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Linee di ricerca storica su alcuni aspetti della Controriforma nella Campania del ‘500
di Claudia Pingaro
Le linee di ricerca seguite da Alfonso Tortora nel libro La Storia e la Chiesa (secoli XVI-XVII)1, forniscono all’attuale panorama degli studi storici una costante e vigile attenzione ai contesti di riferimento, un impegno scientifico improntato al rigore storiografico e metodologico relativamente ai comportamenti “ereticali” e alla problematizzazione delle relative fonti mediante la ricostruzione di vicende su cui, per lungo tempo, era calato il velo dei silenzi della storia.
L’eterogeneità dei saggi che costituiscono l’oggetto della ricerca sollecita prontamente nel lettore la domanda riguardo al perché della varietà di temi e letture critiche nell’impianto strutturale del testo: da un lato il difficile lavoro di verifica sulle presenze valdesi nel Mezzogiorno d’Italia tra XVI e XVII secolo, dall’altro il tentativo di ricostruire la rete del dissenso religioso a Salerno nel corso del ’500 e, infine, la cronaca dell’eruzione del Vesuvio del 1631 dell’abate lucchese Giulio Cesare Braccini.
La complessità e la molteplicità degli elementi, lo spazio talora ambiguo delle diversità religiose contaminate dai diffusi nicodemismi, le strade intricate attraverso cui hanno viaggiato su binari paralleli la crisi della coscienza religiosa del ’500 e la riconquista delle posizioni cattoliche ispirate ai dettami tridentini, percorrono l’idea tematica che fa da sfondo al testo in esame e contribuisce a fornire la chiave di lettura che è quella della marginalità, della subalternità rispetto ai criteri dominanti e maggiormente perseguiti dalla “storia” e dalla “Chiesa”.
Il tema relativo alle presenze valdesi nel Mezzogiorno d’Italia tra Basso Medioevo e prima Età Moderna, si è posto all’attenzione della storiografia tra prima e seconda metà del XX secolo, entro studi medievistici e cristianistici, stimolando un proficuo terreno di ricerca.
La storiografia ha solo recentemente preso coscienza dei limiti e della scarsità di studi sulle vicende umane e di fede delle comunità valdesi nel Sud d’Italia.
Due incontri di studio, difatti, si sono tenuti tra la fine degli anni ’80 e ’90 del ’900 ad Aix-en-Provence. Gabriel Audisio durante il «Colloque international» del 1988 nelle proprie riflessioni sulla «fine dei valdesi medievali» accennava ai valdesi di Calabria e di Puglia chiamando in causa, ancora in modo superficiale e lontano da studi e ricerche approfondite, il ruolo e la vicenda di un insediamento valdese la cui storia era completamente ignota rispetto a quella dei valdesi europei: il Mezzogiorno d’Italia.
Dieci anni più tardi, nel 1998, un nuovo «Colloque international» era dedicato a «Les Vaudois». In quest’occasione, aprendo i lavori del nuovo confronto scientifico, Audisio puntualizzò che necessitava «faire le point des recherches sur l’histoire des vaudois des origines au XVI siècle et, si possibile, dégager des pistes pour de future enquêtes»2 e, seguendo un percorso eminentemente scientifico, seguire «l’avancement des recherches pendant la décennie écoulée [...] en même temps que d’ouvrir, si possibile, encore quelques perspectives»3.
Finanche il secondo incontro provenzale non oltrepassava «sul piano della conoscenza scientifica, il limite dei fatti noti relativi alla storia dei valdesi»4.
Il Mezzogiorno, dunque, restava ancora dal campo della ricerca specialistica sui valdesi medievali e riformati. Lo spazio sfuggente, l’evanescenza di fonti specifiche non costituisce, ad ogni modo, la cagione sostanziale del mancato studio sui valdesi nei territori dell’Italia meridionale. La carenza di studi intorno ad un tema pur così intrigante all’interno di un contesto storico-politico quale il Mezzogiorno d’Italia tra XV e XVII secolo, conviene rintracciarlo, semmai, nell’atteggiamento culturale della storiografia persuasa ad operare una sorta escluso di rimozione durevole della storia valdese dal tessuto sociale dell’Italia meridionale.
Tuttavia, procediamo con ordine, prendendo le mosse dagli esordi della storiografia sul valdismo.
