Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno X - n. 1 > Saggi > Pag. 16
 
 
Quale e quanta energia: problemi internazionali e questione nazionale
di Giuseppe Bianchi
1 La situazione energetica mondiale.

La domanda di energia – Il soddisfacimento dei bisogni di energia è fonte di grande preoccupazione a livello mondiale, sia per la situazione economica e ambientale attuale, sia, e in misura maggiore, per la prospettiva che si apre nel medio lungo periodo.
L’andamento futuro della domanda delle fonti energetiche primarie è certamente correlato alla crescita prevista della popolazione mondiale ed alle previste modificazioni del consumo pro capite. Assumendo l’odierno indice medio di crescita pari all’1% l’anno, si passerebbe dai 6,4 miliardi di abitanti attuali della terra, ai 16,6 miliardi nel 2100. Tenendo però conto di una probabile riduzione di tale indice (tra il 1980 ed il 2004 esso è sceso dall’1,7% all’1,1%) il numero più attendibile di abitanti della terra al 2100 potrebbe attestarsi attorno ai 12 miliardi.
Il consumo pro capite di energia primaria oggi risulta attorno a 1,7 tonnellate equivalenti di petrolio/anno (TEP/anno). La cifra riguarda il complesso dell’energia primaria utilizzata per la totalità delle attività umane: produzione elettrica, industria, agricoltura, servizi, trasporti, e tutti gli altri usi diversificati. Quello riportato è un valore medio mondiale, ma esso varia molto a secondo dello sviluppo delle varie aree del pianeta. La media OCSE è 4,7 (negli USA circa 8, in Europa circa 3) mentre quella dell’Asia e dell’Africa è vicina a 0,7. Una stima, peraltro ottimistica, prevede che la domanda media mondiale pro capite a fine secolo sia pari a 2,2 TEP/anno. A tale valore si giunge tenendo conto sia di un aumento dei consumi da parte delle popolazioni del terzo mondo (già oggi in crescita esponenziale), sia di una forte contrazione dei consumi nell’area industrializzata, a seguito di molto pronunciate politiche di risparmio energetico dichiarate dai paesi sviluppati (in base a questa ipotesi la domanda pro capite nell’OCSE scenderebbe circa di un fattore 2 e in particolare negli USA di un fattore 3-4)1.
Incrociando l’aumento degli abitanti con il previsto aumento di consumo energetico pro capite si passa da un consumo attuale di 10,88 (1,7 x 6,4) a 26,4 (2,2 x 12) miliardi di TEP/anno.
Cioè, anche mettendo in conto una robusta, quanto dubbia, azione di risparmio da parte dei paesi industrializzati, i consumi dovrebbero più che raddoppiare a fine secolo. Nel più breve periodo, dal 2004 al 2030, le previsioni sono ancora più allarmanti. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia i consumi mondiali di energia sono previsti aumentare del 57% come media di valori ancora una volta molto diversificati: OCSE + 24%; non OCSE + 95%; USA +13% ; Cina +235 %.
La disponibilità di fonti fossili – Pur accettando comunque le stime ottimistiche di fine secolo, appare più che giustificato l’allarme sulla capacità delle attuali fonti energetiche disponibili, rappresentate per circa l’80% dalle fonti fossili, di sostenere questo incremento della domanda di energia. Le previsioni indicano un sensibile declino della disponibilità di petrolio e gas entro questo secolo e del carbone in quello successivo. Molti esperti affermano che può essere ancora consistente il numero e le capacità di nuovi giacimenti di petrolio da sfruttare. Ma occorre realisticamente considerare che lo sviluppo delle tecnologie di produzione per attivare nuovi e più difficili giacimenti di petrolio e gas richiede investimenti che possono anche risultare non convenienti. L'esempio più classico è quello del petrolio per il quale la resa di un giacimento in termini di rapporto tra energia resa e energia necessaria per ottenerla è andata progressivamente diminuendo. Agli inizi dell'era petrolifera questo rapporto era ovviamente molto favorevole, con un valore di circa 100: l’energia impiegata per estrarre 100 barili di petrolio era pari ad 1 solo barile. Andando avanti con gli anni si è passati allo sfruttamento di giacimenti via via più isolati, piccoli e difficili da raggiungere, tutte circostanze che contribuiscono a diminuire l’indice di convenienza. Quando questo indice diventasse pari ad 1 o minore di 1 non sarebbe più conveniente estrarlo perché l’operazione diventerebbe svantaggiosa energeticamente ed economicamente (salvo sussidi). È per questa ragione che molti studiosi hanno ipotizzato che l’umanità non consumerà la totalità del petrolio disponibile nel sottosuolo, ma una quantità considerevole resterà comunque intatta perché l’industria petrolifera non avrà l’interesse economico ed energetico ad estrarlo, almeno per quanto riguarda i suoi impieghi tradizionali come combustibile. Il problema va valutato inoltre tenendo conto dei tempi di sviluppo di tecnologie di sfruttamento più efficienti nell’estrazione del petrolio dai nuovi giacimenti, in rapporto alla velocità di crescita della domanda di energia, che per paesi in forte sviluppo economico come Cina e India (ma non solo), rappresenta oramai un dato certo e impressionante.
Il mercato delle fonti fossili – Lo squilibrio tra offerta e domanda di fonti fossili si farà critico anche indipendentemente dalla reale disponibilità teorica delle fonti stesse. Gli effetti di tale squilibrio e cioè, tensioni sui prezzi di petrolio e gas e crisi dell’economia mondiale, non sono più materia di ipotesi ma di semplice constatazione della situazione in atto.
Se questa tendenza verso una crisi energetica mondiale in assenza di alternative alle fonti fossili appare generalmente da tutti accettata, da parte di alcune autorevoli istituzioni si tende ad attribuire la causa della grande attuale volatilità dei prezzi mondiali del petrolio, e conseguentemente del gas, a fattori speculativi legati al mercato dei contratti futures2 più che ad una reale insufficienza dell’offerta rispetto alla domanda.
In realtà il prezzo del petrolio è sapientemente regolato dall’Opec: se c’è un calo della domanda (ad es. per recessione) o minaccia di riduzione della domanda (ad es. per vasti programmi mondiali di sostituzione del petrolio con energie alternative) il prezzo del petrolio viene fatto scendere, o almeno si tenta, anche se non tutti i paesi Opec rispettano i tagli di produzione programmati.
Non si può certo escludere che la speculazione abbia un ruolo, anche importante nelle attuali difficoltà del mercato; ma la soluzione prospettata, e cioè la creazione di un cartello della domanda che dialoghi e negozi con il cartello dell’offerta una stabilizzazione del prezzo dei combustibili fossili, presupporrebbe la soluzione di un altro e ben maggiore problema: una più completa ed ampia concertazione mondiale dell’economia. E si intuisce subito quanto tutto ciò sia oggi politicamente arduo.
In ogni caso deriva dall’analisi della situazione la necessità, non eludibile, per i paesi sviluppati, di ridurre i consumi di fonti fossili e, se non si vuole deprimere lo sviluppo economico, di sostituirle con altre fonti (rinnovabili e nucleare).
La sicurezza di approvvigionamento – Esiste un secondo e non meno impegnativo motivo per ridurre i consumi di combustibili fossili: la distribuzione geografica delle fonti e l’uso politico che può essere fatto della loro disponibilità da parte dei paesi detentori nei confronti dei paesi che ne sono dipendenti. Si tratta di un problema, storicamente discusso come causa acuta di rischio per il nostro paese, e segnalato come tale nell’ultimo Piano Energetico Nazionale, che, lungi dall’attenuarsi, si è notevolmente accresciuto.
Non è solo l’Italia a confrontarsi in maniera drammatica con questo problema. Anche se da alcuni non lo si ammette, i rapporti conflittuali tra Occidente e Paesi arabi del Medio Oriente hanno la loro radice profonda nel controllo della fonte petrolio particolarmente disponibile in questa area geografica. Altrettanto drammatica è la situazione dell’Europa nei confronti della disponibilità di gas naturale proveniente dai giacimenti della Russia. In questo caso il problema è aggravato non solo dal potere di condizionamento politico da parte del paese che controlla i giacimenti, ma anche da quello dei paesi che possono interferire nella rete di trasporto del gas. Negli anni scorsi si è avuta una prova concreta della attualità di tale rischio ed è reale la preoccupazione per potenziali difficoltà di rifornimento di gas russo all’Europa connesse alla crisi politico militare della Georgia.
Dal punto di vista della sicurezza degli approvvigionamenti delle fonti fossili la situazione appare diversa per le tre fonti: petrolio, gas naturale, carbone.
Per il petrolio la soluzione politicamente adottata, o quanto meno auspicata, dai paesi dell’OCSE è stata la creazione e il mantenimento di scorte nazionali strategiche per disporre dei margini di tempo necessari per il componimento di eventuali crisi nei rapporti con i paesi fornitori. Si tratta evidentemente di soluzioni di ripiego che non possono garantire risultati negoziali comunque positivi, anzi….
Per il gas naturale al problema della disponibilità, comunque attenuato per il petrolio dalla multilateralità di rapporto tra compratore e venditore, si aggiunge, come già detto, la ulteriore criticità del legame bilaterale tra produttore e consumatore rappresentato dall’unicità della rete di trasporto. La soluzione per ridurre quest’ultimo problema è il trasporto del gas liquefatto con navi metaniere e la creazione di depositi costieri rappresentati dai gassificatori, che peraltro può attenuare ma non risolvere le difficoltà potenziali (esiste inoltre un costo aggiuntivo per questa tecnologia come anche per lo stoccaggio a titolo di riserva del gas importato in giacimenti nazionali).
Per il carbone la situazione si presenta con caratteristiche più positive. La sua disponibilità in termini di risorse planetarie è molto più consistente rispetto a petrolio e gas. Inoltre i giacimenti sono distribuiti in modo più uniforme e non c’è in genere coincidenza di dipendenza geografica e quindi politica rispetto alle altre due fonti fossili. Come conseguenza di queste condizioni il prezzo del carbone è più contenuto e più stabile, anche se recentemente ha risentito delle fluttuazioni del prezzo del petrolio. Esistono peraltro condizioni ambientali e minori possibilità di utilizzo (allo stato attuale, ridotto alla alimentazione di centrali elettriche) che rendono tale fonte meno appetibile. Tuttavia le tecnologie più moderne – di cui si parla lungamente più avanti – possono oggi consentire di “catturare e sequestrare” la CO2 prodotta dalle centrali a carbone e offrire quindi nuove prospettive.
La panoramica sulla disponibilità delle fonti fossili e sulla sicurezza del loro approvvigionamento, anche indipendentemente dai prezzi, rende chiaro il rischio di mantenere inalterato il tasso attuale del loro utilizzo per il soddisfacimento della domanda globale di energia.
Gli idrati di metano – Non si può mancare di fare un cenno nel quadro descritto, ad una prospettiva che sul lungo periodo potrebbe potenzialmente attenuare le preoccupazioni, almeno sulla consistenza fisica delle risorse di metano. Stiamo parlando degli idrati di gas naturale: composti solidi formati da acqua e gas (prevalentemente metano), simili all’apparenza a ghiaccio secco. Si stima che negli oceani vi siano circa 60.000 milioni di miliardi di metri cubi di idrati di gas, da cui, potenzialmente si potrebbe ottenere metano pari ad oltre 100 volte le riserve stimate di metano.
Gli idrati di gas naturale (o gas idrati) sono diffusi in vaste aree del pianeta. Prevalentemente si formano in condizioni di bassa temperatura ed elevata pressione tipiche dei fondali oceanici; ma sono presenti anche in aree continentali polari e sub-polari. Sono il risultato della decomposizione di materiale organico ad opera dei microrganismi presenti nei sedimenti, processo che determina la formazione di metano. In condizioni di temperature particolarmente basse e di pressioni elevate – parametri che si verificano appunto nei fondali marini o nelle zone ricoperte da suolo ghiacciato – le molecole di metano restano intrappolate nel ghiaccio originando i gas idrati.
