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L’instabilità globale e i nuovi scenari
di Italico Santoro
1. Uno scenario in crisi

    Se l’agosto 2007 sarà ricordato per l’esplosione della crisi finanziaria innescata dai mutui subprime, l’estate del 2008 passerà probabilmente alla storia per altri due avvenimenti internazionali di non minore significato:il fallimento delle trattative per il “Doha round” e, soprattutto, lo scontro “caldo” tra Russia e Georgia.
    Crisi finanziaria, fallimento dei negoziati per il “Doha round”, guerra tra russi e georgiani: avvenimenti diversi tra loro, ma che sono tutte manifestazioni – e neppure le sole – di un’unica tendenza. L’impalcatura che aveva sorretto gli equilibri internazionali dopo la caduta del muro di Berlino mostra ormai troppe crepe e probabilmente non è più in grado di reggere di fronte agli scossoni ai quali da qualche tempo viene sottoposta.
    Per tutti gli anni Novanta e i primi cinque di questo secolo, l’assunto di fondo che aveva caratterizzato lo scenario internazionale era improntato sostanzialmente ad una visione ottimistica del futuro. Il processo di espansione dell’economia – la cosiddetta globalizzazione – avrebbe allargato l’area del benessere prima e quella delle libertà civili e politiche dopo, favorendo la cooperazione e lo sviluppo mondiali. Un’era nuova, insomma, sembrava a portata di mano.
    Per qualche tempo questo scenario è sembrato realistico. Sostenuta dalla rivoluzione informatica, guidata dalla spinta liberale proveniente dai paesi anglosassoni, l’economia mondiale è lievitata quantitativamente e qualitativamente. La crescita ha investito aree geografiche tradizionalmente marginali – i cosiddetti paesi emergenti – , alimentando la speranza che con il benessere potessero crescere anche i livelli di democrazia e lo spirito di cooperazione. Neppure l’11 settembre aveva messo in crisi questa impostazione. La solidarietà accordata agli Stati Uniti in quella occasione (con rare eccezioni) consolidò anzi l’idea che la collaborazione internazionale ne sarebbe uscita rafforzata, che il terrorismo sarebbe stato isolato e battuto, e che la crescita economica – una volta ripreso il trend positivo – si sarebbe trasformata nel grimaldello attraverso cui riassorbire anche le perduranti sacche di povertà e di potenziale dissenso. Non a caso vennero avviati, proprio nel novembre di quell’anno e per iniziativa dell’amministrazione americana, i negoziati che furono definiti, dalla città dove si tennero i primi incontri, “Doha round”: erano lo strumento individuato per coinvolgere anche i paesi poveri nel processo di sviluppo globale ormai in atto.
    Da qualche tempo questo disegno strategico non regge più. Sul terreno economico, la partita della globalizzazione non viene giocata da tutti nello stesso modo. E sul terreno politico, i risultati non si vedono: l’impressione, anzi, è che i potenziali conflitti –invece di attenuarsi – si stiano accentuando, e che la spinta in direzione di una diffusione della democrazia si sia ormai esaurita.

2. La globalizzazione asimmetrica

    Negli anni scorsi, commentando la rapida crescita della Cina, si è posto spesso l’accento sul cosiddetto “dumping sociale”: la differenza, cioè, che esiste in materia di costi e condizioni di lavoro tra i paesi occidentali ed il gigante asiatico (o, più in generale, i paesi emergenti). Molto meno, invece, l’attenzione è stata rivolta ad altri aspetti, che pure contribuiscono a squilibrare fortemente il rapporto tra le aree sviluppate e quelle emergenti – la Cina in particolare – senza peraltro trovare giustificazione alcuna nelle regole di mercato.
    Cominciamo da quella che può essere definita l’asimmetria valutaria. Commentando la crisi finanziaria e analizzandone i diversi risvolti, Massimo Lo Cicero ha sottolineato, su questa stessa rivista, come «nel mondo esistono un sistema di cambi flessibili tra euro e dollaro ed un sistema di cambi fissi tra molte economie, che hanno scelto il dollaro come moneta di riferimento e gli Stati Uniti come partner privilegiato». Per cui «il fatto che lo yuan non si rivaluti verso l’euro, nonostante il surplus commerciale della Cina, consente alle multinazionali di produrre in Cina le merci destinate alla fascia bassa dei consumi americani e che la Cina, parallelamente, sposti verso l’Europa una parte importante delle sue esportazioni negli Stati Uniti».