I primi storici ufficiali, Jean Paul Perrin e Pietro Gillio, dietro il controllo esercitato dai Sinodi delle Chiese riformate, cercarono di chiarire le varie traiettorie e l’effettiva identità religiosa dei valdesi, ponendo attenzione a quelle tendenze nicodemite che ne avevano contaminato l’originale essenza: il nicodemismo dei vari gruppi valdesi disseminati in Europa si prospettava come un difetto d’origine interpretato in chiave deviante rispetto al corso naturale di vita cristiana.
I pastori di lezione calvinista fornirono ai due storici precise direttive circa il metodo e i contenuti da osservare nella stesura dei lavori: a) individuare un modello confessionale consono alle prerogative dogmatiche dei committenti delle opere (i pastori stessi!); b) porre rimedio all’espansione e alla frammentarietà del valdismo, riconducendo il nucleo del discorso alla centralità di quello alpino ovvero delle aree contermini, laddove sarebbe stato facile esercitare un reale controllo sulle pratiche di vita religiosa.
Tortora riporta nel suo libro i momenti salienti della produzione storiografica legata ai nomi di Perrin e di Gillio: nel biennio 1618-1619 veniva data alle stampe - dopo aver ottenuto il licet da parte di esperti lettori incaricati dai Sinodi protestanti – l’Histoire des Vaudois del Perrin.
Le attese dei pastori calvinisti non furono appieno soddisfatte poiché gli alvei disparati di storia valdese apparvero troppo eterogenei rispetto alla centralità del valdismo delle vallate alpine. Il Perrin riportava, inoltre, resoconti di colonie valdesi presenti nel Mezzogiorno d’Italia: su tale questione incise, senza alcun dubbio, un radicato pregiudizio storico in base al quale gli italici «non erano considerati molto affidabili dai riformatori d’oltralpe»5.
Per questa serie di motivi durante il Sinodo delle Valli di Pramollo del 1620 i pastori calvinisti decisero di affidare al Gillio una nuova opera avente ad oggetto la storia dei valdesi. Dall’autore, valdese riformato, si attendeva chiarezza ed onestà professionale. Nel 1644 a Ginevra veniva pertanto pubblicata, ad opera del Gillio, una Histoire ecclésiastique des Eglises Réformées recueillies en quelques vallées de Piedmont et circonvoisines, autrefois appelée Vaudoises in cui un posto, ma non ancora un ruolo da protagonista, ottenevano i gruppi valdesi presenti nel Mezzogiorno d’Italia. Qui essi trovarono «luoghi di raccolta e di rifugio, angoli negli angoli di una storia nella storia»6.
I Sinodi delle Chiese riformate, dunque, fin dai primi anni del XVII secolo, tentarono la ricostruzione storica delle colonie valdesi medievali, nel rispetto di una convergente centralità alpina e di un indirizzo univoco di direzione religiosa «voluta dai ministri indirizzati da Ginevra»7.
I recenti studi di Tortora8 hanno fornito nuovi spunti di riflessione presumibilmente fondati per ricostruire la presenza materiale dei valdesi in alcune zone dell’Italia meridionale tra XV e XVII secolo.
Particolarmente interessante si è rivelato lo spoglio della documentazione rinvenuta in alcuni Archivi meridionali. Colmate imprecisioni e lacune della storiografia sul tema, l’indagine è stata condotta sulla fonte notarile dalla quale è affiorata una realtà ereticale indubbiamente mascherata da comportamenti nicodemiti.
L’interesse dell’Autore per questo tipo di indagine ha consentito di realizzare una nuova e più aggiornata mappa storica delle comunità valdesi nel Mezzogiorno tra Medioevo ed Età Moderna. La difficoltà della ricerca, a ben vedere, risiede non tanto nel reperimento delle fonti d’Archivio, piuttosto nella mancanza di un rigoroso modello di riferimento per individuare le presenze valdesi all’interno del composito e non lineare contesto storico-geografico meridionale. L’Autore, inoltre, ha tentato di stabilire il nesso intercorrente, il legame tra queste comunità meridionali con i rispettivi luoghi di provenienza e, principalmente, con la cultura religiosa di appartenenza. Relativamente a tali considerazioni Tortora si è interrogato sui caratteri del credo religioso dei valdesi insediatisi nel Sud della Penisola e sulle diversificazioni sostanziali rispetto alle originarie intenzioni di Valdesio di Lione9. L’Autore respinge la tentazione di trovare ad ogni costo verifiche immediate delle presenze valdesi nell’area di interesse. Se da un lato, infatti, l’esame di blocchi tematici relativi a fonti e luoghi non deve far trascurare l’aspetto prioritario di un sistema «policentrico» del valdismo mediterraneo inseritosi entro modelli territoriali storicamente esistenti, dall’altro è pur necessario sottolineare la duplice veste del valdismo, i due alvei in cui scorre la propria rappresentazione storica, quella medievale e quella riformata di lezione calvinista. In questo secondo alveo la tensione cosmopolita dei gruppi valdesi si innesta in «un modello di ricostruzione storica il più possibile normalizzato, stabilizzato, anche se presidiato dall’autorità dei grandi, nuovi archetipi del calvinismo: i pastori riformati»10.