I principali giacimenti di gas idrati si trovano lungo i margini di praticamente tutte le piattaforme oceaniche, a profondità compresa tra 500 e 4000 metri, con spessori anche di centinaia di metri. L’eventuale sfruttamento commerciale di questo tesoro nascosto in fondo al mare è tutt’altro che semplice. I problemi sono dovuti non solo all’ambiente marino e alla profondità dei depositi, ma soprattutto alla difficoltà di gestire il metano presente per portarlo in superficie. I gas idrati, infatti, sono di natura metastabile: se si modificano le condizioni ambientali di temperatura e pressione passano con rapidità dallo stato solido a quello gassoso, dissociandosi violentemente nei due componenti acqua e metano.
Il problema è attualmente oggetto di ricerche in numerosi paesi, con particolare attenzione in Giappone, Canada, USA e Norvegia. Anche l’Italia sta compiendo ricerche, grazie soprattutto all’attività dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica sperimentale (OGS) che da circa dieci anni si occupa dello sviluppo di metodi geofisici finalizzati ad individuare e quantificare la presenza di gas idrati. Le ricerche vengono effettuate in numerose aree oceaniche, compreso l’Antartide, ove proprio i ricercatori dell’OGS hanno recentemente scoperto il primo campo di gas idrati del continente.
Per quanto concerne la concreta possibilità di recuperare questo metano e poterlo considerare una riserva energetica per il futuro, si stanno per ora muovendo i primi passi e non vi sono ancora soluzioni ipotizzabili nel breve termine, anche se le problematiche tecnologiche da risolvere non appaiono proibitive.
A parte il grande potenziale di energia disponibile, il maggior incentivo per la ricerca degli eventuali giacimenti sfruttabili di gas idrati è rappresentato dalla già richiamata loro diffusa collocazione geografica, che li rende particolarmente appetibili in un momento in cui, nel mercato internazionale dell’energia è crescente la variabile geopolitica.
La minaccia di cambiamento del clima – Pur tenendo conto di questa prospettiva che attenua le preoccupazioni sulla disponibilità di risorse energetiche fossili, il motivo forse più incombente che impone il contenimento del ricorso ad esse, è rappresentato dalle emissioni della CO2 nell’atmosfera determinate dal loro utilizzo. Com’è noto, tali emissioni sono responsabili dell’effetto serra (indiscusso) e dei cambiamenti climatici (da alcuni non considerati inesorabili) che peraltro sono già in atto. Si tratta di un problema forse ancora non avvertito nella sua reale portata, ma la cui gravità è forse anche più elevata della crisi economica mondiale legata alla progressiva indisponibilità delle fonti fossili.
La risorsa dei gas idrati, cui si è fatto cenno, non rappresenta solo aspetti positivi ma anche una minaccia seria dal punto di vista ambientale e climatico. Essendo infatti i gas idrati molto sensibili a variazioni di temperatura e pressione, eventi quali il sensibile innalzamento della temperatura dell’acqua marina – dovuta a qualsivoglia ragione – potrebbe innescare la loro parziale dissociazione, con rilascio di grandi quantità di metano nel mare prima, e in atmosfera, poi. Le conseguenze potrebbero essere rilevanti, visto che il potenziale di effetto serra del metano è da circa venti a trenta volte superiore rispetto a quello dell’anidride carbonica. Inoltre il passaggio dalla fase solida a quella gassosa del metano giacente all’interno dei sedimenti, può diminuire la resistenza meccanica dei sedimenti stessi, generando potenziali instabilità dei versanti sottomarini.
Limitando comunque la riflessione agli effetti delle emissioni di CO2 nell’atmosfera è opportuno segnalare che, quando si parla del legame tra consumi di energia e questo tipo di emissioni, generalmente si pensa alle centrali termoelettriche e all’utilizzo dei combustibili nei mezzi di trasporto. In realtà l’energia è una componente più o meno totalizzante di tutti i beni e servizi utilizzati dall’uomo per la sua vita normale. Ad esempio in una pagnotta di pane è incorporata l’energia necessaria per preparare il terreno di coltura e quindi effettuare la semina; procedere al raccolto del grano; produrre la farina e provvedere all’impasto; cuocere nel forno il pane; trasportarlo fino al posto del suo consumo finale. Se questa energia è ricavata prevalentemente da fonti fossili (com’è la situazione attuale), il consumo di una pagnotta di pane comporta una quota di emissioni di CO2 nell’atmosfera. La stessa considerazione può essere fatta per l’acquisto di un abito nuovo, e si consideri “rifiuto” l’abito vecchio, che a sua volta per essere smaltito richiede consumi aggiuntivi di energia.
Da questo punto di vista più è alto il tenore di vita di un paese, maggiore è il suo contributo alle emissioni. Se permane l’attuale tasso di dipendenza dalle fonti fossili, ogni tipo di sviluppo associato all’aumento dei consumi di beni e servizi è intrinsecamente legato alla minaccia dell’effetto serra e ai cambiamenti climatici.
La concentrazione di anidride carbonica in atmosfera è passata dalle 280 parti per milione (in volume) del 1960 – valore attorno al quale si era mantenuta dall’inizio dell’era moderna – fino alle attuali 380. Nell’ultimo decennio la crescita si è attestata attorno a 2 ppm all’anno. La combustione di tutte le riserve fossili ed il loro rilascio all’atmosfera, secondo i modelli più accreditati, porterebbe a concentrazioni di anidride carbonica vicine alle 900 parti per milione, con un incremento globale della temperatura del pianeta da 3 a 5 C. Le conseguenze di una simile ipotesi sono considerate dalla maggioranza degli esperti a livello mondiale devastanti3: scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare, desertificazione di aree molto vaste e, più in generale, sconvolgimento radicale dell’attuale equilibrio della vita sul pianeta. Il cambiamento non avverrebbe inoltre in modo graduale, ma con forti instabilità (a causa dell’elevato contenuto di energia nell’atmosfera i vari fenomeni, vento, pioggia, temporali ecc., tendono a d avere caratteri di estrema violenza).
Anche se una minoranza di esperti e scienziati negano l’attuale stato di crisi ambientale o lo attribuiscono a cause diverse dalle attività antropiche, rimane il dato di fatto che il gruppo insediato dall’ONU, l’IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change) da oltre un ventennio continua a fornire dati e previsioni allarmanti sul cambiamento climatico in atto e sul necessario contenimento della emissioni di CO2.
Allo stato attuale, per contrastare la prevista evoluzione catastrofica del fenomeno, l’obiettivo minimo, considerato ancora accettabile, è di contenere l’aumento della temperatura del pianeta in non più di + 2 °C al 2050: cioè non superare e mantenere un contenuto della CO2 nell’atmosfera non superiore a 450 ppm, rispetto al valore attuale pari come detto a circa 380 ppm. Il conseguimento di questo obiettivo appare estremamente problematico se si tiene presente che, come già detto, i combustibili fossili continueranno, nei prossimi decenni, ad essere la fonte prevalente nei consumi mondiali di energia.
Anche dal punto di vista ambientale quindi, oltre che dalla sicurezza ed economicità degli approvvigionamenti di energia, ridurre il ricorso alle fonti energetiche fossili rappresenta un imperativo difficilmente discutibile.
Rapporto tra energia utilizzata ed energia spesa – Le risposte alle problematiche sopra elencate sono per loro natura difficili e costose, ma soprattutto poco capaci di garantire un efficace esito globale senza un forte salto qualitativo tecnologico, e soprattutto senza l’adozione di una nuova politica energetica generalizzata e condivisa a livello mondiale.
Prima di esaminare in dettaglio il contributo che è comunque possibile attendersi dalle soluzioni possibili, è opportuna un’analisi su un tema erroneamente ritenuto di interesse specialistico, ma che al contrario meriterebbe, sia una conoscenza approfondita da parte della classe politica di ogni parte del mondo, sia più in generale una maggiore consapevolezza da parte di tutti coloro che, a pieno titolo o meno, influenzano il formarsi di un’opinione pubblica in materia. Si tratta della valutazione dei costi energetici e ambientali, e non solo economici, connessi con la produzione stessa dell’energia.
Al riguardo è preliminarmente necessaria una riflessione, apparentemente ovvia, sul fatto che la disponibilità e l’utilizzo di qualunque fonte energetica, da quella fossile a quella solare o nucleare, comporta a sua volta un consumo di energia. Occorre quindi tenere adeguato conto di quanto è necessario investire in energia per avere la disponibilità di consumare energia.
Ad esempio per avere la disponibilità di energia elettrica per gli usi finali occorre calcolare e valutare l’energia che viene spesa per realizzare il sistema di generazione (cioè la centrale elettrica); ad essa si deve aggiungere l’energia necessaria per garantire il funzionamento della centrale in tutto il suo ciclo di vita, fino al suo smantellamento; e quella connessa, nel caso di una centrale termoelettrica, alla predisposizione del combustibile affinché questo arrivi nella forma voluta alla bocca dell’impianto (le prospezioni dei giacimenti, la realizzazione degli impianti di estrazione, la raffinazione, il trasporto e la distribuzione, nonché del rendimento di conversione nella generazione). Anche nel caso di una centrale eolica o idroelettrica, o di qualsiasi altro tipo, occorre conteggiare l’investimento energetico necessario, per l’impianto in tutte le fasi di realizzazione: dall’estrazione dei minerali alla loro trasformazione in materie prime, alla realizzazione dei manufatti, alla manutenzione durante le operazioni di produzione, allo smantellamento ed allo smaltimento dei rifiuti.
Fare un bilancio tra l’investimento in energia necessario per costruire e gestire un impianto di produzione di energia e l’energia da questo prodotta durante la sua vita utile non è agevole, perché l’investimento è prevalentemente concentrato in un periodo limitato, mentre la produzione è spalmata su tutta la vita dell’impianto. Per confrontare quindi i diversi modi di produrre l’energia si deve necessariamente considerare la durata attiva degli impianti. Ad esempio le attuali stime riportano che un impianto solare può produrre per circa 2.000-2.500 ore/anno per 20 anni, per un impianto idroelettrico si può ipotizzare una produzione superiore alle 4.000 ore/anno per 50 anni ed oltre, mentre per una centrale a ciclo combinato a gas si può arrivare anche a 7.000 ore/anno di funzionamento.
Nella letteratura tecnica è riportato un indice denominato EROEI (Energy Return On Energy Investment, cioè il rapporto tra energia utilizzata ed energia spesa). Più alto è tale indice, maggiore è la resa energetica dell’investimento iniziale in energia per la realizzazione dell’impianto e successivamente per la sua gestione in itinere. Esso consente quindi di paragonare tecnologie impiantistiche diverse sia pure in forma approssimata: per una stessa tecnologia si possono avere valori molto differenti tra loro, a seconda di come e da chi è condotta l’analisi.
La via più usuale per valutare l’investimento in energia è la LCA (Life Cycle Analysis) e consiste nel calcolare l’energia spesa per l’intero ciclo di vita dell’impianto per la generazione dell’energia. Questo metodo richiede la suddivisione del processo complessivo nelle sue fasi elementari e la valutazione dell’energia utilizzata in tali singole fasi. Si tratta di una metodologia alquanto complicata e per impianti complessi non sempre porta a risultati realistici. Inoltre il contenuto di energia calcolato è solo quello diretto e spesso trascura la parte indirettamente ma comunque legata al processo (ad esempio la componente “lavoro” nella realizzazione di un impianto è in genere considerata solo per il suo costo e non per l’energia connessa con la vita dei lavoratori). Spesso inoltre questa metodologia trascura l’investimento legato al ciclo del combustibile.
Una metodologia proposta recentemente da uno studio del CNR (Piergiulio Avanzini) propone per il calcolo di tale indice il concetto di panergy (investimento complessivo in energia di qualsiasi tipo), calcolato come il rapporto tra il prezzo di mercato di un prodotto o servizio e il prezzo dell’energia per l’utilizzatore finale4 in un definito contesto economico, tenendo conto cioè in tale contesto, sia dei prezzi dei beni e servizi, sia dei costi dell’energia.
È interessante il confronto degli indici LCA e PANERGY per le varie energie alternative rispetto a quelle di origine fossile:

