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Unspeakable Histories
di Irene Gaddo
Che l’argomento di un convegno di studi storici sia incentrato sull’indicibilità della storia può giustamente apparire bizzarro. A una prima lettura si può essere portati a considerare l’accattivante titolo come una di quelle frasi a effetto o giochi di parole ammiccanti spesso ideati più per attirare la curiosità del pubblico che per riassumere i contenuti effettivi. In seconda battuta, ammessa la validità del titolo, vien da domandarsi che senso possa avere dedicare a storie “unspeakable”, cioè non comunicabili verbalmente, un convegno internazionale che fa della parola e del discorso la sua caratteristica precipua, se non assoluta.
Si può affermare che risieda proprio qui il “senso” dell’impresa che Edoardo Tortarolo, docente di storia moderna, ha ideato e realizzato in occasione del decennale dell’Ateneo dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, sorto nel 1998 per riunire le facoltà di Vercelli, Novara e Alessandria originariamente sedi distaccate dell’Università di Torino.
Il problema dei limiti della rappresentazione della realtà, evidenziato con urgenza all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale e della scoperta dei suoi orrori, ha fornito lo spunto comune al gruppo di relatori, chiamati a riflettere sulle sfide poste dalla complessità del reale e dell’esperienza umana in un’era di convulsa moltiplicazione di messaggi riguardanti il passato.
Per lo storico, che più di altri intellettuali si avvale della parola per svolgere il compito essenziale al suo mestiere, cioè quello di descrivere gli eventi nella maniera più appropriata a restituirne il senso, il rapporto con il linguaggio e la comunicabilità del passato rimane un nodo fortemente critico.
Di fronte ai limiti che il linguaggio pone nei confronti di catastrofi naturali, omicidi di massa, sconvolgimenti politici, entrano in gioco complesse implicazioni che influenzano il lavoro degli storici proprio alla luce dell’intreccio che tra linguaggio e realtà si viene a creare nella narrazione storica. Rovesciando e attualizzando l’aforisma wittgensteiniano, citato nell’introduzione ai lavori da Tortarolo, secondo cui «i limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo», si può osservare come la dilatazione dei confini degli orizzonti individuali, la moltiplicazione esponenziale di notizie e d’informazioni, da cui ognuno è quotidianamente bombardato, impongano un uso del linguaggio altrettanto, se non più sofisticato; di tale situazione lo storico non può non tenere conto se vuole che il proprio lavoro risulti significativo, a prescindere dal periodo storico e dal tema trattato.
Parole come apocalisse, trauma, carneficina sono entrate a far parte della storiografia sull’Olocausto per cercare di comunicare la realtà della tragedia e darne un senso. Di fronte ad atrocità tanto eccezionali, la copiosa, e non sempre rigorosa, letteratura prodotta sugli orrori e sulle sofferenze dei campi di concentramento ha messo in evidenza le lacune del realismo storico di eredità ottocentesca, spingendo gli studiosi a cercare modi alternativi di rappresentazione di quanto successo. A complicare il quadro ha pesato l’incongruenza logica individuata agli inizi degli anni ’90 da Saul Friedlander1. La storiografia dell’Olocausto ha indubbiamente obbligato gli storici a un ripensamento critico dei propri strumenti espressivi ma ha gettato al contempo una luce pessimistica sull’impresa storiografica in contrasto con le possibilità prospettate dal “linguistic turn” anche nel campo delle scienze storiche.
Insistendo su un approccio storico e quindi critico, l’incontro Unspeakable Histories ha inteso promuovere uno scambio di riflessioni sui problemi legati alle difficoltà degli studiosi di fronte a episodi sofferti del passato in modo da offrire uno spazio di dibattito sulle potenzialità delle rappresentazioni storiche.
Il caso dell’Olocausto costituisce il primo riferimento, quello più immediato ed evidente a chiunque pensi ad avvenimenti di umana aberrazione nella storia più recente; certo fin dal 1945 è stato il campo in cui ci si è maggiormente impegnati per comunicare secondo modi adeguati «l’indicibile orrore dei fatti»2. Su questo fronte gli storici si sono confrontati con altre scienze sociali, generalmente ritenute dotate di una natura più assertiva e di un potenziale esplicativo maggiore rispetto alla tradizionale storia narrativa.
I risultati di tale ricerca sono stati estesi ad altri periodi e ad altri eventi traumatici della storia umana e hanno innescato tentativi di revisione della narrazione storica di accadimenti eccezionali e dolorosi; tuttavia, recenti affermazioni sulla natura metonimica della pratica storiografica – piuttosto che metaforica, connotativa o denotativa – sembrano confermare la tenacità e la forza dei sospetti nei confronti del realismo storico3.