Se nella Penisola italiana modi e tempi di penetrazione dei comportamenti devianti dalla morale cattolica si sono espressi in ambienti disparati, laici ed ecclesiastici, camuffati molto spesso da comportamenti nicodemitici, non è infondato sostenere che, fino ad ora, la storiografia abbia fornito un’incompleta ed insoddisfacente conoscenza del fenomeno ereticale. Oltretutto, il prevalente ricorso alla fonte inquisitoriale ha diretto il campo della ricerca sui comportamenti ereticali, determinando un tangibile disinteresse in merito ai rapporti tra valdismo e movimento riformatore italiano.
Tortora ha eseguito una prima ed accurata analisi sulla documentazione notarile salernitana relativa alla seconda metà del XVI secolo. Lo studio di tale fonte ha consentito di «arguire atteggiamenti a volte difensivi e cioè di valore nicodemitico […] sia la fede religiosa di alcuni gruppi sociali e, quindi, di stabilire punti di partenza per l’approccio relativo a questioni legate alla dissidenza religiosa e alla sua distribuzione sul territorio»11.
In primis l’Autore ha valutato la risposta e l’atteggiamento della città di Salerno in seguito alle disposizioni tridentine, così da misurarne il grado di uniformità al nuovo indirizzo intrapreso dalla Chiesa cattolica. Tortora sostiene che indubbiamente Salerno potrebbe esser definita “città della Controriforma”12, stretta intorno ai propri Vescovi, determinata a riconoscere costantemente la centralità della Curia romana. A conferma di ciò è opportuno chiarire i termini della politica ecclesiastica attuata tra XVI e XVIII secolo dai Vescovi succedutisi alla guida della diocesi salernitana in materia di teologia e di cura d’anime.
Figure quali il Seripando, il Cervantes, Marco Antonio e Marsilio Colonna, il Bolognini, si contraddistinsero per la severa e puntuale esecuzione degli “strumenti” approntati dal tridentino: sinodi e visite apostoliche. L’indirizzo vescovile intrapreso nella seconda metà del XVI secolo fu ripercorso da tutti i presuli fino ai principi del XVIII secolo, dal De Guevara al Sanseverino, dal De Trejo de Paniagua a Giulio e Fabrizio Savelli, al Torres, al Carafa, all’Alvarez, al Passarelli, a Marco de Ostos, al Poerio.
Lo scrupoloso impegno riformatore, caratterizzato dalla dinamica espansiva e decentrata della Curia romana, si concretizzò, tra l’altro, a Salerno, con l’istituzione, nel 1590, di un collegio gesuita, organismo paladino nella formazione della morale cattolica. La città, mediante l’opera di nuova evangelizzazione perseguita dai suoi Vescovi, fu, dunque, pervasa dall’esigenza - da tempo avvertita dalla cristianità occidentale - di una renovatio ecclesiae in grado di restaurare forme di vita evangeliche autenticamente ispirate ai principi del cristianesimo delle origini. A fronte dell’assunzione di responsabilità della Chiesa salernitana in tema di ortodossia cattolica e controllo della coscienza religiosa collettiva, l’Autore sostiene che in talune frange della società cittadina si insinuò - così come emerge dallo studio della documentazione archivistica - la trama del dissenso religioso di matrice valdese.
La questione relativa al rapporto tra valdesi e società salernitana - o meglio ancora tra valdesi e tessuto socio-economico del Mezzogiorno - pone in luce un problema cruciale che non è più soltanto quello del dissenso religioso, dell’eresia, delle sottili distinzioni tra presunti o reali comportamenti nicodemitici, legami spirituali e dogmi tra valdismo originario e valdismo di matrice elvetico-strasburghese. Gli aspetti meno accertati ed assodati della vicenda sono, a ben vedere, quelli «che si irradiano dalle istituzioni intellettuali napoletane verso le periferie del Viceregno e ciò quando questi organismi, proiettando sulla propria realtà agli occhi di una Spagna accentratrice e unificatrice il concetto stesso di “rinascimento”, formulato sulla scia di premesse umanistiche, come forma di autocoscienza politica, determinano l’intreccio tra le vicende della cultura, della religione e le trasformazioni del sistema viceregnale sul piano economico, sociale e politico»13.