Modello LCA (Contesto: Italia 2006) min max medio ModelloPanergy (Contesto: Italia 2006)

Idraulico

50 - 205 - 127
21,9
Eolico6 - 80 - 4319,7
nucleare (PWR)14 - 24 - 19 15,4
Biomasse2 - 27 - 14 4,1
Fotovoltaico(Silicioristallino)3 - 12 - 7,51,3
Carbone7 - 29 - 185,3
gas (cicli combinati) 5 - 26 - 152,3
petrolio (cicli vapore)5- 15 - 101,9

È interessante notare che i valori riportati secondo la metodologia LCA sono molto più elevati rispetto al modello più raffinato della Panergy essenzialmente per la presa in conto, in quest’ultimo, dell’investimento in energia nel ciclo del combustibile.
La resa energetica degli impianti fotovoltaici è comunque la più bassa tra le fonti rinnovabili, anche se secondo l’EPIA (European Photovoltaic Industry Associaton), che ovviamente prende in considerazione i dati più ottimistici per questa tecnologia, i pannelli fotovoltaici restituirebbero l’energia usata per produrli in meno di tre-quattro anni! La posizione del fotovoltaico deriva dal fatto che gli elevati costi di produzione con l’attuale tecnologia del silicio mono o policristallino implicano un notevole investimento in energia per la realizzazione degli impianti. Inoltre la discontinuità di produzione e la vita relativamente limitata comportano un ritorno in energia prodotta, molto minore, a parità di energia investita. Valori molto più elevati di EROEI (>20) si prevedono però con i pannelli di nuova generazione (film sottili, CIGS, materiali organici ecc.).
Altrettanto interessante è il valore relativamente elevato per il nucleare, dovuto ai bassi consumi di combustibile per energia prodotta ed alla vita lunga delle centrali, a fronte di un pur forte investimento energetico per la fase iniziale di realizzazione della centrale. È da notare peraltro che, non essendo allo stato valutabile il costo in energia connesso con lo smaltimento definitivo delle scorie radioattive, l’indice non è molto significativo ed è comunque sovrastimato.

2 La CO2 e le diverse fonti di energia

Un’analoga gerarchia delle tecnologie energetiche rispetto al loro impatto sui cambiamenti climatici globali, può essere ricavata attraverso un altro indice (il SEI Specific Energy Impact) riferito alle emissioni di CO2 per unità di energia generata e calcolato in Kg di CO2 per KWh elettrico prodotto. La graduatoria di seguito riportata mette in evidenza il contributo che ciascuna fonte può portare all’incremento del contenuto di CO2 nell’atmosfera e quindi all’effetto serra, facendo anche in questo caso riferimento al modello della panery e al contesto Italia 2006.
FonteSEI
Nucleare0,011
Idraulico0,013
Eolico0,014
solare termodinamico0,044
Fotovoltaico0,209
gas (cicli combinati)0,296
petrolio (cicli vapore)0,654
Carbone0,739
biomasse(combustione)0,952

Per l’utilizzo di biomasse, attraverso la loro combustione, la letteratura scientifica riporta un valore dell’indice SEI molto elevato, che però non tiene conto del ciclo di riassorbimento del carbonio da parte dell’atmosfera nella fase successiva di produzione di nuove biomasse e che dà a tale fonte il titolo di rinnovabile.
L’importanza del contesto economico ai fini della valutazione degli indici calcolati con tale metodologia è evidenziata dal confronto presentato dal citato autore per tre differenti contesti europei: Francia (nucleare), Italia (idrocarburi) e Polonia (carbone) per quanto riguarda l’energia elettrica. A seconda del mix di fonti energetiche utilizzate variano i costi del Kwh e le emissioni di CO2 per unità di energia consumata5
FranciaItaliaPolonia
Euro/ Kwh elettrico0,120,170,10
ton CO2/tep1,442,503,13

