rappresentazione o riproduzione di musica prodotta altrove, anche se alla musica operistica e al balletto, a lungo dominanti in misura schiacciante, si affiancò sempre più un’attività concertistica strumentale, spesso di elevato tono e qualità, come del resto richiedeva la progredente cultura musicale della città, che alimentava e alimenta associazioni, circoli e iniziative musicali di indubbio rilievo. Né, forse, si deve trascurare di notare che, dal punto di vista dell’identità cittadina, e proprio sul terreno musicale, la cifra più universalmente diffusa in ogni ambiente sociale, a Napoli e fuori di Napoli, è stata quella della canzone napoletana, in tutti i risvolti più o meno positivi della sua, anch’essa cospicua, vicenda.
L’attività musicale del San Carlo, nelle varie fasi, di maggiore o minore importanza e qualità attraversate dal 1860 in poi è, tuttavia, valsa a mantenere al teatro, a più riprese, una meritata fama internazionale, che ha potuto superare con ricorrente, anche se discontinuo, successo le gravi traversie e i danni procurati dalla seconda guerra mondiale. In alcuni anni e per determinate rappresentazioni ed esecuzioni il San Carlo è stato, anzi, più di una volta alla ribalta europea, se non mondiale, dell’attenzione di musicologi e musicofili, anche se non è più riuscito a riprendere quel posto di primissima fila che aveva tenuto per quasi un secolo dalla sua fondazione.
In tutto ciò, inoltre, non si può mancare di osservare che la gestione del teatro, passata dopo il 1860 per lo più nelle mani delle autorità locali, ha risentito troppo spesso negativamente di tale nuova condizione per i suoi effetti all’interno del teatro (Verdi se ne lamentava in modo memorabile già nel 1872-1873, e per ciò si allontanò da Napoli, mentre addirittura una parte importante del teatro, qual era il suo ridotto, fu ottenuto da un pur importante e qualificato circolo cittadino, il Circolo dell’Unione, come sua sede incondizionata nell’uso e nella durata, con non piccolo danno di perdita di spazio del San Carlo), e per i suoi effetti, altresì, all’esterno, facendo spesso del controllo del teatro un tema delle lotte di potere cittadine. Tuttavia, il rapporto con la città si è andato ugualmente piuttosto rafforzando, e non solo per la sempre più frequente rivendicazione delle glorie del San Carlo come punto fra quelli primari dello sciovinismo napoletano, ma anche per un sempre più frequente uso del teatro ad altri scopi che quelli musicali (o anche del teatro di prosa, come accadde nella famosa Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, rappresentatavi nel 1944, o per iniziative effettivamente e fortemente culturali, come congressi e dibattiti scientifici).
Da notare è, in particolare, da questo ultimo punto di vista, la funzione che il San Carlo sempre più spesso venne assumendo come teatro di grandi eventi civili e politici. Ci limitiamo qui a ricordare due casi che ci sembrano esemplari al riguardo fra i molti possibili. Ci riferiamo al congresso fascista che si tenne a Napoli nell’ottobre 1922, alla vigilia della Marcia su Roma, e che, già di per se stesso, ebbe una grande eco nell’opinione pubblica nazionale (vi si affacciò anche il Croce «nel palco assegnato ai senatori, per udire il discorso del Mussolini», il 24 ottobre)32; e al congresso della Democrazia Cristiana nel 1954, nel corso del quale Alcide De Gasperi (che si sarebbe spento di lì a poco) pronunciò, nel passare la guida del partito a una più giovane generazione del suo partito, un discorso famoso, che fu pure una sorta di suo testamento politico (e lo si definì, infatti, significativamente, benché del tutto impropriamente, “discorso della Corona”)33.