Sebbene colpisca l’assenza di relazioni specifiche sull’Olocausto dal programma vercellese, il discorso introduttivo ha chiarito come proprio i problemi aperti dalla letteratura su tale evento abbiano fornito una delle principali suggestioni per l’individuazione e la messa a fuoco del tema del convegno.
Come ricordato da Tortarolo, fin dai tempi remoti annalisti e storici, da Tucidide in avanti, si sono dovuti confrontare con le difficoltà insite nella narrazione di circostanze catastrofiche o di fatti contrastanti con la ragione umana. Mentre agevolmente essi seppero rielaborare nelle loro storie i fatti riconducibili a una qualche integrità o principio morale, con difficoltà trovarono le parole per raccontare quelli di segno opposto. La descrizione di atti abominevoli e inumani era piuttosto affidata alla tragedia, genere con codici narrativi propri. A tal riguardo, non è un caso che Erich Auerbach abbia individuato il punto di maggior pathos nella narrazione di Ammiano Marcellino proprio nel silenzio della folla di fronte all’elevazione imperiale di Procopio: è l’assenza di parole che meglio comunica il senso della tragedia4.
Tematizzare la sofferenza – quella dimensione immortalata nei versi di Wordsworth come «permanente, misteriosa e oscura [che] condivide la natura dell’infinità»5 – significa certo affrontare argomenti spinosi che tuttavia possono essere storicizzati così da aprire prospettive inedite per comprendere la complessità dell’esperienza umana. L’estensione dello sguardo oltre i confini della storiografia europea, e in generale occidentale, significa inoltre richiamarsi all’universalità di tale esperienza e superare in qualche modo ciò che Jack Goody ha chiamato «il furto della storia»6.
Questa la cornice concettuale delle due giornate di Unspeakable Histories. I singoli relatori si sono concentrati su casi specifici di eventi, problemi, rappresentazioni travalicanti l’ordinario e il quotidiano, tali cioè da costringere lo storico a misurarsi con aspetti particolarmente sofferti del passato, a cominciare dal linguaggio con cui esprimerli.
Da un punto di vista delle storiografie nazionali, il tema dell’elaborazione di episodi dolorosi del passato è spesso intrecciato a processi di costruzione identitaria, soprattutto qualora il processo di formazione di uno stato moderno e indipendente risulti controverso e costellato da vicende travagliate. È il caso delle regioni dell’Europa orientale, di paesi come la Polonia, la Cecoslovacchia e l’Ungheria, le cui storiografie nazionali sono state oggetto della relazione di Monika Baar (Centro Incontri Umani, Ascona), già ricercatrice all’Istituto “Max Planck” di Berlino e all’Università di Essex7.
Analizzando i processi di formazione dei movimenti nazionalistici per i paesi dell’Est europeo, Monika Baar si è concentrata sul peso che la scrittura della storia svolge nella costruzione di un’ideologia nazionale. Nelle dinamiche di rielaborazione e di appropriazione del passato in chiave nazionale, la storia delle traversie delle vicende locali viene a far parte di narrazioni nazionalistiche, secondo topoi che si articolano attorno a figure esemplari in cui la popolazione possa identificare il cammino del proprio paese: sono eroi, eroine e martiri cui vengono attribuiti caratteri significativi per la lotta verso l’indipendenza e l’emancipazione dal dominio straniero.
Nel corso del XIX secolo Giovanna d’Arco o Jan Hus assunsero il ruolo di martiri per la libertà, dopo essere stati interpretati come personaggi negativi dalla storiografia illuministica, come attestato dalla parodia voltairiana de ‘La pulzella d’Orléans’. Fu con la storiografia di impronta romantica, illustrata dalla Baar attraverso l’opera di Michelet e di coevi storici cechi e polacchi sullo sfondo delle mutate condizioni dopo le guerre napoleoniche, che la sofferenza di simili personaggi venne elevata a simbolo o tema comune, non solo in un’ottica nazionale. Le sofferenze di personaggi immolatisi per la libertà del loro paese assunsero un senso più universale, intrecciandosi a un messaggio messianico di difesa dei valori cristiani contro “barbari” e infedeli (di volta in volta identificati con Turchi o Russi, protestanti o cattolici), così che la lotta per la causa nazionale venne investita di un significato teso a trascendere gli interessi locali.