    Ne deriva una conseguenza politica di rilievo. «Con una quota del surplus accumulato nei propri conti con l’estero la Cina finanzia la sua penetrazione nel controllo di molte infrastrutture, nei paesi sviluppati ma anche in Africa e negli altri paesi in via di sviluppo. Allargando la propria influenza sul sistema delle relazioni internazionali» traduce la sua «forza economica […] in una crescente influenza politica»1. Ma non è solo l’Europa che «rischia di essere ridimensionata nelle sue ambizioni da questa tenaglia». Sono gli stessi Stati Uniti a risentire negativamente di un cambio fisso, sottratto al mercato, che rende asimmetrico –almeno sul terreno cruciale della valuta – il processo di globalizzazione. Ne sono una conferma l’enorme disavanzo della bilancia commerciale americana, il trasferimento verso la Cina (e non solo) di molte attività produttive delle multinazionali, la scarsa permeabilità del mercato interno cinese anche a causa della sottovalutazione dello yuan.
    Pochi dati bastano a sottolineare l’ampiezza di questi fenomeni. Nel 1991 il saldo netto delle esportazioni USA di beni e servizi era negativo per 31.136 milioni di dollari, pari allo 0,52% del prodotto interno lordo; nel 2006 aveva raggiunto il livello record del 5,72% (753 miliardi di dollari), per ripiegare l’anno dopo al 5,07. Una massa enorme di risorse si è trasferita così verso l’estero; e per una parte considerevole queste risorse sono finite in Cina. Dove non a caso ogni anno entrano in media duecento miliardi di dollari come saldo positivo della bilancia commerciale e altri settanta come saldo positivo da investimenti diretti sull’estero (con le riserve della Banca centrale che sono passate negli ultimi tre anni da 600 a 1400 miliardi di dollari).

     E d’altro canto è la stessa Cina che rischia nel tempo di subirne i contraccolpi, importando inflazione. Le ultime rilevazioni indicano, per i prezzi alla produzione, un aumento medio annuo pari al dieci per cento; e c’è chi ritiene che il dato sia sottostimato e, comunque, destinato a crescere senza interventi correttivi. In questo modo, invece di contribuire al funzionamento equilibrato del sistema monetario internazionale, la Cina ne diventa un elemento destabilizzante.
    Discorso analogo può essere fatto anche guardando ai motivi che hanno portato al fallimento delle trattative per il “Doha round”. Il problema non è tanto e non è solo nel fatto che i negoziati si siano conclusi con un insuccesso. Significativa, invece, è la causa che lo ha determinato. Quando sembrava che l’accordo fosse a portata di mano, India e Cina si sono rifiutate di fare la loro parte. Mentre gli Stati Uniti – e perfino la UE, tradizionalmente sorda sull’argomento – accettavano di ridurre sussidi e protezioni all’agricoltura, indiani e cinesi hanno chiesto, ad intesa praticamente raggiunta, speciali salvaguardie per i loro produttori. Come ha scritto Massimo Gaggi commentando la rottura delle trattative, «l’America di Bush – che per anni ha chiuso gli occhi davanti alle evidenti asimmetrie di una globalizzazione nella quale Pechino esportava liberamente, ma creava forti barriere all’import e continuava a sussidiare in tutti i modi il mercato interno – ha deciso che era giunto il momento di dire basta». Tanto più che «le nuove potenze emergenti dell’Asia» si rifiutano – dalle scelte in materia di tutela ambientale alle questioni monetarie – di farsi «coinvolgere nelle politiche dei paesi più avanzati»2. Ed è ora impressione diffusa che senza un reale riequilibrio nel processo di globalizzazione difficilmente il nuovo presidente americano – chiunque esso sia, ma soprattutto se sarà democratico – vorrà o potrà fare le concessioni offerte dall’amministrazione in carica.
    Anche perché l’andamento delle trattative ha messo in luce per intero l’ampiezza delle asimmetrie commerciali, dalla tutela della proprietà intellettuale, ai dazi all’importazione, ai sussidi alla produzione. Asimmetrie commerciali che si sommano a quella valutaria e creano una situazione difficilmente sostenibile.