La lettura dei dati dell’indice SEI conferma che l’energia nucleare è quasi carbon free, cioè produce solo limitate emissioni di CO2 nell’atmosfera. Per estrarre l’uranio dai suoi giacimenti, per il suo trattamento, per il trasporto ai siti di utilizzo, per la realizzazione degli impianti, per la loro manutenzione, per il loro smantellamento a fine vita è necessario il consumo di energia che allo stato attuale è di origine fossile almeno per l’80%. Quindi anche l’energia nucleare è responsabile di emissioni, sia pure limitate, di CO2 nell’atmosfera.
Lo stesso ragionamento vale per le fonti rinnovabili. Confrontando ad esempio la CO2 prodotta dal fotovoltaico rispetto al ciclo combinato a gas si può capire come sia ingannevole la speranza riposta nell’energia elettrica prodotta da pannelli fotovoltaici se questi sono basati su celle a silicio che richiedono grandi quantità di energia per la loro realizzazione. Questo tipo di tecnologia potrà realmente avere il successo atteso solo se, attraverso la ricerca, si sarà in grado di sviluppare pannelli che richiedano poca energia per essere prodotti ed abbiano una maggiore resa nel rapporto tra energia solare incidente ed energia elettrica prodotta.
I dati riportati mettono comunque in evidenza come la mancata conoscenza delle reali situazioni di fatto, può portare le istituzioni politiche ad assumere decisioni scorrette e la stessa opinione dei cittadini ad atteggiamenti contrari all’interesse pubblico (ad es. incentivare l’applicazione dell’attuale tecnologia fotovoltaica).
Un possibile disegno – Messe con le considerazioni fin qui svolte le carte in tavola, occorre tornare al tema di fondo che accomuna sia i problemi esposti sia le potenziali soluzioni; la disponibilità di energia per le generazioni future e la prevenzione della minaccia del cambiamento del clima impongono un graduale ma significativo contenimento delle fonti fossili.
L’obiettivo indicato non può essere ottenuto se non attraverso una concertazione a livello mondiale, affermazione che non deve essere letta come un alibi per il singolo paese di rimanere passivamente in attesa di decisioni a livello sovraordinato. Al contrario ognuno deve fare quanto è possibile; e tra le cose certamente da fare è essenziale favorire la penetrazione, a livello dell’opinione pubblica mondiale, del convincimento che nella condizione attuale l’intero pianeta deve essere gestito in modo assai più coordinato e unitario di quanto oggi avvenga.
In aperto contrasto con questo traguardo si pone il fatto che la posizione dei Governi dei vari paesi, circa l’urgenza delle due minacce incombenti su ogni paese (la difficoltà di approvvigionamento energetico e il cambiamento del clima del pianeta), è non solo molto diversa, ma anche molto distante.
Tutti i Governi considerano come obiettivo prioritario la crescita dello sviluppo economico dei rispettivi paesi. Con maggiore ragione quelli dei paesi in via di sviluppo, che tendono a garantire il necessario miglioramento delle attuali precarie condizioni di vita della popolazione. Con minore ma comunque giustificata ragione, quelli dei paesi sviluppati, che considerano la riduzione dei consumi come l’inevitabile premessa di una recessione economica con conseguenze di instabilità politica e di tensioni sociali.
In altri termini assicurare ai cittadini la disponibilità di risorse energetiche a prezzi contenuti per garantire la crescita del prodotto interno è considerato di gran lunga più importante, che non evitare condizioni che possano generare gravi problemi a loro volta condizionanti lo sviluppo. Questa drammatica sottovalutazione è stata emblematicamente rappresentata dall’atteggiamento degli USA che, in aperto contrasto con l’Europa, hanno negli anni scorsi minimizzato il pericolo dell’effetto serra e solo recentemente, soprattutto per merito di Al Gore, sembrano avviati verso l’accettazione dell’esistenza del problema e la conseguente necessità delle relative politiche non solo a livello nazionale. L’elezione del democratico Barack Obama e le sue affermazioni nel corso della campagna elettorale confermano questa impostazione e prefigurano un radicale cambiamento di politica energetica degli USA in merito alla minaccia di cambiamento del clima e alla necessità di contenere i consumi di combustibili fossili6.
È doveroso al riguardo ricordare che già nel 1990 la Commissione Europea, nel semestre di Presidenza italiana e per iniziativa dei Ministri dell’Industria e dell’Ambiente (Battaglia e Ruffolo), prese la storica decisione di promuovere un grande progetto mondiale di stabilizzazione delle emissioni di CO2 nell’atmosfera al livello di quell’anno7.
Ne scaturì il Protocollo di Kyoto, ma le emissioni di CO2 nell’atmosfera non solo non si sono stabilizzate ai livelli del 1990, ma hanno continuato inesorabilmente a crescere, nella stessa Europa, con una tendenza che sembra confermarsi anche per gli anni futuri.
È dunque l’atteggiamento di sostanziale passività, finora mantenuto dai governi sul problema energia, che induce scetticismo sulle possibili soluzioni di cui si è fatto cenno.
Nonostante le oggettive difficoltà segnalate e il pessimismo che ne può derivare, è certo però che non si può continuare il business as usual e che è necessario partire anzi già da oggi per raggiungere risultati utili (per altri 10 anni si ritiene che esista un margine per agire per contenere i danni del cambiamento del clima), tenendo anche presente, come ha notato Angela Merkel, che fare l’indispensabile oggi costa meno del fare l’inevitabile domani.
A livello internazionale è ancora l’Unione Europea che ha assunto la posizione più avanzata con il suo progetto 20;20;20 e cioè ottenere nel 2020, rispetto ai livelli del 2005: il 20% di riduzione delle emissioni di gas serra; la riduzione del 20% dell’intensità energetica del PIL; l’aumento del 20% della quota di fonti rinnovabili rispetto al totale delle fonti primarie utilizzate.
Molte sono tuttavia le voci critiche nei confronti di questo impegno anche da parte di autorevoli esperti del nostro paese8. Se, essi sostengono, si penalizzano le nostre imprese obbligate ad utilizzare tecnologie più costose per mettere sul mercato prodotti a più basso contenuto di energia, di fatto si privilegiano beni prodotti in altri paesi che non rispettano le stesse regole. Si produce quindi altrove la CO2 che sarebbe risparmiata in Italia. Anche lo stanziamento delle ingenti risorse pubbliche destinate, negli Stati dell’Unione Europea, alla ricerca di una minore intensità energetica del PIL e allo sviluppo di nuove e più avanzate forme di sfruttamento delle energie rinnovabili, sarebbe vanificato se nelle altre parti del mondo si procedesse con consumi di energia crescenti e con il ricorso alle fonti e alle tecnologie più facili e meno costose9.
Questa critica contiene elementi di verità, ma rischia di bloccare tutta la politica climatica dell’UE, mettendo in soffitta il traino che essa può rappresentare ed ha anzi attualmente rappresentato. Su un fronte opposto alcuni economisti, forse con una dose eccessiva di ottimismo, vedono la lotta ai cambiamenti climatici in termini positivi anche dal punto di vista economico e considerano il passaggio al nuovo sistema post petrolifero come l’inizio della terza rivoluzione industriale10.
La necessità di un approccio globale alla ricerca di una soluzione efficace che non ha bisogno comunque di essere dimostrata, implica anzitutto un’analisi fredda della situazione e degli effettivi interessi dei popoli; e richiederebbe un disegno illuminato e coraggioso perseguito da una leadership altrettanto coraggiosa e illuminata in grado di indicare una strada alternativa a quella che finora è stata principalmente seguita (che è stata poi la difesa, anche con il ricorso alla violenza, degli interessi costituiti). Su questa difficile strada il primo passo che politicamente sembrerebbe necessario compiere, e senza il quale l’intero disegno diventerebbe utopico, appare quello di una stretta intesa tra Europa e USA, massimi consumatori mondiali di energia, accomunati da standard di vita simili e da valori condivisi.
L’idea che l’Europa, da sola, possa realizzare una politica internazionale efficace in campo energetico, più che essersi già dimostrata irrealizzabile, sembra oggi inconsistente.
E, d’altra parte, l’idea che gli Stati Uniti abbiano così pochi problemi da poterla condurre nel modo migliore prescindendo dal potere soft e dall’economia dell’Europa appare egualmente irrilevante.
Servirebbe dunque un’intesa. Non soltanto ai fini di politiche “difensive”, comunque utili a controbilanciare il peso politico ed economico delle grandi realtà nazionali in possesso di fonti fossili, cioè i paesi mediorientali e la Russia, ma soprattutto in vista di una strategia comune nella ricerca scientifica, nel risparmio, nell’uso delle tecnologie migliori nel coordinamento di politiche di sviluppo coinvolgenti le realtà povere del mondo, particolarmente bisognose di energia11.
Punto qualificante di un nuovo impegno euro-americano dovrebbe essere l’accordo – soprattutto con Asia e Africa – per una programmazione della distribuzione equilibrata dei consumi energetici e della diffusione delle migliori tecnologie disponibili.
Certo il quadro di generale difficoltà economica e finanziaria in cui il mondo si trova anche dopo l’elezione del nuovo Presidente americano, pone problemi aggiuntivi gravi rispetto al passato. Ma forse, a guardar bene, quel quadro può anche finire col non ostacolare, ma col favorire uno specifico e concreto impegno – su un terreno particolarmente cruciale – da parte dei due maggiori soggetti della vita internazionale12. È un nuovo approccio, certo non facile da realizzare, come non è stato facile in passato. Ma esso sembra costituire ormai una necessità imposta dalle cose; e rappresenterebbe un contributo alla stabilizzazione internazionale da cui tutti i paesi, in ogni continente, trarrebbero giovamento13.

3 La questione energetica nazionale

Soprattutto per la crescita e comunque l’oscillazione dei prezzi del petrolio e la crisi dell’economia mondiale, con effetti marcati su quella nazionale, si è molto acceso negli ultimi mesi il dibattito politico nel nostro paese e si registrano forti attese di decisioni.
È opinione sostanzialmente condivisa che mantenere la situazione attuale (prevalenza del gas naturale tra l’utilizzo delle fonti energetiche; miglioramenti solo marginali ottenibili nell’efficienza dell’uso di combustibili fossili; sviluppo modesto delle fonti rinnovabili; risparmio affidato alla buona volontà) comporta rischi rilevanti non solo per l’ambiente ma anche per la competitività del nostro sistema economico. Tuttavia il dibattito è caratterizzato da una notevole confusione e da una scarsa consapevolezza sulle reali dimensioni del problema, soprattutto sulla fattibilità delle varie soluzioni perseguibili e sui concreti risultati conseguibili. Una sia pur sintetica analisi delle seguenti varie alternative sul tappeto appare quindi opportuna:

    - Tecnologie più efficienti nell’utilizzo delle fonti fossili
    - Risparmio e maggiore efficienza nei consumi finali
    - Sviluppo sostenuto delle energie rinnovabili
    - Utilizzo dell’energia nucleare