Nel caso della storiografia romantica polacca questo tropo è particolarmente evidente. L’emergere della Polonia in seguito alla spartizione geopolitica dell’epoca della Restaurazione diede avvio all’elaborazione di un’ideologia o, meglio, di una filosofia nazionale: la costituzione della patria polacca venne rappresentata dalla storiografia locale come un risorgere della nazione storica dopo un periodo di sofferenza e di “morte” della nazione stessa. Da questa prospettiva, i dolori patiti dal popolo polacco vennero identificati con le vicende del Cristo morto e risorto per l’umanità tutta: la causa della libertà nazionale veniva in tal modo presentata dagli storici ottocenteschi come simbolo di redenzione per l’intera Europa cristiana, contribuendo a innalzare la sofferenza individuale a caratteristica nazionale e a radicare miti che gli storici successivi avrebbero avuto difficoltà nel decostruire. L’intreccio tra arte, potere e storia ha reso questi miti nazionali tanto tenaci da rendere particolarmente arduo recuperare la dimensione locale della sofferenza popolare così inglobata e uniformata (e giustificata secondo schemi ricorrenti in un’ottica imperialista) dall’ideologia nazionale, considerata inoltre la scarsa disponibilità di fonti utilizzabili dallo storico a tal fine.
Uno degli obiettivi del convegno è stato quello di spostare lo sguardo dalla cultura storica occidentale e di interrogare i codici e le strategie narrative utilizzati in altri contesti per quel che riguarda temi e argomenti che per intensità, violenza e portata travalicano i confini del senso comune.
È ciò che ha fatto Nicola Di Cosmo (Institute for Advanced Study, Princeton) analizzando la cosiddetta “storiografia delle frontiere” attraverso i meccanismi di appropriazione e di rielaborazione di eventi catastrofici nella storiografia cinese dei secoli XVII e XVIII8. Attraverso un parallelo con la querelle illuministica sui popoli barbarici, Di Cosmo ha evidenziato le diverse strategie adottate dagli storici cinesi per affrontare narrativamente l’evento traumatico delle invasioni di popolazioni straniere entro i confini del proprio paese. Secondo l’esposizione di Di Cosmo, per gli studiosi locali i barbari non furono solo delle popolazioni selvagge, prive di interesse in quanto “incivili” (Voltaire), né rappresentarono lo specchio di virtù negative, una sorta di “alter-ego” utilizzabile per la definizione di un’immagine identitaria (Gibbon). Stereotipi e pregiudizi, cliché culturali e sociali, guidarono le narrazioni storiche relative alle popolazioni sconosciute tra gli storici cinesi; tuttavia questi ultimi intrapresero un’azione di rielaborazione razionale della storia dei barbari secondo osservazioni di carattere più etnografico (lingua, costumi, usanze sociali) che storico, per precisi fini politici e ideologici legati alla volontà di sostenere l’antichità della linea dinastica della casa regnante9.
In particolare, il mito della fondazione della dinastia Manchu (di origine forestiera) portò a inglobare le storie delle altre casate non cinesi attraverso la loro traduzione in lingua Manchu; la storiografia ufficiale con questa operazione mescolò informazioni etnografiche a miti e storie locali, inserendoli in una cornice narrativa che faceva ampio uso di discorsi diretti, leggende ed elementi di fantasia. Le storie così prodotte costituiscono una sorta d’archivio di informazioni e notizie storiche sulle popolazioni non autoctone, le cui vicende sono rimaste inesplorate dalla storiografia occidentale per una serie di pregiudizi e di silenzi che, a partire dal Settecento, hanno reso complicato parlarne in maniera storiograficamente significativa. A tale rispetto Di Cosmo ha ricordato la questione degli Unni, ancora oggi visti come agenti passivi o negativi, e quella delle lande immense della Mongolia, molto vivaci culturalmente e commercialmente, ma di nuovo più facilmente identificate attraverso le direttrici occidentali di un Marco Polo.
Come si è visto, la storia di eventi catastrofici e l’analisi del dibattito intellettuale da essi innescato può portare lo storico ad aprire squarci su aspetti ancora inespressi della storia del pensiero. Ricostruendo le tappe del dibattito settecentesco su fenomeni di natura distruttiva come i terremoti, Girolamo Imbruglia (Istituto Universitario Orientale, Napoli) ha richiamato l’attenzione su alcune linee di riflessione elaborate dai philosophes settecenteschi in merito a eventi naturali di carattere catastrofico10.
Avendo sotto gli occhi il disastro del terremoto di Lisbona del 1755, i grandi animatori della vita intellettuale settecentesca, da Parigi a Londra, da Napoli al lontano New England, inserirono le proprie riflessioni sull’origine di tali eventi all’interno di un dibattito più generale: fenomeni così devastanti e causa di sì grandi patimenti ponevano seri interrogativi sul rapporto tra creatore e creato e sul carattere razionale del mondo naturale. Terremoti devastanti come quello di Lisbona erano da attribuire a cause sensibili precise o casuali oppure avevano spiegazioni sovrannaturali determinate da una ragione superiore? In questo ultimo caso si trattava di una ragione diabolica o divina?