    Una terza forma di squilibrio è data poi dai soggetti che operano sui mercati internazionali. Da una parte, per gli Stati Uniti e l’Unione Europea, i protagonisti sono le imprese; dall’altra, malgrado la conclamata accettazione delle regole capitalistiche in economia, sono gli Stati. Sotto questo profilo, il caso estremo è rappresentato dalla Russia, con un unico grande operatore monopolista (Gazprom) che prende ordini dal governo e detta le condizioni – spesso determinate da ragioni politiche – ai suoi interlocutori occidentali (ed europei in particolare)3. Ma il fenomeno è molto più diffuso. Basti pensare ai cosiddetti “fondi sovrani”, che di fatto si sottraggono alle regole basilari del capitalismo (a cominciare da quelle che contrastano le posizioni dominanti di mercato) e che «essendo diretta proiezione di governi stranieri […] possono esercitare […] la loro influenza politica, soprattutto nel caso che investano, come già stanno facendo, in un tipo di industria che è sempre più strategica: l’industria bancaria»4.
    Le asimmetrie, insomma, sono troppe. Non è vero, come pure sostiene qualche improvvisato intellettuale asiatico, che l’Occidente – dopo aver inventato il liberismo – tende a ritrarsene ora che non lo trova più conveniente per i propri interessi. È vero invece il contrario, che «se il mondo è unico, le politiche non possono essere diverse. Se il mondo è unico, le regole non possono essere parziali. O sono generali o non sono»5.
    E in un mondo in cui troppe asimmetrie hanno creato troppi squilibri, queste regole vanno rifissate per tutti e da tutti rispettate. Non si può pretendere che i paesi sviluppati le applichino con rigore e che gli altri vadano avanti per proprio conto. Altrimenti, se qualche giocatore si comporta in modo scorretto, alla fine è il banco stesso a saltare.


3. L’instabilità politica e l’appannamento dell’evoluzione democratica

    Come hanno scritto sul Corriere della Sera André Glucksmann e Bernard-Henri Lévy, con la guerra tra Russia e Georgia «siamo forse davanti alla svolta più importante della storia europea dalla caduta del Muro di Berlino»6. È proprio nel paese che aveva dato i natali a Stalin ad essersi consumata questa estate, quasi simbolicamente, l’altra illusione che aveva sorretto il disegno strategico occidentale negli anni scorsi: l’illusione, cioè, che il processo di globalizzazione avrebbe diffuso, con il benessere, la democrazia e favorito di conseguenza la cooperazione tra paesi e culture molto diverse tra loro.
    Certo, la democrazia si è affermata in molti stati che una volta erano ricompresi all’interno dell’impero sovietico: nell’Europa Orientale, nei Balcani, nel Baltico, nel Caucaso. Ma non ha registrato passi in avanti nei due paesi chiave dai quali ci si attendeva la svolta più significativa: la Russia e la Cina. In Russia, almeno per un certo periodo di tempo, è sembrato che le aperture economiche e politiche dell’Occidente producessero qualche risultato. Anche se in modo confuso e contraddittorio, le istituzioni democratiche cominciavano a prendere corpo; e gli occidentali chiusero un occhio sulla feroce repressione in Cecenia (con i suoi duecentomila morti), considerandola quasi come il prezzo da pagare per assicurare alla Russia la stabilità democratica.
    E invece così non è stato. Da tempo ha ripreso slancio la tradizionale autocrazia russa, con la sua vocazione nazionalistica e imperiale. L’opposizione non di comodo è stata messa a tacere (il magnate Khodorkosky con il carcere, lo scacchista Karpov con la violenza fisica); la libertà di stampa e il dissenso ideologico sono stati soffocati (anche con l’assassinio di stato, come nel caso di Anna Politkovskaya, giornalista indipendente e coraggiosa); i servizi segreti liquidano fisicamente gli oppositori all’estero, con metodi che nulla hanno da invidiare a quelli praticati dal vecchio Kgb (e in totale spregio delle possibili conseguenze diplomatiche dei loro comportamenti).