L’abuso della frequenza dell’uso del San Carlo a simili fini determinò poi una netta esclusione di tale possibilità, che nuoceva non solo al decoro dell’istituto, bensì anche al suo stato materiale per i danni che in tali occasioni vi si apportavano, ma non si è altrettanto impedito che manifestazioni di vario genere del tutto estranee ai fini istituzionali del teatro vi si tenessero, e magari per nobili fini culturali o filantropici. In corrispettivo – si potrebbe pensare – si è avuta una presenza, un’attività del San Carlo, come suol dirsi, sul territorio, con “trasferte” e recite in tutta la Campania. Ma non sono in pochi a pensare che questo nuovo tipo di presenza del San Carlo, per lodevole e positivo che possa essere giudicato, esca anch’esso largamente fuori della sua “naturale” e più congeniale sfera di azione, senza che possa in alcun modo dirsi che si giova così a una sua maggiore vitalità sul piano essenziale della sua funzione e dei suoi conseguimenti artistici. Funzione e conseguimenti resi già più difficili dalle dimensioni che nella seconda metà del secolo XX ha preso il problema della tenuta finanziaria dei teatri lirici, per cui in Italia si pensa dai più che il paese non sia in grado di mantenere in vita attiva e produttiva tutti i suoi sette o otto “storici” teatri lirici, e molti ritengono che si dovrebbero concentrare gli sforzi nel sostenere la Scala e (per ragioni anche di rappresentanza politico-diplomatica) l’Opera di Roma, con un oggettivo declassamento del San Carlo nella seconda fila della politica nazionale per i beni e le attività culturali.
È, dunque, con un grave bagaglio di problemi di vario ordine, ma tutti piuttosto rilevanti che il San Carlo è entrato nel XXI secolo. Per un teatro che, per quanto fra ricorrenti difficoltà, ha superato i due secoli e mezzo di vita con una quasi ininterrotta continuità di presenza e di iniziative nella vita cittadina, meridionale e italiana e nella vita musicale italiana ed europea un tale, sia pure indubbio dato di fatto, può non riuscire in alcun modo preclusivo. È solo, però, apprezzando al giusto punto la gravità dei problemi ai quali nella nuova congiuntura storica ci si trova di fronte, è solo misurando in tutta la loro portata le relative sfide che a Napoli e in Italia si può sperare di superarle, salvaguardando e continuando una tradizione le cui luci brillano molto di più delle ombre, e che rappresenta, se mai ve ne fu altro, un capitale irrinunciabile del patrimonio storico-culturale, innanzitutto per la musica, ma non solo per essa, nel quadro italiano e in quello universale.




NOTE
* Questo saggio e quello che segue di Emma Giammattei sono tratti dal catalogo (Alla scoperta di un protagonista. Il Teatro di San Carlo di Napoli, a cura di Giuseppe Galasso e Alessandro Nicosia, Edizione Arte,m) della mostra tenutasi con questo titolo, in Palazzo Reale e nel Museo Storico del Teatro di San Carlo, del 2 luglio, che resterà aperta fino al 2 novembre.^
1 Per le vicende storiche generali in cui quella del San Carlo si inquadra cfr. G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, Torino, Utet, 2006-2007, 5 voll., e in particolare vol. IV e vol. V.^
2 In meno di nove mesi, come si sa, su disegno di Giovanni Antonio Medrano e a cura del discusso imprenditore napoletano Angelo Carasale, che godeva allora il favore del Re e del governo, sicché, decisane la costruzione ai primi del 1737, il teatro poté essere pronto per l’inaugurazione nella ricorrenza dell’onomastico del Re il 4 novembre di quell’anno. Per gli aspetti spaziali della costruzione del teatro si veda, fra i molti, G. Cantone, Il teatro del re: dalla corte alla città, in Il teatro del re. Il San Carlo da Napoli all’Europa, a cura di G. Cantone e F.C. Geco, Napoli, ESI, 1987, pp. 45-79.^