Miglioramento delle tecnologie di utilizzo delle fonti fossili – Lo sviluppo delle tecnologie per lo sfruttamento delle fonti fossili non è un argomento prioritario nel nostro paese. Tali tecnologie sono state sviluppate nel corso degli anni fino a livelli di eccellenza con rendimenti molto elevati e con rispetto di limiti di legge molto ristretti per quanto riguarda le emissioni nocive per l’ambiente. Un’attenzione particolare deve essere invece dedicata alla “cattura e sequestro” della CO2 prodotta nelle centrali termoelettriche a carbone. È stato già ricordato che la disponibilità e le riserve di carbone sono molto più diffuse rispetto a quella del petrolio e del gas e che la maggiore diversificazione nella localizzazione delle miniere rende più sicura e meno costosa l’offerta sul mercato mondiale. Rimane il problema delle emissioni di CO2 nell’atmosfera che sono massime nelle centrali elettriche alimentate a carbone, come già detto, rispetto alle altre fonti fossili. Esiste tuttavia una prospettiva di sviluppo futuro del carbone nel nostro paese se verranno attuate le tecnologie per la separazione della CO2 dai fumi in uscita dalle centrali e il suo successivo stoccaggio in depositi sotterranei14. Queste tecnologie hanno fatto notevoli progressi negli ultimi anni, tanto da far apparire oggi industrialmente percorribile questa soluzione nel giro di alcuni anni15.
Nel Piano di ricerca di sistema nel settore elettrico elaborato dal CERSE (Comitato Esperti Ricerca Sistema Elettrico) attualmente presso l’Autorità per l’Energia e il Gas è stato previsto un progetto che dovrebbe essere attuato da una pluralità di Soggetti nazionali di ricerca, presso la miniera del Sulcis, che ha l’obiettivo della trasformazione del carbone in combustibile liquido o gassoso pulito con la contemporanea separazione della CO2 e il suo deposito negli strati profondi della stessa miniera.
Risparmio di energia nei consumi finali – Risparmiare energia o meglio usare metodi più efficienti nei suoi consumi rappresenta nel nostro paese la fonte più disponibile e conveniente. Moltissimi sono i temi che meritano attenzione e le specifiche iniziative da attuare per ridurre i consumi di energia, tagliando gli assurdi sprechi che caratterizzano il sistema e i comportamenti della nostra attuale società. Dai consumi energetici ed elettrici nel settore abitativo e terziario, alla razionalizzazione dell’illuminazione pubblica; dalla produzione, distribuzione e confezionamento dei prodotti nel commercio, alla movimentazione e trasporto di persone e merci, ed infine alla fornitura dei servizi, ivi inclusi i sistemi di produzione dell’energia, c’è un’ampia serie di strumenti da attivare meglio di quanto si faccia oggi.
Anche se le tematiche di razionalizzazione dei consumi energetici finali sono da tempo evidenti e se esistono iniziative e programmi di ricerca e sviluppo sostenuti da importanti investimenti pubblici di sostegno, i risultati delle ricerche ancora da conseguire potrebbero essere di grande portata. È peraltro necessaria soprattutto la diffusione e l’utilizzo delle apparecchiature già sviluppate e una consapevole gestione dell’energia disponibile. A tale fine deve essere promossa la conoscenza presso la pubblica opinione di quanto già disponibile per indurre un comportamento responsabile da parte dei cittadini, sia per i loro consumi diretti, sia per condizionare, con la loro domanda, un’offerta di beni e servizi a più basso contenuto di energia.
Un utilizzo appropriato della leva fiscale sull’energia attraverso un sistema combinato di “incentivi” e “punizioni” sarebbe lo strumento di eccellenza per ottenere un comportamento consapevole del cittadino risparmiatore.