Nel solco delle nuove prospettive aperte dalle scienze empiriche e dall’accento posto in particolare da Newton sull’osservazione diretta della natura, Doolittle, Lyell, Hamilton, Goudar, Diderot, Rousseau, Voltaire, Boulanger, Goethe e Spinoza furono impegnati in riflessioni intellettuali dalle forti implicazioni religiose, rielaborando ognuno il problematico rapporto tra la componente naturale e sovrannaturale, tra divino e umano. Accadimenti di siffatta intensità rappresentarono agli occhi dei pensatori settecenteschi una rottura nella continuità della natura: gli aspetti calamitosi e devastanti fecero esplodere le contraddizioni esistenti tra spiegazioni naturali empiriche e Dio visto come principio razionale tanto da portare taluni, Voltaire e Rousseau in primis, a elaborare argomenti a favore dell’ateismo.
La ricostruzione dell’orizzonte culturale in cui tali discussioni presero corpo ha permesso a Imbruglia di addentrarsi tra le pieghe della storia intellettuale del periodo illuminista che venne articolandosi anche tra le riflessioni sulla sofferenza e sulla distruzione delle forze della natura.
L’intervento di Imbruglia ha mostrato come momenti di rottura e di eccezionalità possano talvolta indicare la via per interrogarsi su aspetti dei tempi più remoti tralasciati da precedenti ricerche.
Se eventi catastrofici possono aprire degli spiragli suggestivi sulla storia intellettuale, allo storico risulta più difficile addentrarvisi quando, più vicino nel tempo, il velo del silenzio o della deformazione ideologica venga calato per precisi fini politici.
Niccolò Pianciola (Università di Trento) ha rilevato una tale situazione nello studio comparato della storiografia riguardante le carestie ucraina e kazaca del Novecento11. In entrambi i casi fu il potere centrale di Mosca a imporre il silenzio su una catastrofe umana, se non causata comunque sfruttata per soffocare la resistenza locale in un caso e per costringere la popolazione contadina a piegarsi alla politica centralizzata del governo staliniano nell’altro. Per quanto riguarda le vicende ucraine e kazake, il problema delle fonti disponibili si impone con particolare evidenza: l’isolamento dietro la cortina di ferro, i massicci processi di acculturazione alla dottrina di partito, l’assenza di una memoria condivisa hanno reso difficile ricostruire al di là delle nude cifre l’impatto effettivo della tragedia sulle popolazioni coinvolte. La mancanza di studi tesi a considerare in una prospettiva comune le due carestie, inoltre, ha finora impedito un’analisi più puntuale sul significato storico degli eventi. Secondo quanto esposto da Pianciola, sebbene dopo il 1980 si sia registrata una maggiore apertura della ricerca storica nei confronti della storia orale nel tentativo di superare i limiti imposti dalla documentazione ufficiale, solo recentemente reperibile negli archivi dell’ex URSS, tale tendenza non è minimamente paragonabile all’interesse suscitato da altri avvenimenti di natura traumatica ritenuti più cruciali per la storia russa, in particolare la Seconda guerra mondiale, le epurazioni staliniane e l’esperienza dei gulag. Su tale situazione hanno influito da una parte le resistenze degli intellettuali e la distanza dell’intellighenzia dalle popolazioni locali colpite dalla carestia, anche a causa di barriere linguistiche persistenti, dall’altra il proliferare di narrazioni con intenti nazionalistici che si sono appropriate dell’evento (attraverso una sorta di “nazionalizzazione della carestia”), sottolineandone l’eccezionalità all’interno delle rispettive storie nazionali.
Benché non manchino studiosi impegnati nell’affrontare la questione secondo i parametri della professione storica, la posizione della ricerca professionale risulta ancora problematica. Accanto ai già citati limiti imposti dal reperimento delle fonti, le difficoltà per gli storici sorgono dal doversi confrontare con la moltiplicazione di discorsi pubblici in cui le vicende ucraine e kazake vengono fatte rientrare in una più ampia cornice politica: sfruttando l’immagine del genocidio, la carestia acquista nella sfera pubblica una forte valenza per la causa dell’indipendenza nazionale al di là della comprensione storica degli avvenimenti.