    La novità, nel caso della Georgia, è che è stata inaugurata – dopo la stretta autocratica all’interno – anche una politica aggressiva verso l’esterno. Con un obiettivo di fondo che non è molto diverso da quello dell’Unione Sovietica: la finlandizzazione dell’Europa. Obiettivo che la Russia sovietica perseguiva, nei confronti dell’Europa Occidentale, con la minaccia delle armi; e che la Russia di Putin coltiva con il ricatto energetico, riservando invece il fragore bellico ai paesi che avevano fatto parte dell’URSS o ne erano stati satelliti.
    Quanto alla Cina, le Olimpiadi sono state la cartina di tornasole. «Il Comitato olimpico internazionale – non si sa se con più cinismo o più ingenuità – ha fatto finta di credere che le Olimpiadi avrebbero portato la Cina a grandi progressi nel rispetto dei diritti umani. È avvenuto l’opposto, con un impulso al controllo che era prevedibile»7. E che è certificato da un rapporto di Amnesty International, dal quale risulta che in vista dei Giochi si è rafforzata la repressione: seguendo peraltro un copione tipico dei paesi autoritari, che in queste occasioni cercano di impedire all’opposizione interna di manifestarsi. Fino a coprirsi di ridicolo quando hanno travestito da rappresentanti delle etnie minoritarie bambini appartenenti a quella han, il gruppo largamente dominante. In Cina, insomma, il capitolo della democrazia – o quanto meno del rispetto dei diritti umani – è ancora tutto da scrivere.
    Né da questi due paesi è venuto un contributo fattivo nei confronti delle maggiori questioni internazionali aperte. Non certo sul nucleare iraniano, con l’ambiguo comportamento dei russi che prima hanno fornito la tecnologia di base e ora aderiscono (ma fino a un certo punto) alle sanzioni. Non sui tentativi di fermare i massacri nel Darfur, con la Cina che fa muro alle Nazioni Unite. Non sullo sforzo diretto a rendere meno intolleranti i regimi della Birmania o dello Zimbabwe.
    E allora? Non resta che prendere atto del tramonto di una illusione. L’espansione della democrazia è in crisi, la cooperazione internazionale che doveva derivarne altrettanto. Il disegno strategico che era alla base del processo di globalizzazione è giunto al capolinea. E l’Occidente deve ridisegnare la sua strategia.


4. L’intesa nordatlantica come risposta all'instabilità globale

    Quale può essere allora la nuova strategia dei paesi occidentali di fronte all’incalzare di problemi – economici, politici, strategici – che per la loro complessità e vastità rischiano di mettere in discussione le basi stesse su cui si è fondata la loro evoluzione e, con essa, la loro leadership?
    Guardare al futuro col capo rivolto all’indietro non ha gran senso. Rifugiarsi nelle roccaforti localistiche, nelle piccole patrie disseminate sul territorio, elevare barricate destinate prima o poi a sgretolarsi, può produrre al massimo qualche effetto immediato. Può curare qualche sintomo ma non certo rimuovere le cause di un malessere che ha ragioni ben più profonde.
    Discorso analogo può essere fatto anche per i singoli Stati nazionali del Vecchio Continente. I problemi “globali” sfuggono alla loro portata e, spesso, alla loro stessa comprensione. E quindi non possono rappresentare un argine in tempi nei quali le scelte strategiche – riguardino esse l’economia o la politica – vengono organizzate e compiute per aree molto vaste e da soggetti che spesso operano al di là di specifiche frontiere. Viviamo, insomma, in un’epoca in cui «i miti della sovranità nazionale e della non interferenza sono stati ormai scardinati»8. Figuriamoci se la linea di resistenza può essere arretrata verso confini ancora più ristretti, verso un localismo che sarebbe ancora più esposto alle turbolenze globali!
    Bisogna allora individuare, per riprendere l’espressione di Giulio Tremonti, quale sia il livello, geografico e politico, nel quale «una comunità può e deve definire la sua identità […] per mezzo dei suoi valori storicamente consolidati» e rispetto ai quali «le altre comunità sono altre»9. Impostato il problema in questi termini, che sono poi i termini corretti, la risposta è nelle cose stesse: la comunità in cui si ritrovano le nostre storie, le nostre tradizioni, le nostre culture, i nostri interessi, non può che essere la comunità atlantica, quella in cui una lunga (e spesso anche contraddittoria e dolorosa) evoluzione ha sedimentato i valori che si riassumono nella democrazia liberale.