Le interrelazioni, gli inscindibili nessi che tenevano “intrecciate” la vita culturale, politica, religiosa e sociale del Viceregno napoletano si manifestarono con chiarezza nel particolare clima spirituale creatosi a Napoli dopo l’arrivo di don Pedro Alvarez de Toledo14, strenuo difensore delle posizioni cattoliche contro i discorsi del senese Ochino e del fiorentino Vermigli, entrambi legati spiritualmente alla comunità dei discepoli di Juan de Valdés. Il credo di Valdés investì parte della nobiltà napoletana: i “ripensamenti” in materia di fede cattolica furono certamente numerosi e prevalse, soprattutto in una fase iniziale, un pensiero sincretico elaborato tra evangelismo erasmiano e riflessioni dottrinali vicine alle personalità dell’Accademia Pontaniana, dello Studio di Napoli, delle Accademie degli Ardenti, dei Sereni, degli Eubolei.
Nelle Accademie napoletane trovava voce la fitta e vivace circolazione di idee; in molti, tra gli accademici, non avevano disdegnato posizioni poco ortodosse rispetto alla corrente morale cattolica. L’inestricabile connubio tra politica e religione diresse, nel primo ’500, i propri sforzi verso la repressione sul nascere di qualunque movimento ispirato a tensioni sovversive ovvero anticonformistiche. Il Toledo sentì l’obbligo di assumersi in prima persona la responsabilità di una severa opera di pubblica moralizzazione. La singolare strategia favorita dal Viceré determinò la soppressione delle Accademie napoletane, incriminate della diffusione del germe ereticale e deviante.
Il criterio adottato da Alfonso Tortora per individuare ed interpretare i caratteri distintivi delle pur variegate identità religiose presenti nella Campania del primo ‘500, appare indicativo per ricostruire la vicenda del percorso inconfessato dell’“eresia” nel Mezzogiorno d’Italia. Oltre a ciò, lo studioso delinea un quadro pressoché oggettivo della complessa divisione spazio-temporale in cui si realizzò la sfuggente trama del dissenso religioso in un angolo non marginale del Mezzogiorno d’Italia. Questi sono i termini della ricerca che interessa anche la città di Salerno, “assente”, dunque, come l’ha definita Aurelio Musi15, ma innegabilmente incline al “peccato d’eresia”.
La cronaca dell’eruzione vesuviana del 1631 scritta dall’abate lucchese Giulio Cesare Braccini16, viene proposta da Tortora come «esplorazione di un racconto, il cui narratore, un abate, ponendosi come mediatore tra il mondo della finzione letteraria e un destinatario generico e dilatato nel tempo, richiede alcune verifiche sia nell’ambito della parola retorica, con la quale si è descritto il fenomeno vulcanico, sia per quanto concerne il dato percettivo legato all’osservazione della manifestazione eruttiva, che, sospesa a remotissime, venerabili verità naturali, ripete e cela da sempre lo stesso messaggio di punizione divina, di morte e di distruzione»17.
L’analisi, pertanto, è rivolta non tanto e non solo alla cronaca ed alla verifica del livello di comunicazione letteraria del Braccini, al ricorso e rinvio costante alle notazioni di Plinio; il protagonista della scena resta, senz’altro, quel Vesuvio di cui appare sfuggente, entro l’alveo culturale del primo Seicento, la concreta collocazione scientifica. È vero, infatti, che il pronunciato naturalismo del Braccini nella descrizione minuziosa dell’evento eruttivo è legato ad una visione “metafisica” più che scientifica dell’evento naturale e riconduce ogni sorta di fenomeno in un’ottica dipendente unicamente dalla volontà divina. Basti riflettere, del resto, sulle regole e sui principi controriformistici post-tridentini, inequivocabilmente volti al rigore nella verifica dell’ortodossia cattolica e al controllo di dogmi teologici devianti.