3 «Provincia di una monarchia lontana» è la definizione data da Giuseppe Maria Galanti al Regno nel tempo della sua appartenenza alla Corona di Spagna, prima, e a Vienna, poi; e l’espressione esprime icasticamente il sentimento col quale, tornato il Regno all’autonomia dinastica, la cultura napoletana prese a considerare il periodo del cosiddetto “Viceregno”, ossia dal 1503 al 1734. Cfr. G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, cit., vol. II, pp. 176-178.^
4 Per il San Bartolommeo vale sempre il rinvio alle fondamentali ricerche di B. Croce, I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1992: un lavoro per la cui genesi e il cui fondamento filologico si veda ivi, pp. 357 sgg., la Nota del Curatore.^
5 Si veda Carlo di Borbone, Lettere ai Sovrani di Spagna, a cura di I. Ascione, Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Direzione Generale per gli Archivi, 2002, 3 voll.^
6 Croce, I teatri etc., cit., pp. 181-182.^
7 Carlo di B., Lettere ai Sovrani etc., vol. II, 1735-1739, p.363 n. 629, per «l’inclemenza di Tito»; e p. 379 e n. 657, per la lettera del Re del 20 gennaio 1739, circa La Semiramide riconosciuta del Porpora, che il Re aveva sentito dire che era «assez longe» e temeva che fosse «comme “L’inclemençe de Tito”».^
8 Croce, I teatri etc., cit., pp. 181-183.^
9 Galasso, Storia del regno di Napoli, cit., vol. III, pp. 1033.^
10 Carlo, Lettere ai Sovrani etc., cit., vol. II, 29 ottobre 1737, p. 249.^
11 Si può ricordare, a questo riguardo, la discussione che vi fu all’atto della costruzione fra coloro che volevano tutte le parti del teatro «in pietra, compresi i palchetti e le opere di palcoscenico, adducendo che la fabbrica sarebbe stata più resistente e durevole e avrebbe presentato più imponente aspetto», e il Medrano, tenace sostenitore del legno, proprio per le qualità acustiche del legno, tanto che gli antichi che costruivano i loro teatri in pietra, vi collocavano poi dei vasi di bronzo per amplificare le voci degli attori, «cosa non occorrente nei teatri fatti di legno». Così G. Pannain, La musica a Napoli dal '500 a tutto il '700, in Storia di Napoli, dir. E. Pontieri, ESI, vol. XIII, Napoli 1971, p. 757.^
12 Si veda il saggio di G. Tomasi Lanza in questo stesso catalogo.^
13 Cit. in Carlo di B., Lettere ai Sovrani etc., cit., vol. II, p. 452 n.797.^
14 Cfr. la biografia del Niccolini a opera di Antonio Benci, in L. Caruso, L’inizio di una stagione romantica a Napoli, in Il teatro del re. Il San Carlo etc., cit., p. 102.^
15 Cfr. F. Canessa, premessa alla ristampa anastatica della Descrizione del sipario del Real Teatro di San Carlo dipinto da Giuseppe Mancinelli, Roma, Benincasa, 1988, p. n.n.^
16 Canessa, l. cit., che nota pure come per i sipari precedenti al 1816 non si abbiano notizie.^
17 Descrizione etc., cit., p. 4.^
18 Ibidem.^
19 Cfr. L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, 12 voll., vol. VI, Napoli 1803, p. 306.^
20 Cit. in G. Pannain, La musica a Napoli dal ’500 a tutto il ’700, in Storia di Napoli, dir. E. Pontieri, 10 voll., vol. VIII, Napoli, ESI, 1971, p. 758.^
21 Anche per le scelte musicali dei primi decennii rinviamo al saggio di G. Tomasi Lanza in questo catalogo.^
22 Cfr. G.M. Galanti, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a cura di F. Assante e D. Demarco, Napoli, ESI, 1969, 2 voll., vol. I, pp.266-267.^
23 Ibidem.^
24 Ibidem.^
25 Croce, I teatri etc., cit., pp. 268-269.^
26 Galanti, op. cit., l. cit.^
27 Pannain, La musica etc., cit., p. 765.^
28 Così E. Cossovich, I teatri, in Usi e costumi di Napoli e contorni, a cura di F. de Bourcard, Milano, Longanesi,1977, p. 358.^
29 Ibidem.^
30 Ibidem.^
31 Crocw, I teatri etc., cit., p. 274.^
32 Cfr. B. Croce, Taccuini di lavoro, voll. 6, L’Arte Tipografica, [vol. II] 1917-1926, Napoli 1987, p. 292: fu il discorso in cui Mussolini annunciò che partiva da Napoli, dove pioveva, per raggiungere destinazioni migliori in quel momento.^
33 Cfr. P. Craveri, De Gasperi, Alcide, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 36, Roma 1988, pp. 111-112; e IDEM, De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 634-637.^
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