Una testimonianza ricca di suggestioni e aneddoti interessanti per chi si occupa di ricerca storica è stata fornita da Jon Halliday. Autore di una discussa biografia su Mao, Halliday si è soffermato sui silenzi, intenzionali e non, incontrati durante il suo lavoro d’indagine sul leader cinese12. Nel ripercorrere le diverse fasi di un lavoro che lo portò a intervistare i testimoni sopravvissuti e a immergersi tra le fonti sparpagliate tra Russia, Albania, Bulgaria e Inghilterra, Halliday ha ricostruito il percorso di individuazione di molti punti oscuri nelle biografie ufficiali. In aperta contraddizione con la versione diffusa dagli storici del Partito, Halliday ha rivisto alcuni tratti essenziali della figura di Mao: il suo rapporto con Mosca, con la dottrina comunista e con i contadini cinesi, il suo ruolo nella Lunga Marcia e la gestione del potere dopo la guerra di Corea, sono alcuni degli aspetti che la ricerca documentaria ha permesso di leggere diversamente rispetto alla storia ufficiale determinata a presentare Mao secondo un’immagine rispondente all’ideologia dominante e a farne un mito nazionale in cui la popolazione si riconoscesse. Sebbene l’interpretazione fornita da Halliday non sia stata immune da critiche anche accese, la sua ponderosa ricerca ha messo a nudo molti dei nodi irrisolti e delle ambiguità che ancora permangono sul ruolo e sulla figura di uno dei leader mondiali del Novecento. Condividendo le proprie traversie come ricercatore, Halliday ha mostrato con lucidità e franchezza come la situazione politica agisca sulle omissioni, sui silenzi, sulla selezione del passato; dalla sua decennale esperienza di ricerca è emerso come il lavoro dello storico si faccia tanto più controverso quanto più tenda ad avvicinarsi a questioni e argomenti tali da coinvolgere interessi che travalicano i confini delle scienze storiche e toccano direttamente la sfera della politica e della memoria.
La complessità che lega queste dimensioni diventa maggiormente evidente qualora siano strutture governative a promuovere la commemorazione di eventi particolarmente tragici o traumatici. In questo caso l’agenda politica si fa carico di istituire rappresentazioni di memoria collettiva con fini essenzialmente pedagogici. Riferendosi al memoriale per le 6 settimane tra il 1937 e il 1938 in cui si svolse il cosiddetto massacro di Nanchino, Q. Edward Wang (Rowan University, Glassboro-Peking University, Peking) ha ricostruito la storia dell’istituzione del Memorial Hall per volere del governo cinese13. La creazione del sito, che risale al 1985, va collocata nel panorama delle difficili relazioni diplomatiche tra Cina e Giappone: già il titolo ufficiale del complesso (“Memorial Hall of the victims in Nanjing massacre by Japanes invaders”) pose l’operazione su un piano fortemente polemico nei confronti delle responsabilità dei giapponesi invasori, secondo la visione del principale committente, il Dipartimento della Propaganda del Partito Comunista Cinese. Anche i modelli a cui il sito di Nanchino venne ispirato diedero un’impronta ben precisa all’interpretazione che le autorità intendevano comunicare: prendendo a esempio i vari musei dell’Olocausto sparsi per il mondo, insieme a quelli di Hiroshima e Nagasaki, la versione dei tragici fatti occorsi in quelle 6 settimane fu quella consacrata in seguito dal controverso best-seller The Rape of Nanking. The Forgotten Holocaust of World War II14. La preoccupazione dei curatori del museo fu quella di ricreare la dimensione traumatica dell’invasione giapponese per mezzo di un impianto iconografico suggestivo che, attraverso suoni e immagini, comunicasse al visitatore l’entità della tragedia e le sofferenze delle vittime cinesi.
Nel corso degli anni ’90, con successive opere di ampliamento e di revisione, l’impronta politica iniziale risultò ridimensionata grazie anche al maggior coinvolgimento di storici di professione di tendenza revisionista e agli sforzi di moltiplicare i punti di vista attraverso l’inserimento di testimonianze non cinesi. Malgrado queste tendenze, opere di rinnovamento del Memorial Hall effettuate nel 2007 non hanno contribuito a dissipare le critiche di propaganda nazionalista, avanzate nei confronti dell’operazione soprattutto dal governo giapponese. Il fatto che le discussioni siano ancora molto vive sia a livello pubblico sia a livello storiografico, unito al successo di visitatori con una consistente preponderanza proprio tra i giapponesi, è indice dell’attualità della questione delle rappresentazioni di episodi dolorosi e del ruolo che a tale riguardo gli storici di professione possono svolgere nei confronti di un realismo storico forte dal punto di vista dell’impatto emotivo ma debole per quel che concerne i criteri di accuratezza storiografica. Si tratta di preoccupazioni che circondano simili operazioni e che in Cina ricoprono una particolare rilevanza pubblica, considerata l’attenzione e le critiche suscitate dal progetto di Pechino di dedicare nella capitale un museo al Tibet in vista delle Olimpiadi.