Illuminanti e significative a tal proposito affiorano le parole dell’abate di Gioviano di Lucca da cui si trae il motivo determinante, la causa potremmo dire, della calamità naturale: l’orribile nefandezza dei peccati umani, parte di quelle mediocritates innominatae a cui più volte il Braccini fa riferimento nel corso della narrazione. La calamità naturale viene descritta, catalogata ed interpretata dall’abate toscano prevalentemente in rapporto genealogico con la propria cultura giuridica legata ai principi della seconda Scolastica spagnola e alla tradizione cattolica. Sul piano linguistico il Braccini predilige lo stile retorico classicistico-latineggiante, intriso della gravitas pliniana, in un alternarsi di espressioni e trasposizioni tratte dallo stile linguistico latino.
L’impostazione del “trattatello” si basa su premesse miracolistiche ove «la metafora del santo e del meraviglioso, così cara ai “napoletani” o, meglio, all’inconscio di un popolo legato a grossolane superstizioni e a ben precise pratiche magiche, diventa premessa comunicativa imprescindibile»18.
Nella cronaca, dunque, ricorre poderosa la metafora della Chiesa salvifica in cui il Braccini si muove entro un modello biblico che caratterizza ancora la prima metà del Seicento e lontano, pertanto, dalle determinazioni del sapere scientifico di formazione galileiana. L’erudizione dell’abate lucchese si palesa in ogni passo del racconto e ritrova nella storia passata sostegno alla critica rivolta al governo spagnolo «proponendo una lettura certamente non nuova di condizioni politiche antiche, che autorevoli posizioni storiografiche avevano tra Cinque e Seicento cominciato a leggere in una rinnovata prospettiva»19.
Il filo rosso, nella ricerca di Alfonso Tortora, deve essere rintracciato nel gravoso compito di scrivere “storie” che si sviluppano su percorsi alternativi e nei labirinti di un passato troppe volte ricondotto ai grandi fatti della Storia. Nella ricostruzione di una memoria più o meno spenta, l’Autore percorre una via poco frequentata, impegnandosi a dar conto della cifra che lega insieme ricerca, rappresentazione e interpretazione di vicende sovente compresse tra silenzi ed ambiguità.




NOTE
1 A.Tortora, La Storia e la Chiesa (secoli XVI-XVII), Salerno, Plectica, 2007.^
2 Ivi, p. 13.^
3 Ivi, p. 14.^
4 Ivi, p. 15.^
5 Ivi, p. 19.^
6 Ivi, p. 20.^
7 Ibidem.^
8 A. Tortora, Presenze valdesi nel Mezzogiorno d’Italia (secoli XV-XVII), Salerno, Laveglia, 2004.^
9 Si leggano le pp. 13 e segg. di A. Tortora, Presenze valdesi…, op. cit., in cui l’Autore ripercorre la vicenda e la cultura religiosa di Valdesio, l’apostolato nei suoi seguaci, le diverse identità del credo valdese fino a giungere alla traiettoria del culto nel Mezzogiorno d’Italia.^
10 A.Tortora, La Storia e la Chiesa…, op. cit., p. 28.^
11 Ivi, p. 37.^
12 Ivi, si vedano a tal proposito le pp. 38 e segg.^
13 Ivi, pp. 56-57.^
14 Su questi temi si vedano A. Cernigliaro, Sovranità e feudo nel Regno di Napoli. 1505-1557, Jovene, Napoli 1983; C.J. Hernando Sanchez, Castilla y Nápoles en el siglo XVI. El virrey Pedro de Toledo, Linaje, estrado y cultura (1532-1553), Junta de Castilla y Leon, Salamanca 1994; G. Galasso, Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino, Einaudi, 1994; A. Musi, L’Italia dei Viceré. Integrazione e resistenza nel sistema imperiale spagnolo, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2000.^
15 A. Musi, Salerno moderna, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 1999, pp. 27-42.^
16 Il titolo completo dell’opera è Dell’incendio fattosi nel Vesuvio a XVI di dicembre MDCXXXI e delle sue cause ed effetti con la narrazione di quanto è seguito in esso per tutto marzo 1632 e con la storia di tutti gli altri incendij nel medesimo Monte avvenuti, discorrendosi in fine delle acque, le quali in questa occasione hanno danneggiato le campagne e di molte altre cose curiose, in Napoli, per Secondino Roncaglielo, 1632 (rist. anast. Forni, Bologna 2006).^
17 A. Tortora, La Storia e la Chiesa…, op. cit., pp. 68-69.^
18 Ivi, pp. 85-86.^
19 Ivi, p. 100.^
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