    Lo stesso riferimento europeo, da solo, non basta. E lo confermano, se ancora ce n’era bisogno, gli ultimi dati economici e i più recenti fatti politici. Quelli, insomma, ai quali abbiamo prima fatto riferimento. È sembrato, per qualche tempo, che le economie europee – e quella tedesca in particolare – potessero procedere per proprio conto, malgrado la crisi che si profilava all’orizzonte negli Stati Uniti. Poi sono bastati i dati relativi al secondo trimestre dell’anno in corso10 – e in particolare quelli riguardanti le variazioni tendenziali, il medio periodo – per spegnere entusiasmi troppo frettolosi; e per confermare come l’Europa resti comunque agganciata all’economia americana e che tra le due sponde dell’Atlantico continua ad esistere una stretta interdipendenza. Per cui solo «il dialogo euroatlantico è destinato a dare qualche risultato sul piano economico e finanziario», dal momento che esistono «questioni strutturali che influenzano e influenzeranno direttamente i rapporti tra le due sponde»11.
    Per quanto riguarda poi gli aspetti politici, la crisi del Caucaso ha confermato ancora una volta che l’Unione Europea, senza il sostegno americano, può fare ben poco. La sbandierata mediazione del suo presidente pro-tempore, il cui successo aveva inebriato la penna di qualche commentatore (e anche di qualche ministro degli Esteri), è stata di fatto irrisa proprio dai russi. Continuando ad occupare militarmente – ben oltre i termini degli accordi di pace e in totale spregio degli stessi – ampie porzioni del territorio georgiano anche al di fuori delle due regioni “secessioniste”, l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, e dichiarando la piena autonomia di queste regioni in violazione delle intese concordate, Putin ha mostrato quanta considerazione abbia per l’Unione Europea. Come ha sottolineato Angelo Panebianco, «l’Europa, con la cosiddetta mediazione, è oggi, agli occhi di tutto il mondo ex comunista […] nient’altro che la complice, più o meno riluttante», del disegno annessionistico della Russia. Con la conseguenza di avere in questo modo «chiarito, non solo alla Georgia, all’Ucraina e agli altri paesi ex sovietici, ma addirittura agli ex satelliti, quelli che sono già nell’Unione Europea e quelli che sono in procinto di entrarci, che essi potranno sperare», per la loro difesa, «solo negli americani perché a noi, delle loro paure e della loro sicurezza, importa poco»12.
    Certo, la posizione iniziale della UE è stata parzialmente corretta in itinere, grazie soprattutto al viaggio della Merkel a Tbilisi; ma è rimasta incerta e oscillante, espressione di divaricazioni interne che puntualmente si sono riproposte. Per cui sono rimasti solo gli Stati Uniti a difendere «senza se e senza ma» l’integrità territoriale della Georgia e a sostenere l’immediato ritiro dell’esercito russo. Non solo a parole, ma anche con l’invio delle proprie missioni umanitarie e, indirettamente, con la firma dell’accordo che prevede l’installazione di missili intercettori in Polonia. A conferma, ancora una volta, della vecchia massima di Machiavelli ripresa da Panebianco, e cioè che «i profeti disarmati sempre ruinarono».
    E qui veniamo ad un punto centrale del rapporto tra Europa e Stati Uniti. In Europa – o meglio, in quello che era il vecchio nocciolo duro dell’Europa – è diffusa la convinzione secondo cui il mondo possa essere governato solo con le regole del diritto e della morale, a prescindere dall’esistenza – e se necessario dall’ uso – della forza.
È il cosiddetto “soft power”. Ma così come le regole del diritto e della morale hanno valore all’interno del singolo Stato solo e in quanto esistano gli strumenti (la forza, appunto) indispensabili per poterle applicare, la stessa logica vale anche sul piano internazionale; dove anzi per la complessità degli interessi (e qualche volta dei valori) che sono in gioco, questa logica è ancora più stringente. E allora il “soft power”, o presunto tale, dell’Unione Europea può essere esercitato solo se combinato e supportato con l’“hard power” degli Stati Uniti: con i quali, quindi, è necessario raccordarsi. Non solo. Proprio perché drammatici sono i problemi da affrontare e profonde le crisi che possono derivarne è indispensabile un’intesa strategica. Insomma, più gravi sono gli scenari di crisi, maggiore è l’esigenza di una solida convergenza tra le due sponde dell’Atlantico.