Riportando lo sguardo sul lavoro degli storici di professione, Carol Gluck (Columbia University, New York) ha offerto ulteriori sollecitazioni. In parte riprendendo spunti presenti nell’intervento di Wang, da un’altra prospettiva l’intervento conclusivo di Carol Gluck ha messo a fuoco un problema che a più riprese era emerso dalle discussioni delle due giornate vercellesi: quanto possa ripercuotersi negativamente sui risultati della ricerca storiografica lasciare che esperienze particolarmente sofferte siano rese in forme narrative da altri soggetti, dai poeti ai romanzieri, dai memorialisti agli artisti ai cineasti, ritenuti più efficaci dal punto di vista comunicativo. Di fronte alla crescente richiesta di radici e alle semplificazioni in cui spesso si risolve il culto della memoria nel discorso pubblico, gli storici si trovano di fronte a nuove sfide se intendono salvaguardare il senso della complessità del passato e al contempo comunicare l’unicità di ogni esperienza umana. Da questo punto di vista, alla ricerca storica s’impone un rapporto più complesso e costruttivo (e, si può affermare, interattivo) con temi che coinvolgono gli spazi della memoria: prestando attenzione alle facili sovrapposizioni, rispetto alla definizione avanzata a suo tempo da Halbwachs, secondo cui «la storia comincia là dove finisce la memoria», non sembra che un maggior e più aperto dialogo tra queste due dimensioni debba risultare dannoso alla professione storica e ciò vale tanto per le epoche remote quanto per quelle più recenti in cui maggiormente si avverte il dolore di cicatrici non ancora rimarginate.
Partendo dall’esame della recente storiografia statunitense e giapponese riguardante la bomba atomica, Carol Gluck ha notato come non si siano prodotti risultati innovativi al di là del tradizionale campo della storia militare15. La situazione così come viene presentata appare sconcertante se confrontata con gli esiti conseguiti dagli studiosi dei bombardamenti aerei delle città europee durante la Seconda guerra mondiale: in questo caso gli storici si sono concentrati maggiormente sulla storia locale e su studi di microstoria che hanno permesso di recuperare le singole vicende individuali spesso in contrasto con la storia della liberazione16. Perché al contrario la storiografia sulla bomba atomica mostra segni di staticità e di ripetitività? Le risposte ipotizzate dalla Gluck sono state molteplici: da quelle di natura geopolitica (considerata la moltiplicazione di potenze nucleari dopo la fine della Guerra fredda) a quelle di diritto internazionale (vista la mancanza di norme e sanzioni specifiche relative agli attacchi atomici) a quelle legate alla memoria collettiva, per cui l’immagine dell’evento tanto in USA quanto in Giappone non è stata sottoposta allo stesso complesso processo di elaborazione critica (e di distinzione dalle implicazioni morali) che la storia dei bombardamenti delle città europee ha invece conosciuto.
Concludendo il suo intervento con l’auspicio di una maggior comunicazione tra la memoria individuale e la storia degli storici, Carol Gluck ha insistito su come gli storici debbano prendere atto che non ci sia nulla che non possa essere storicizzato e ricomposto in narrazione; piuttosto, finora sono state le modalità metodologiche ed espressive a risultare insoddisfacenti e inadeguate a misurarsi con eventi tragici come furono gli attacchi atomici. Pertanto, una maggior riflessione critica da parte degli storici sulle capacità di espressione della propria disciplina è non solo desiderabile ma necessaria, se si vuole evitare che il pubblico soddisfi le proprie curiosità o il proprio bisogno di memoria attraverso altri generi di narrazione.
Tra le molteplici suggestioni emerse dalla sessione conclusiva, una in particolare è forse adatta a riassumere il significato complessivo del convegno vercellese. In fondo, le narrazioni basate sull’orrore, sulla tragedia, sulla sofferenza sembrano essere ancora le più potenti nello stimolare l’interesse dei lettori così che pare attuale la definizione gibboniana della storia come racconto dei «crimini, delle follie e delle disgrazie del genere umano». Interrogarsi sulle ragioni di tale situazione e sul disagio degli storici nell’affrontare la sempre più pressante domanda di memoria condivisa non sembra essere un’operazione retorica né tanto meno può esaurirsi in una ricerca mediaticamente accattivante ma poco significativa dal lato scientifico.