Un cenno specifico merita il tema dei potenziali risparmi di energia nei trasporti. Per quanto riguarda quello su rotaia (treni e metropolitane) un tema importante di ricerca è lo studio di nuovi materiali che a parità di resistenza meccanica consentano di ridurre in modo consistente il peso delle vetture e quindi i consumi di energia elettrica. Rimangono comunque indispensabili investimenti per espandere la rete ferroviaria e la sua utilizzazione soprattutto per il trasporto di merci.
Nei trasporti su strada l’energia utilizzata è oggi al 100% di derivazione da idrocarburi e un tema di ricerca che impegna da anni l’industria europea e mondiale è il miglioramento dell’efficienza delle autovetture in termini di combustibile consumato e CO2 emessa per km percorso. Un ulteriore importante obiettivo di grande interesse è l’introduzione nelle autovetture di tecnologie per la mobilità elettrica. È riconosciuto che, a pari km percorsi, i veicoli elettrici richiedono meno energia primaria, indipendentemente dalle distanza in cui sono ubicate le tecnologie oggi utilizzate per la conversione da energia primaria ad energia elettrica. Quindi l’obiettivo di riduzione delle fonti fossili nel settore dei trasporti si identifica l’affermazione in tempi sperabilmente non lunghi dell’auto elettrica e con il conseguente aumento della produzione di energia elettrica. Il ruolo dell’energia elettrica è destinato peraltro, secondo gli esperti, a crescere gradualmente in tutti i consumi finali di energia fino a divenire fortemente prevalente verso la fine del secolo.
Fonti energetiche rinnovabili – L’impegno fissato in sede UE per tutti i paesi membri –quello cioè di soddisfare entro il 2020 con energie rinnovabili il 20% dei loro fabbisogni – obbliga il nostro paese a perseguire con il massimo impegno questo traguardo, sia finanziando adeguati programmi di ricerca, sia attraverso lo strumento dell’incentivazione. Dal punto di vista della concreta praticabilità dei programmi complessivi, la situazione si presenta piuttosto variegata e molto diverso appare il contributo possibile e concretamente ottenibile da parte delle differenti tipologie di fonti, soprattutto considerando il loro costo.
L’energia idroelettrica ha rappresentato la prima fonte energetica rinnovabile cui si è fatto da sempre ricorso nel nostro paese in quantità significativa. Attualmente, però, l’ulteriore sviluppo di questa fonte è di fatto assai ridotto (anche se esistono ancora potenzialità per il minidroelettrico) per il naturale esaurimento delle potenzialità economicamente sfruttabili. Esiste al contrario il rischio di dover in futuro parzializzare l’utilizzo delle riserve d’acqua dei bacini idroelettrici esistenti per far fronte ad esigenze diverse da quella della produzione elettrica, in particolare per le necessità dell’agricoltura che potrebbero acutizzarsi per i temuti e previsti cambiamenti climatici. Una generale revisione delle condizioni di gestione delle centrali idroelettriche esistenti per soddisfare i loro potenziali molteplici usi (riserva, accumulo notturno, utilizzi non elettrici dell’acqua, esigenze ambientali e di sicurezza per eventi atmosferici estremi) merita una speciale attenzione da parte delle Autorità locali insieme con i gestori delle centrali.
L’energia geotermica ha rappresentato storicamente un settore molto sviluppato nel nostro paese. I “giacimenti naturali di vapore” in Toscana producono ogni anno oltre 4 miliardi di KWh nelle sole centrali toscane di Larderello e di Pontieri. L’Italia ha inoltre una situazione geologica che dovrebbe essere favorevole allo sfruttamento delle risorse energetiche esistenti nel sottosuolo di varie zone del paese. Lo sviluppo delle tecnologie di perforazione fino a grandi profondità, derivanti dalle ricerche di giacimenti petroliferi, dovrebbe favorire, nelle forme ambientalmente dovute, la possibilità di sfruttamento di rocce calde anche a grande profondità, sia a fini del riscaldamento e condizionamento di grandi complessi (centri sportivi, serre; ecc.) sia a fini di teleriscaldamento, quando potenzialmente conveniente. La geotermica, giustamente (anche se in un certo senso impropriamente) considerata una fonte rinnovabile, pone peraltro problemi ambientali e di costo, in rapporto alle singole condizioni locali, ma ampiamente superabili anche alla luce della grande attenzione dedicata a questa tecnologia nei programmi di sviluppo energetico nel mondo. Non appare quindi giustificato il disinteresse che sembra esserci a livello sia industriale sia scientifico nel nostro paese.
L’energia solare, nella sue varie forme (fotovoltaico, termico, termodinamico) non determina sostanzialmente nessun contrasto sulla necessità che essa debba essere sviluppata e promossa. Non è però condivisibile l’opinione che il problema si riduca ad un incremento degli incentivi per la diffusione dell’applicazione dell’energia solare anche quando le relative tecnologie siano molto lontane dalla competitività.
Si deve invece ancora sostenere lo sviluppo della ricerca per ridurre i costi soprattutto nel fotovoltaico dove i pannelli al silicio rendono questa fonte non competitiva e bisognosa, di incentivi pubblici, che in sostanza fanno ricadere sulla collettività la convenienza di questa tipologia di produzione elettrica. Sono oggetto di intensa attività di ricerca e sviluppo, sia a livello accademico che industriale, celle fotovoltaiche basate su materiali organici a più basso costo di produzione rispetto al silicio e che consentono di realizzare dispositivi di spessore ridotto in virtù dell’elevato coefficiente di assorbimento delle molecole organiche. La loro compatibilità con le materie plastiche offre inoltre la possibilità di costruire dispositivi ultraleggeri su substrati flessibili di plastica con un investimento di capitali almeno un ordine di grandezza inferiore rispetto alla tecnologia basata sul silicio16.
La fonte eolica è più vicina alla competitività, anche per il consistente e continuo incremento dei prezzi dei combustibili fossili sul mercato mondiale. Per essa si manifestano ostacoli connessi con il suo impatto paesaggistico, peraltro non sempre motivato. Una soluzione che si prospetta percorribile è costituita dalla realizzazione di parchi eolici in mare lungo le coste e in alta montagna od anche con specifici impianti capaci di sfruttare l’energia del vento ad alta quota, anche per la maggiore disponibilità di vento: sono peraltro necessari in questi casi sviluppi tecnologici per ridurre i costi di installazione e di esercizio.
Le biomasse soprattutto per la produzione di combustibili per il trasporto, rappresentano al contrario un argomento di grande discussione a livello mondiale17. Una produzione significativa di biocombustibili capaci di incidere sulla domanda mondiale di fonti fossili pone il problema della sottrazione di vaste aree alla produzione di sostanze alimentari in un periodo di forte incremento della domanda dei paesi in via di sviluppo. L’incremento vistoso dei prezzi recentemente determinatosi in tale settore è stato determinato in realtà piuttosto dall’aumento di tale domanda, che non alla sottrazione di aree coltivabili: tuttavia il timore che si determini una competizione tra produzione alimentare ed energetica non è ingiustificato.
Su tale argomento nel nostro paese si è sviluppata una polemica da parte di quanti sostenevano che l’utilizzo di combustibili di origine vegetale alternativi a quelli di derivazione petrolifera fosse una soluzione altamente positiva, ma che essa fosse ostacolata dalla lobby degli operatori petroliferi. E’ quindi opportuno fornire qualche dato di confronto.
Il biodiesel, prodotto da olio di colza o di girasoli (la produzione di bioetanolo attuale è trascurabile) ha un costo superiore a quello da petrolio. La sua convenienza (a parte i vantaggi ambientali peraltro discussi), poggia sulla non applicazione su di esso delle accise. Promuovere o meno la promozione della produzione e utilizzo del biodiesel in Italia è quindi un problema di bilanciamento, da parte del Governo, tra la quantificazione dei vantaggi ambientali e le mancate entrate dovute all’esenzione delle tasse relative.
Per la soluzione di questo problema esistono indirizzi europei e decisioni già assunte dal Governo in Italia. Una direttiva europea del 2003 suggerisce (non impone) che al 2010 l’utilizzazione in Europa di biocombustibili debba essere almeno pari al 5,75 % dei consumi energetici. A fronte di tale forte indicazione è entrato recentemente in vigore il decreto che fornisce le modalità di applicazione dell’accisa agevolata al contingente defiscalizzato per il triennio 2008-2010: si tratta di 250 mila tonnellate di biodisel per il quale si applica una accisa di circa 85 euro al metro cubo, rispetto ai 423 euro applicati al gasolio per autotrazione. Delle 250 mila tonnellate solo 70 mila sono relative a biodisel ricavato da produzione nazionale o comunitaria, mentre 180 mila possono essere assegnate ad imprese che importano le materie prime18.
Alcune considerazioni relative alla fattibilità nel nostro paese di un progetto di un’ampia sostituzione dell’energia di origine fossile con energia di origine vegetale nel settore dei trasporti, consentono di affermare l’impraticabilità dell’indirizzo europeo. Nel 2010 il consumo energetico italiano nei trasporti dovrebbe attestarsi su circa 49 Mtep. Di essi per rispettare l’indirizzo europeo 2,8 dovrebbero essere biocombustibili cioè 3,2 Mt di biodisel (1,7 Mt colza; 1,5 Mt girasole,) la cui coltivazione richiede 4,5 Mha di terreno.
Il territorio italiano è pari a 30 Mha e non è possibile trovare 4,5 Mha di terre marginali da destinare alla coltura di semi oleosi (l’Italia è già importatore di colza e girasoli: nel 2008 si stima siano prodotti appena 15-20 mila tonnellate di semi oleosi, e gli ettari coltivati 30 mila).
Se si volesse rispettare la direttiva europea bisognerebbe destinare alla produzione di biodisel terreni già utilizzati come agricoli o per foraggio, ed è di tutta evidenza l’assoluta mancanza di convenienza di sostituire l’importazione già molto elevata di prodotti agricoli alimentari con prodotti agricoli destinati all’energia. Si deve aggiungere infine il fatto che molta parte della nostra economia è legata all’esportazione di prodotti derivanti da colture di nicchia di alta qualità, che evidentemente non possono e non devono essere abbandonate e sostituite da una tipologia di colture che richiedono altri contesti territoriali e climatici.
Quello che in Italia non solo è possibile, ma da sostenere anche con adeguati progetti di ricerca, è la realizzazione di piccoli impianti di produzione di biogas o biocombustibili ecologicamente puliti, alimentati a livello locale con scarti agricoli e/o da industrie manifatturiere o infine con opportune coltivazioni delle limitate aree marginali non ancora utilizzate. Tali impianti, se ben progettati soprattutto a livello dell’impatto ambientale, potrebbero contribuire in maniera anche significativa alla produzione di energia elettrica distribuita anche in connessione con l’impiego di celle a combustibile. In questo campo programmi pubblici di ricerca, anche in stretta intesa con le industrie del settore, appaiono utili e urgenti. Tra questi una posizione di primaria importanza è rappresentata dalla produzione di alghe in impianti dedicati, sfruttando i grandi progressi che si sono registrati nel settore della biologia per ottimizzare il tasso di crescita delle alghe e quindi la produttività di impianti dedicati.
Le correnti marine sono oggetto di forte attenzione in varie parti de mondo e il loro sfruttamento andrebbe forse riconsiderato, pur se il potenziale contributo atteso nel nostro paese potrebbe risultare marginale. È comunque necessario, alla luce del mutato quadro energetico, effettuare o riconsiderare studi già fatti per valutare la disponibilità di correnti marine economicamente sfruttabili nel Mediterraneo e sviluppare e sperimentare le tecnologie necessarie.
La produzione di energia elettrica distribuita – Un tema che interessa orizzontalmente tutte le fonti di energia e il loro utilizzo razionale è rappresentato dall’autoproduzione di energia elettrica nei vari contesti locali. Specifici agglomerati urbanistici, alberghi, centri sportivi, ospedali, singoli complessi industriali possono trovare convenienza a produrre localmente l’energia elettrica necessaria. Il principale vantaggio di questa soluzione è la possibilità di utilizzare contestualmente anche l’eventuale calore associato alla generazione elettrica per le utenze termiche (riscaldamento e condizionamento di ambienti, produzione di calore per processi industriali ecc.).
La gestione di reti elettriche locali può inoltre essere premiata dalla nuova struttura del mercato elettrico che consente un loro collegamento attivo con la rete nazionale. È quindi possibile scambiare e soprattutto vendere energia in caso di eccesso di produzione rispetto alle esigenze locali. Questa opportunità rende possibile e conveniente l’utilizzo integrato di tutte le fonti di energia a livello locale, anche di scarso valore energetico o fruibili solo in maniera discontinua, (biogas prodotto da biomasse di scarto per l’alimentazione di celle a combustibile, piccoli impianti solari o eolici proporzionati rispetto alle esigenze, miniidroelettrico ecc.). Con l’applicazione diffusa di questo modello, l’utente del sistema elettrico nazionale può trasformarsi in produttore e contribuire a ridurre la necessità di incrementare il parco delle grandi centrali elettriche.
L’energia nucleare da fissione – Rimane infine da affrontare, per completare il quadro, il tema del ricorso all’energia nucleare con reattori a fissione, che è ridiventato un argomento di grande dibattito a livello sia mondiale sia nazionale. Occorre al riguardo sgombrare il campo dalle molte inesattezze che circolano, convalidate talora anche da fonti autorevoli.
Non è esatto che il costo del Kwh nucleare sia oggi più basso di quello prodotto da fonti fossili. In particolare è molto elevato il costo di installazione della centrale ed è molto incerto il tempo necessario per ottenere le autorizzazioni dalle Autorità pubbliche competenti e per la sua realizzazione. Il rischio connesso con l’investimento richiede quindi adeguate assicurazioni che incidono sui tassi dei finanziamenti necessari e sui costi complessivi. Il completo smantellamento di una centrale nucleare, al suo termine di vita, non è stato tuttora sperimentato e il relativo costo non è stato ancora dimostrato.
Le valutazioni sulla convenienza, dal punto di vista puramente economico, dell’utilizzo dell’energia nucleare rispetto ad altre fonti sono soggette quindi ad oggettiva incertezza19.
È vero invece che il volume delle scorie radioattive prodotte dall’esercizio delle centrali nucleari, se opportunamente compattate con le tecnologie oggi disponibili, è molto ridotto e quindi la loro conservazione in siti di superficie adeguatamente controllati non pone rischi reali, al di là di quelli “percepiti” dalla pubblica opinione.
I costi relativi alla custodia temporanea delle scorie devono peraltro essere riportati nel costo del Kwh prodotto dalla centrale. Il problema del trattamento e custodia definitiva delle scorie radioattive ad alta densità rimane peraltro ancora non risolto20.
È vero che l’energia prodotta da fonte nucleare è una soluzione ottimale per ridurre le emissioni di CO2 nell’atmosfera. Tuttavia, come è stato già rilevato nelle considerazioni generali, se si tiene conto dell’energia necessaria per la realizzazione degli impianti non è esatto affermare che l’emissione di CO2 di una centrale nucleare sia nulla: i Kg di CO2 emessi per ogni kwh elettrico prodotto valgono 0.7 per il carbone e 0,01per il nucleare.
Il tema della non proliferazione delle armi nucleari rimane un problema “sensibile”. È oggettivamente difficile essere sicuri della distinzione tra nucleare civile e nucleare militare. Questa osservazione può indurre qualche preoccupazione se si tiene conto che secondo la World Nuclear Association almeno 30 nuovi paesi hanno dichiarato di volersi impegnare nel nucleare ( ad es. Cile, Nigeria, Vietnam, Irlanda, Turchia, Indonesia) ed anche in vari paesi del Medio Oriente sembrerebbe affermarsi tale orientamento. Esiste peraltro la possibilità di alimentare l’attuale modello di centrali nucleari con elementi di combustibile a torio, che nel reattore si trasforma in U233 e che nel successivo processo di fissione produce minori quantità di isotopi radioattivi e tali da non poter essere usati per fabbricare bombe atomiche.
Sulla base di questi rilievi, sono opportune alcune considerazioni sul dibattito aperto in Italia dopo l’affermazione del Governo di voler riavviare la costruzione di centrali nucleari. Per il necessario contenimento dell’utilizzo delle fonti fossili, programmare anche la realizzazione nel nostro paese di centrali elettriche nucleari appare certamente ragionevole. Non si tratta com’è ovvio di “sostituire” con il nucleare le fonti fossili, ma di contribuire ad una graduale diminuzione del loro utilizzo nell’ambito di una strategia in cui tutte le altre possibilità siano contestualmente perseguite.
Il referendum popolare del 1987 sulla questione nucleare non impedisce tecnicamente un cambiamento di indirizzo. Ciò non perché dopo oltre vent’anni appaia comunque legittimo un ripensamento, ma, perché il referendum non era relativo al quesito “nucleare si nucleare no”, ma solo ad alcuni specifici articoli di legge e in particolare a quello che consentiva vantaggi economici relativi ai prezzi dell’energia elettrica per le popolazioni dei territori interessati alla localizzazione di una centrale. È su questo specifico tema, riportato nel DdL in discussione in Parlamento, che deve essere concentrata l’attenzione del legislatore per rispettare il divieto imposto dal referendum. A parte quindi questo aspetto, è oggi certamente corretto riproporre l’avvio di un nuovo programma di costruzione di centrali nucleari.
Il primo passo è la decisione che deve essere assunta dal Governo sulle alleanze internazionali da stabilire, visto che non è pensabile (come non lo era prima) perseguire una autonoma soluzione tecnologica nazionale.
Si tratta di una scelta non facile ma impegnativa, sia che venga confermata l’opzione dei reattori di III generazione, che appare peraltro ancora soggetta al problema del deposito delle scorie radioattive di lunga vita, sia che venga scelta la soluzione dei reattori di IV generazione. L’ambito europeo dovrebbe evidentemente far premio, ma non è scontato: da una parte ci sono i tradizionali rapporti di licenza dell’Ansaldo con gli americani, dall’altro la partecipazione di EDF nel capitale della Edison, circostanza quest’ultima che richiama la soluzione adottata dal Governo inglese21.
A valle di una decisione relativa ai paesi con i quali stabilire una indispensabile collaborazione deve essere avviata una faticosa ma possibile e fruttuosa ricostituzione di una cultura e di una competenza scientifica e tecnica nazionale, oggi molto compromessa. Occorre partire non solo dai corsi universitari in materia di nucleare stentatamente sopravvissuti, ma anche dall’allestimento di adeguate attrezzature sperimentali presso le stesse università o centri di ricerca (in primo luogo l’Enea con i suoi reattori nucleari di ricerca Triga e Tapiro ) per consentire ai laureati di passare dalla sola cultura teorica e dai codici di calcolo alla manipolazione diretta di impianti almeno sperimentali. Certamente, la partecipazione di tecnici italiani alla gestione di attrezzature possedute dai nostri futuri partner può contribuire ad accelerare la formazione delle competenze necessarie, ma azioni ed investimenti nazionali nella ricerca appaiono comunque indispensabili. In questa operazione di formazione di competenze rinnovate, una assoluta priorità deve essere attribuita alla creazione di uno specifico organismo di controllo della sicurezza, cui tra l’altro deve essere assicurato, anche attraverso modifiche legislative, un ruolo che gli consenta completa autonomia e indipendenza di giudizio a garanzia dei cittadini. A tale organismo dovrebbe essere delegata inoltre la formulazione delle possibili localizzazioni delle nuove centrali sulla base delle valutazioni tecniche necessarie.
Lo sviluppo della capacità industriale per la realizzazione dei nuovi impianti potrebbe essere lasciata all’iniziativa privata nell’ambito di collaborazioni con le industrie di altri paesi e ad eventuali azioni di sostegno pubblico, anche economico, nel rispetto delle regole di mercato previste dalla normativa europea.
Rimane alla fine del percorso, non solo dal punto di vista logico, il grande tema dell’accettazione popolare dei nuovi insediamenti nucleari. Appare con tutta evidenza, anche per i tempi necessari a seguire la strada indicata, che non solo non sarebbe produttivo anticipare la scelta dei siti, ma che i nuovi iter legislativi dovrebbero prevedere una preventiva consultazione delle Autorità Locali. L’esperienza vissuta nel nostro paese, non solo nell’attuazione del precedente piano nucleare, ma in tante altre situazioni, hanno ampiamente reso evidenti i pericoli che decisioni non adeguatamente studiate e preparate possono comportare. Non si vuole certamente sostenere che gli interessi nazionali debbano essere subordinati al gradimento e all’accettazione espressi a livello locale. Soluzioni d’autorità sono giustificate e devono essere assunte: ma a valle di un processo, di cui non si può certo tacere la intrinseca difficoltà, che preveda che le opinioni di tutti siano quanto meno ascoltate.
In merito all’opportunità o meno di puntare direttamente sui reattori di IV generazione per la ripresa del nucleare in Italia ci sono posizioni discordanti. Alcuni riferiscono – partendo dalla considerazione che i reattori della III generazione sono comunque più sicuri ed efficienti di quelli precedenti e sono inoltre in corso di realizzazione in molti paesi del mondo – che avviare anche il nostro paese su questa strada rappresenta la soluzione migliore. Essa consentirebbe di ricreare le condizioni di capacità e competenza necessarie per il reinserimento del nostro paese nel contesto tecnologico internazionale, mentre un rinvio in attesa di soluzioni più avanzate rappresenta la formula classica per bloccare ogni forma di progresso (sarebbe al riguardo da rileggere la divertente novella di Pirandello sul dibattito del Consiglio comunale di Milocca relativo al progetto per l’illuminazione elettrica del Comune, rinviato nella prospettiva di soluzioni più innovative rispetto all’energia elettrica con il risultato che la sala del Consiglio continuò ad utilizzare le candele steariche).
Appare comunque necessario considerare le ragioni che militano a favore dei reattori nucleari di IV generazione. La prima è legata alla disponibilità di uranio. Oggi nel mondo ci sono 439 reattori in funzione, 33 reattori in costruzione, 94 reattori in progetto, 293 reattori “in opzione”. Molti paesi, inoltre, stanno puntando sul nucleare per rendersi più indipendenti dall’estero. In questo quadro mantenendo la tecnologia del reattori di III generazione si determinerebbe dunque per l’uranio, nel medio lungo periodo, una situazione sostanzialmente simile a quella attuale del petrolio, sia per la tensione sui prezzi, già oggi in rapida ascesa, sia per il condizionamento politico da parte dei paesi titolari delle miniere di uranio (o da parte di quelli che se ne sono comunque già assicurato lo sfruttamento).