    Basterebbero queste considerazioni per concludere come – di fronte ai rischi che il prossimo futuro ci riserva – la sola possibile risposta vada trovata nel rilancio dell’intesa transatlantica. Ma esistono almeno altre tre ragioni perché questo scenario sia nel comune interesse di Europa e Stati Uniti.
    Una è la questione energetica. Di fronte alla “fame” di energia del Vecchio Continente, Sergio Romano ha proposto di recente la creazione di una «Comunità euro-russa per gli idrocarburi e lo sviluppo», una struttura «simile a quella che la Francia propose alla Germania e ad altri Paesi europei dopo la fine della Seconda guerra mondiale»13. Ma quali sarebbero, in questo caso, le implicazioni di un tale accordo14? L’Unione Europea finirebbe per consegnarsi di fatto all’egemonia e alle scelte discrezionali della Russia, un paese che – a parte il deficit interno di democrazia – ha già dimostrato ripetutamente di utilizzare l’arma energetica come uno strumento di pressione politica. Sergio Romano propone, in altri termini, di fare proprio quello che Angelo Panebianco teme, e cioè «il decoupling, lo sganciamento dagli Stati Uniti»15, e di trasformare di conseguenza l’Europa in una zona che a causa della propria dipendenza energetica, finisce per ricadere sotto l’influenza politica ed economica della Russia.
    E invece la strategia non può che essere quella opposta. Perseguire cioè un’intesa con gli Stati Uniti incentrata su quattro punti: sviluppo delle fonti alternative al gas e al petrolio, nucleare compreso; risparmio energetico; trattativa paritaria – e da posizioni comuni – con i paesi produttori di petrolio e di gas; e, per quanto riguarda questi ultimi, approvigionamento quanto più diversificato, anche mediante la costruzione di oleodotti e gasdotti alternativi a quelli esistenti.
    La seconda è la questione della sicurezza. Come è opinione diffusa, c’è un «senso di preoccupazione o di paura che percorre l'Occidente» e che «non percorre né la Cina né l’India né i paesi poveri o in via di sviluppo»16. Che percorre, diciamolo francamente, soprattutto l’Europa. Le cause sono molte e si intrecciano tra di loro. Ci sono il timore per il ritorno di una povertà diffusa, ma anche la diffidenza verso le novità della scienza e gli scenari che esse prospettano e che possono talora dare l’impressione che non esistano più «intralci alla capacità prometeica dell’uomo sulla vita, sua e degli altri esseri viventi»17; l’incubo per una possibile futura penuria energetica ma anche quello determinato dai cambiamenti climatici; e poi l’incombere del terrorismo o delle nuove e misteriose potenze economiche emergenti. L’insicurezza della vita quotidiana, la difficoltà di un approccio positivo verso il mondo esterno ne sono l’inevitabile conseguenza.
    La risposta a questo “senso di preoccupazione o di paura”, proprio perché la crisi è globale, può trovare risposte efficaci e stabili solo in una forte strategia di politica estera, in intese solide e rassicuranti sul piano internazionale, costruite intorno a valori condivisi, ad affinità riconosciute. E quindi in una stretta collaborazione tra le democrazie liberali, che rappresenti per un verso il recinto in cui riconoscersi e per altro verso lo strumento con il quale affrontare il mondo esterno. E, in primo luogo, tra americani ed europei: perché sebbene essi «avvertano, talvolta con eccessiva precipitazione, di essere diversi gli uni dagli altri, non possono perdere la consapevolezza di quanto la comune appartenenza occidentale li faccia estremamente simili rispetto ai non occidentali»18.
    La terza ragione, infine, riguarda il processo stesso di costruzione dell’Europa. Che solo all’interno della cooperazione nord-atlantica può consolidarsi e fare progressi: come è sempre avvenuto dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi. La storia degli ultimi decenni ci ha dimostrato che i periodi nei quali più stretta e fruttuosa è stata la collaborazione con gli Stati Uniti sono stati i periodi nei quali maggiori sono stati i passi compiuti verso la costruzione europea. In un momento in cui invece questa costruzione mostra la corda e gli elettori dei singoli paesi non capiscono dove si stia andando, e tendono a rifluire su logiche nazionalistiche, già la sola possibilità di ricostruire un rapporto solido con gli Stati Uniti, che abbia per obiettivo quello di assicurare stabilità politica e di gestire insieme le contraddizioni globali, può ristabilire tra i cittadini europei quel senso dell’appartenenza che si è appannato negli ultimi anni. Lo conferma, tra l’altro, un sondaggio congiunto del “Marshall Fund” e della “Compagnia di San Paolo”, dal quale risulta che il 67% degli europei (e addirittura il 73% degli italiani) ritiene che la UE debba affrontare le minacce internazionali d’intesa con gli Stati Uniti19.