Come le relazioni del convegno vercellese hanno messo in evidenza, pur da ottiche e ambiti disciplinari tanto diversi, all’attenzione per il tema dell’identità si accompagnano, tanto negli Stati Uniti quanto nell’Estremo Oriente passando per i paesi europei e quelli asiatici, le memorie uniche e irripetibili per il singolo individuo e per ciascuna comunità. Il fatto che gli studiosi di professione storicizzino tali temi e si confrontino al di là delle barriere geografiche e disciplinari non può che contribuire a rendere afferrabili e comprensibili alcuni degli aspetti più aberranti e dolorosi che pur fanno parte dell’orizzonte umano e che, proprio per questo, lo storico non può considerare con approssimazione né tanto meno delegare ad altri.




NOTE
1 Sulle questioni sollevate da Friedlander sui limiti della rappresentazione, si veda il volume contenente alcune delle relazioni al convegno tenutosi presso la University of California di Los Angeles nel 1990: Probing the Limits of Representation: Nazism and the "Final Solution", ed. S. Friedlander, Cambridge-London, Harvard University Press, 1992.^
2 È la definizione data da Hannah Arendt nel suo La banalità del male in relazione alla natura mostruosa dei fatti emersi durante il processo Eichmann.^
3 E. Runia, Presence, «History and Theory», 45 (2006), pp. 1-29. Per una discussione dei problemi sollevati da Runia e dalla sua interpretazione in chiave metonimica delle rappresentazioni storiche, si veda: P.M. Ahlbäck, The Reader! The Reader! The Mimetic Challenge of Addressivity and Response in Historical Writing, in «Storia della Storiografia», 52 (2007), pp. 31-48.^
4 E. Auerbach, Mimesis: il realismo nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 2000 (ed. orig. 1948).^
5 «Suffering is permanent, oscure and dark / And shares the nature of infinity». Il verso si trova in The White Doe of Rylstone or, the Fate of the Nortons.^
6 J. Goody, The Theft of History, Cambridge et al.: Cambridge University Press, 2006 (trad. it. Il furto della storia: ripensando l’eccezionalità dell’Occidente, Milano, Feltrinelli, 2008).^
7 Su questi temi Monika Baar ha in preparazione il volume Historians and the Nation in the Nineteenth Century: the Case of East-Central Europe (Oxford University Press). Tra le altre sue pubblicazioni, si segnalano: «Grenzen in nationalen Historiographien», in Grenzregionen. Ein europäischer Vergleich vom 18. bis zum 20. Jahrhundert, eds. Ch. Duhamelle, A. Kossert, B. Struck, Frankfurt: Campus Verlag, 2007, pp. 77-98; edizione e introduzione alla traduzione italiana di Malwida von Meysenbug, Memoiren einer Idealistin. Il mio Quarantotto. Emancipazione e libero pensiero dalle ‘Memorie di una idealista’, a cura di Monika Baar, trad. Chiara De Bastiani, Editione Spartaco series, 178, 2006; «Academic Competitions in National History», in Institutions, Networks and Communities of National History: Comparative Approaches, eds. I. Porciani and J. Tollebeeck, Palgrave Macmillan, di prossima pubblicazione.^
8 Nicola Di Cosmo è dal 2003 “Henry Luce Foundation Professor of East Asian Studies” a Princeton e si occupa di storia culturale, politica e militare cinese dal periodo preistorico all’età moderna, con particolare attenzione per le popolazioni nomadiche. Tra le sue recenti pubblicazioni, si ricordano: Ancient China and Its Enemies: The Rise of Nomadic Powers in East Asian History, Cambridge, CUP, 2002; Manchu-Mongol relations on the eve of the Qing conquest: a documentary history, Leiden-Boston, Brill Academic Publishers, 2003; The Diary of a Manchu Soldier in Seventeenth-Century China, London-New York, Routledge, 2006.^
9 Per questi aspetti nella storiografia cinese, si veda il volume Political frontiers, ethnic boundaries, and human geographies in Chinese history, eds. N. Di Cosmo and D.J. Wyatt, London-New York, Routledge, 2003.^