Scaturisce da queste considerazioni l’interesse predominante verso lo sviluppo del programma di IV generazione, e cioè dei cosiddetti reattori veloci, i quali consentono di produrre, sotto forma di plutonio, più materiale fissile di quanto ne venga utilizzato nel processo di fissione, con la possibilità di moltiplicare per un fattore 60-100 le riserve mondiali di minerale di uranio. Nell’ambito di questo programma sono allo studio tre tipi di reattori veloci raffreddati rispettivamente a sodio (più maturi sotto il profilo industriale), a gas e a piombo.
L’utilizzo dei reattori veloci se risponde al problema della futura indisponibilità dell’uranio, non risolve tuttavia il problema degli altri isotopi radioattivi della famiglia degli attinidi (americio, nettunio, curio) prodotti nei reattori durante il loro funzionamento. La comunità internazionale sta operando, nei programmi di ricerca per i reattori di IV generazione, con l’obiettivo di irraggiare (bruciare) gli attinidi direttamente negli stessi reattori di potenza. La soluzione proposta in merito da Rubbia, di costruire reattori dedicati al solo scopo di irraggiamento neutronico delle scorie, è ancora aperta, ma il rapporto costi-benefici fa preferire lo svolgimento di questa funzione da parte di reattori che assicurino contestualmente la produzione di energia.
Oggi si prevede di raggiungere la maturità industriale di un ciclo di combustibile che si chiuda con l’irraggiamento degli attinidi nei reattori nucleari veloci entro una ventina di anni. Questi tempi, con una valutazione realistica delle condizioni della tecnologia nucleare in Italia e di tutte le necessarie fasi della ripresa sopra elencate per la realizzazione delle centrali attualmente disponibili, non si discostano di molto dal dato riportato per i reattori di IV generazione; lavorare quindi soprattutto per questo obbiettivo, come alcuni sostengono, è tutt’altro che irragionevole.
La fusione nucleare – La soluzione definitiva per la disponibilità dell’energia è riposta, secondo gli esperti, nella fusione nucleare. Tutti i paesi del mondo si sono uniti in questa impresa ed imponenti risorse economiche sono state ad essa dedicate. La realizzazione di un grande impianto sperimentale è prevista nel Centro di ricerca di Cadarache in Francia. L’Italia, che ha una posizione di assoluto rilievo scientifico in questa materia, parteciperà attivamente a questo progetto.
Alla luce delle considerazioni fatte l’interrogativo che da tempo ci si pone, e che è divenuto oramai drammatico, è se ci sarà il tempo per attuare la nuova politica mondiale che è ormai necessaria: se sarà cioè possibile conciliare, in tempi accettabili, la richiesta futura di energia a livello mondiale con la capacità di produrre tale energia, senza i deleteri effetti ambientali con i pesanti oneri economici per le comunità nazionali. Assicurando, al tempo stesso, una migliore armonia economica tra i popoli del mondo e la salvaguardia dell’equilibrio della vita del nostro pianeta22.