    La storia, che qualcuno improvvidamente considerava “finita” dopo il crollo del Muro di Berlino, ha ripreso il suo corso. E l’Occidente è chiamato, ancora una volta, ad affrontare nuove sfide e a dare le sue risposte; a scontrarsi con «la dura realtà della vita internazionale, che prosegue il suo cammino dalla notte dei tempi»20. L’Occidente, appunto, nel suo insieme: con le sue tradizioni e i suoi valori, ma anche con la sua capacità di innovazione e la sua flessibilità rispetto ai problemi.





NOTE
1 M. Lo Cicero, Che fretta c’era? Maledetta primavera!, in «L’Acropoli», 3 (2008).^
2 M. Gaggi, Il protagonismo di India e Cina ha scardinato i vecchi equilibri, in «Corriere della Sera», 30 luglio 2008.^
3 Secondo il «Financial Times» il governo russo avrebbe allo studio una struttura analoga a Gazprom anche per l’esportazione di cereali.^
4 G. Tremonti, La paura e la speranza, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2008, p. 42. Va aggiunto che il governo tedesco, preoccupato per la dimensione del fenomeno, ha predisposto una modifica alla legge sul commercio estero, fissando per le industrie strategiche un limite massimo al 25% del capitale nel caso di investitori esterni all’Unione Europea e prevedendo un possibile veto governativo se tali investimenti dovessero mettere in pericolo la sicurezza e l’ordinamento nazionale. Anche gli Stati Uniti hanno già adottato misure cautelative nei confronti dei fondi sovrani.^
5 G. Tremonti, op. cit., p. 25.^
6 A. Glucksmann e B.H. Lévy, Difendiamo Tbilisi, in «Corriere della Sera», 13 agosto 2008.^
7 Così M. Dassù, Il Pc cinese non resisterà a lungo, in «Corriere della Sera»,11 agosto 2008. Sullo stesso argomento ha insistito l’inglese «The Economist» per il quale «l’assegnazione dei Giochi ha fatto più male che bene» alla Cina, determinando una riduzione dei diritti civili e delle libertà politiche.^
8 A. Battaglia, Aspettando l’Europa, Carocci, 2007, p. 111.^
9 G. Tremonti, op. cit., p. 77.^
10 Secondo le rilevazioni di Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, nel secondo trimestre del 2008 la variazione tendenziale del PIL è stata pari in Eurolandia all’1,5 per cento, meno che negli Stati Uniti considerati in recessione (1,9).^
11 M. Bagella, Forum su: la Cina oltre i Giochi olimpici, «La Voce Repubblicana», 2 agosto 2008.^
12 A. Panebianco, Profeti disarmati, in «Corriere della Sera», 18 agosto 2008.^
13 S. Romano, Le paure di uno zar, in «Corriere della Sera», 20 agosto 2008.^
14 A parte altre considerazioni, con la CECA Francia e Germania stipularono un accordo paritario: la prima mise in comune il ferro della Lorena, la seconda il carbone della Ruhr. In questo caso, sarebbe solo la Russia a detenere la golden share.^
15 A. Panebianco, op. cit..^
16 A. Battaglia, Verso una politica europea bipartisan, in «L’Acropoli» 3 (2008), p. 199.^
17 L. Alberghina, Systems Biology, Treccani – Terzo Millennio.^
18 V.E. Parsi, L’alleanza inevitabile, Milano, Università Bocconi Editore, 2006, p. 280.^
19 v. Il rapporto Marshall-San Paolo, su «La Stampa», 11 settembre 2008, e il commento di L. Annunziata, L’Ossezia ha cambiato tutto.^
20 R. Kagan, The New York Times Syndicate 2008.^
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