10 Pare superfluo stilare qui un elenco delle pubblicazioni di Girolamo Imbruglia, noto esperto di storia dell’Illuminismo. Ci limitiamo a segnalarne alcune tra le più recenti: Naples in the eighteenth century: the birth and death of a Nation state, ed. G. Imbruglia, Cambridge, Cambridge University Press, 2000; Dopo Rousseau. Il problema della tolleranza nella Histoire des deux indes di Raynal e Diderot, in La formazione storica dell'alterità. Studi di storia della tolleranza nell'età moderna offerti ad Antonio Rotondò, eds. Mechoulan, Popkin, Ricuperati, Simonutti, vol. III, Firenze, Olschki, 2001, pp. 1009-1046; Illuminismo e storicismo nella storiografia italiana, in appendice il carteggio Venturi-Cantimori dal 1945 al 1955, Napoli, Bibliopolis, 2003; Illuminismo e religione. Il Dei delitti e delle pene e la difesa dei Verri dinanzi alla censura inquisitoriale, in «Studi Settecenteschi», 25-26 (2005-2006), pp. 119-162.^
11 Storico dell’Europa Orientale, Niccolò Pianciola è docente a contratto all’Università di Trento. Tra le sue pubblicazioni, si vedano: Stalinismo di frontiera. Colonizzazione agricola, sterminio dei nomadi e costruzione statale in Asia Centrale (1905-1936), Rome, Viella (in corso di stampa); in co-authorship with P. Sartori, Waqf in Turkestan: The Colonial Legacy and The Fate of an Islamic Institution in Early Soviet Central Asia (1917-1924), in «Central Asian Survey», 26 (2007), pp. 475-498; L’Europa degli spostamenti forzati di popolazione, 1912-1953, in Le lettere aperte. 1939-43: l'Alto Adige delle Opzioni, eds. Christoph von Hartungen, Fabrizio Miori, Tiziano Rosani, vol.1, Bolzano, La Fabbrica del Tempo, 2006, pp. 19-44; Famine in the Steppe. The Collectivization of Agriculture and the Kazak Herdsmen, 1928-1934, in «Cahiers du monde russe», 45 (2004), pp. 137-192.^
12 Scritto a quattro mani con la moglie Jung Chan, Mao: The Unknown Story (trad. it. Mao: la storia sconosciuta, Milano, Longanesi, 2006) è uscito nel 2005 per i tipi di Jonathan Cape, suscitando giudizi contrastanti tra la comunità accademica occidentale e cinese. Di J. Halliday, si segnalano: Japanese imperialism today: co-prosperity in greater East Asia, Harmondsworth, Penguin, 1973 (trad. it. Imperialismo giapponese, Torino, G. Einaudi, 1975); The Artful Albanian: Memoirs of Enver Hoxha, ed. J. Halliday, London, Chatto & Windus 1986; Korea: The Unknown War, with Bruce Cumings, London, Viking 1988.^
13 Il luogo commemorativo di Nanchino è virtualmente visitabile all’indirizzo web http://www.nj1937.org/english/default.asp. Il sito offre informazioni storiche sugli eventi (di cui, però, non vengono forniti riferimenti documentari né supporto bibliografico) e sulle diverse fasi di costituzione del complesso. Tra le recenti pubblicazioni di Wang, si vedano:The Many Faces of Clio. Cross-cultural Approaches to Historiography, Essays in Honor of Georg G. Iggers, eds. Q.E. Wang and F.L. Fillafer, New York-Oxford, Berhahn Books, 2007; Mirroring the Past: The Writing and Use of History in Imperial China, co-authored with On-cho Ng, Honolulu: University of Hawai’i Press, 2005; Inventing China through History: the May Fourth Approach to Historiography, Albany, State University of New York Press, 2001.^
14 I. Chang, The Rape of Nanking. The Forgotten Holocaust of World War II, Basic Books, 1997. Il libro scatenò accese discussioni tanto a livello pubblico quanto a livello accademico, negli Stati Uniti e in Giappone, soprattutto per la presentazione degli orrori dell’invasione giapponese senza il supporto di precise basi documentarie. Sulla scia del successo di pubblico registrato dal libro della Chang, un cospicuo numero di pubblicazioni, accademiche e non, è stato dedicato agli eventi di Nanchino.^
15 C. Gluck si occupa di storia giapponese tra Ottocento e Novecento; i suoi interessi spaziano dalle relazioni internazionali alla storiografia e alla memoria tra Est e Ovest. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Asia in Western and World History: A Guide for Teaching, co-edited with Ainslie Embree, Armonk, N.Y.-London, Sharpe, 1997; Operations of Memory: The 'Comfort Women' and the World, in Ruptured Histories: War, Memory, and the Post-Cold War in Asia, eds. Jager and Mitter, Cambridge, Mass.-London, Harvard University Press, 2007; Thinking with the Past: Japan and Modern History, Berkeley: University of California Press, 2008; Past Obsessions: World War Two in History and Memory, forthcoming.^
16 Si veda l’esempio citato dalla Gluck per l’Italia: G. Gribaudi, Guerra totale: tra bombe alleate e violenze naziste: Napoli e il fronte meridionale, 1940-44, Torino, Bollati Boringhieri, 2005.^
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