NOTE
1Nel documento New Energy for America, diffuso durante la campagna elettorale da Barack Obama e Joe Biden, è affermato che «America is only the 22nd most energy efficient country among the major economies in the world, which means we spend more on energy than we need to because our lifestyle and our built environment are wasting too much excess energy. Since 1973, the average amount of electricity each of us uses has tripled. We can do better. Obama administration will strive to make America the most energy efficient country in the world».^
2Un articolo del premio Nobel Paul Krugman apparso su Repubblica del 7 luglio riporta l’opinione di Michael Masters, hedge fund manager, molto critica nei confronti di coloro che hanno attribuito ai colpevoli speculatori l’instabilità dei prezzi del petrolio: «regolamentare più severamente il mercato dei futures non è affatto una cattiva idea, ma non servirà a riportarci ai bei tempi del petrolio a basso prezzo». Non ci sarebbe da sorprendersi afferma Masters se il prezzo del petrolio dovesse scendere nel breve periodo per un minor uso delle automobili (come di fatto è avvenuto in quest’ultimo periodo), ma il trend a lungo termine è sicuramente al rialzo. L’indirizzo espresso dal nuovo Presidente degli USA di ridurre in modo molto consistente le emissioni di CO2, facendo ricorso ad una produzione massiccia di etanolo ed alle altre fonti energetiche rinnovabili, potrebbe peraltro avere l’effetto di congelare l’attuale prezzo del greggio, soprattutto se la recessione mondiale dovesse raffreddare la domanda di energia anche in Cina e India.^
3Dall’ultima glaciazione (15.000 – 50.000 anni fa) l’aumento della temperatura della terra sarebbe stata di +5 oC. Ciò da un’idea della catastroficità degli eventi associati a tale variazione di temperatura.^
4In una sua memoria presentata al II Congresso Nazionale AIGE svoltosi a Pisa 4-5 settembre 2008, Avanzini parte dalla considerazione che il costo di un prodotto, manufatto o servizio è articolato nelle tre componenti: materiali; lavoro; energia. A loro vota ciascuna di queste tre componenti è ancora composta da materiali; lavoro; energia e portando al limite questo concetto egli sostiene che si può ragionevolmente affermare che il costo di un prodotto, manufatto o servizio è rappresentato sostanzialmente dal costo dell’energia diretta o indiretta in esso contenuta. Il rapporto pertanto tra il prezzo del prodotto e il costo dell’energia in un determinato contesto economico fornisce il contenuto totale di energia del prodotto.^
5Il confronto, riportato a titolo di esempio, tra le strutture energetiche e le emissioni di CO2 di paesi diversi pur nell’ambito dell’Unione Europea, fornisce una spiegazione in merito alle polemiche e le contrapposizioni, ampiamente riportate dalla stampa, che hanno accompagnato la decisione della Commissione Europea sugli obbiettivi specificamente assegnati di contenimento delle emissioni di CO2 al 2020.^
6Nel documento Promoting a Healthy Enviroment diffuso durante la campagna elettorale, Barack Obama afferma «We cannot afford more of the same timid politics when the future of our planet is at stake. Global warming is not a someday problem, it is now. We are already breaking records with the intensity of our storms, the number of forest fires, the periods of drought...the polar ice caps are now melting faster than science had ever predicted ... This is not the future I want for my daughters. It's not the future any of us want for our children. And if we act now and we act boldly, it doesn't have to be».^
7È interessante al riguardo riportare, perché incredibilmente attuale, la frase conclusiva del documento presentato all’epoca dall’Italia alla Commissione Europea: «A careful evaluation of the economic and social impacts of these actions is indispensabile and has to be made through international cooperation, while exploring at the same time the ways to reduce uncertainties and to agree on the measures to be started».^
8Sul «Sole 24 ore» del 18 ottobre è stato pubblicato un articolo a firma di A. Clò e C. Clini che, – mettendo in evidenza il costo economico per l’economia italiana, peraltro a loro avviso sottostimato, delle misure previste dall’Unione Europea, a fronte di modestissime riduzioni delle emissioni globali, non superiori allo 0,3%, – concludono considerando insostenibili le misure stesse per il futuro delle imprese, del sistema economico e dello stesso ambiente, perché senza crescita non lo si migliora.^
9La polemica sul “potenziale impatto economico” sulle imprese italiane del pacchetto di misure del programma europeo per contenere le emissioni di CO2 ha coinvolto direttamente il Governo italiano e l’Unione Europea e di essa ha dato ampio risalto tutta la stampa nazionale a metà ottobre. Il problema posto è certamente corretto, ma la soluzione più opportuna sulla quale convergere non può che essere la spinta sempre più decisa da parte dell’Europa per la concertazione di misure a livello internazionale.^
10Il «Corriere della sera» del 3 novembre riporta con grande evidenza la posizione di J. Rifkin, che basa le sue previsioni ottimistiche di sviluppo, profitti e nuova occupazione su quattro pilastri: 1) i nuovi palazzi capaci di produrre energia e non solo di consumarla, 2) lo sviluppo di tutte le fonti energetiche rinnovabili; 3) la produzione di idrogeno per immagazzinare tutte le fonti alternative di energia; e infine 4) la rete intelligente di produzione e distribuzione dell’energia. Si tratta come si vede di una posizione in parte avveniristica in parte già largamente riportata da molti altri studiosi. C’è da notare comunque il più realistico ruolo affidato all’idrogeno, non più come caratterizzante, in modo enfatico, la nuova era post petrolifera, ma come accumulo delle energie prodotte dalle discontinue fonti rinnovabili.^
11Un’iniziativa che sembra sposare questo indirizzo, (c/f Financial Times del 14 giugno), è il progetto avanzato da Giappone, Stati Uniti e Gran Bretagna a margine del G8 di Osaka per il varo di due Fondi (Climate Investment Fund e Clean Technology Fund) per aiutare i paesi emergenti nello sviluppo e applicazione di tecnologie pulite. I Ministri delle Finanze Fukushiro Nukaga per il Giappone che erogherà 1,2 miliardi di dollari; Alastair Darling per il Regno Unito con un impegno di 1,5 miliardi di dollari; ed Henry Paulson per gli USA da cui sono attesi 2 miliardi di dollari, hanno fatto un appello ad altri paesi donatori per raggiungere almeno i 10 miliardi di dollari. Con riferimento al “diritto” dei paesi emergenti di non fermare il loro sviluppo è stato affermato che il legame «sviluppo – emissioni di CO2 non è automatico» e che «il cambiamento del clima è un problema che può essere risolto».^
12Sembra esplicitamente confermare questo auspicio il documento citato nella nota 6 in cui Barack Obama and Joe Biden assumono il rilevante impegno di: «support implementation of a market-based cap-and-trade system to reduce carbon emissions by the amount scientists say is necessary: 80 percent below 1990 levels by 2050. They will start reducing emissions immediately in his administration by establishing strong annual reduction targets, and they will also implement a mandate of reducing emissions to 1990 levels by 2020».^
13Nella stessa direzione vanno tra gli altri gli impegni di: –“create New Forum of Largest Greenhouse Gas Emitters”. Barack Obama and Joe Biden will create a Global Energy Forum – based on the G8+5, which includes all G-8 members plus Brazil, China, India, Mexico and South Africa – comprised of the largest energy consuming nations from both the developed and developing world, which would focus exclusively on global energy and environmental issues. This Global Energy Forum will complement – and ultimately merge with – the much larger negotiation process underway at the UN to develop a post-Kyoto framework.
-“transfer American Technology to the Developing World to Fight Climate Change”: Barack Obama and Joe Biden will create a Technology Transfer Program within the Department of Energy dedicated to exporting climate-friendly technologies, including green buildings, clean coal and advanced automobiles, to developing countries to help them combat climate change
.^
14Recentemente i Presidenti di ENEL ed ENI, alla presenza del Ministro dell’Ambiente, hanno siglato un accordo per la separazione della CO2 dai fumi della centrale a carbone di Brindisi, la sua liquefazione e la sua immissione nella vecchia miniera dell’ENI di Cortemaggiore.^
15Nella recente campagna elettorale americana Barack Obama ha affermato che la sua Amministrazione «will provide incentives to accelerate private sector in investment for CO2 capture and sequestration technologies and will instruct DOE to enter into public-private partnerships to develop 5 first-of-a-kind commercial scale coalfired plants with carbon capture and sequestration».^
16Molte altre sono le linee di ricerca su tale materia come i film sottili fotovoltaici CIGS (copper indium galliun selenide); tubi di vetro ricoperti con CIGS possono essere assemblati per formare un singolo pannello di facile installazione e capace di catturare anche la luce anche diffusa.^
17La polemica mondiale sul ruolo dei biocombustibili tocca diversi aspetti ben illustrati in un’ampia pagina del «Sole 24 Ore» del 4 giugno. Conflitto tra etanolo da canna e scarti cellulosici (Brasile) ed etanolo prodotto da cereali (USA): il primo favorito per resa produttiva, minore impatto ambientale e migliore resa energetica, rispetto al secondo che richiede maggiori incentivi pubblici e sottrae risorse alimentari ai bisogni mondiali. Forti perplessità dell’OCSE sul ruolo dei biocombustibili che «non sono la soluzione del problema energetico, né dei cambiamenti climatici del globo». Si è registrata una polemica tra UE e USA in merito alla distorsione del mercato prodotta dalla riduzione di tasse e incentivi sul biodiesel americano esportato in Europa. (c/f Financial Times del 14 giugno)^
18Secondo l’Unione produttori di biodiesel la produzione nazionale di biodiesel nel 2007 sarebbe stata di 470 mila tonnellate, delle quali solo la metà destinata al mercato interno. Se fosse rispettato l’obbligo, stabilito per l’anno in corso, di miscelare il 2% di biodiesel in quello derivato dal petrolio, la domanda interna salirebbe a circa 600 mila tonnellate (c/f Sole 24 ore di giugno).^
19«Affari e finanza» del 27 ottobre da notizia di uno studio da poco completato da parte del MIT “The future of nuclear power”. Tra gli ostacoli allo sviluppo dell’energia nucleare, oltre alla sicurezza, è riportata la gestione delle scorie, la non proliferazione, gli alti costi di produzione degli impianti. Il costo stimato per ciascuno dei 18 progetti pronti è stimato tra i 7 e gli 11 miliardi di dollari. L’articolo conclude con la considerazione che «senza contributi pubblici costruire una centrale è quasi proibitivo».^
20Un lungo servizio del «Financial Times» del mese di giugno ricorda che gli USA dopo aver deciso nel 1977 di sospendere il riprocessamento degli elementi di combustibile spenti, decisero di realizzare un deposito profondo sotto il massiccio dello Yucca Mountain dove “seppellire” i rifiuti nucleari. Questo progetto non è stato realizzato ed è tutt’oggi bloccato presso il Congresso americano. Tra le ragioni citate dal giornale, oltre alle più probabili difficoltà tecniche, c’è anche l’ipotesi di voler conservare le scorie come fonte da cui estrarre gli “ingredienti” per le bombe nucleari.^
21Secondo il «Financial Times» del 29 luglio una soluzione radicale per l’attuazione di un’alleanza nel settore della realizzazione di centrali nucleari sarebbe realizzata in Gran Bretagna assumendo la Compagnia di stato francese EDF il controllo della British Energy, società produttrice e distributrice dell’energia nucleare nel Regno Unito. Al riguardo il giornale riporta una serie di perplessità sui possibili effetti di tale decisione sul mercato dell’energia elettrica britannico. EDF è una compagnia controllata dallo stato (84,4%) che in Francia è verticalmente integrata, opera cioè come produttore e venditore dell’energia elettrica; nel mercato inglese dove i distributori comprano l’energia elettrica dai produttori la presenza di un consistente monopolio nel settore nucleare potrebbe creare problemi di concorrenza. L’assunzione del controllo di British Energy da parte di EDF per 15,7 miliardi di euro si è realizzata poi nel mese di settembre. La nuova Società costruirà 4 nuove centrali nucleari di III generazione, mentre le vecchie saranno smantellate con fondi a carico dello Stato britannico.^
22Le conclusioni di questo articolo possono apparire eccessivamente pessimistiche e soprattutto proiettate in tempi lontani. In realtà gli effetti delle emissioni derivanti dai combustibili fossili nell’atmosfera (scarichi dalle autovetture e centrali elettriche a carbone) sono già drammaticamente in atto e non solo per quanto riguarda l’effetto serra. Su «Herald Tribune» del 14 novembre è riportato in prima pagina un lungo allarmante articolo Over Asia foul cloud sullies air and water. «The imperative to act has never been clearer “Achim Steiner”, executive director of the United Nation Environment Program, said in Beijing, where the report “Atmosferic Brown Cloud Regional Assessment report With Focus on Asia” was released». Nello stesso articolo è detto che «According to Chinese Accademy of Science the glaciers that feed into the Yangtze, Ganges, Indus, and Yellow rivers have shrunk 5 % since the 1050 and the current rate of retreat could shrink by an additional 75% by 2050».^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft