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L’Ambasciatore von Hassell. L' "altra Germania"
di Desideria Pasolini
Una mia amica studiosa esperta tra l’altro di letteratura tedesca, Elena Croce, nell’inverno del 1946, credo, mi chiese se poteva parlare con mio padre. Voleva alcune notizie dell’Ambasciatore Ulrich von Hassell sapendo che l’aveva conosciuto. Era stato infatti ambasciatore a Roma dal ’32 al ’38 quando fu richiamato in Germania perché con le sue idee critiche sul nazismo non avrebbe potuto più rappresentare la Germania all’estero.
Penso che Elena volesse fare una ricerca.
Mio padre addolorato com’era per la tragica morte dell’Ambasciatore von Hassell, rispondeva a tratti, con pena, ricordando qualche episodio.
I miei genitori conoscevano parte del mondo diplomatico. Si può anche ricordare che a Roma da sempre viveva un ambiente a carattere internazionale con radici di parentela in varie parti di Europa, anche negli Stati Uniti, basate a volte su vincoli di amicizia. I miei genitori avevano rapporti soprattutto con gli ambasciatori inglesi, prima i Graham e poi Sir Percy e Lady Louise Lorraine, per affinità di cultura e vecchia tradizione risorgimentale. Avevano spesso incontrato i von Hassell anche a Villa Ruffo, giacché tre cugine di mia madre, le sorelle Ruffo della Scaletta1 avevano sposato tre tedeschi (von der Leyen, Schönborn, Wittgenstein). I due Hassell diventarono subito amici non solo dei miei genitori, ma anche di altre persone come Clemente e Giacinta del Drago. Andavano spesso a trovarli a Filacciano, paesino vicino a Roma. La figlia Angela, allora poco più che una bambina, mi racconta oggi che i von Hassell erano sempre seguiti da una macchina con due poliziotti, com’era consuetudine per gli ambasciatori, ma questi agenti invece avevano ordini precisi: spiare ogni loro mossa, ogni parola, anche se le conversazioni non le potevano udire, dovevano sapere soprattutto quali persone frequentavano.
I von Hassell erano sopratutto legati a Santa Hercolani2, cugina di mia madre; spesso montavano a cavallo a Tor di Quinto. E noi andavamo loro incontro, a volte a cavallo. Mio padre riconosceva nell’ambasciatore von Hassell una grande cultura di carattere europeo. Era studioso di Dante per il quale aveva un culto particolare nel quale si fondeva all’ammirazione sul sublime carattere del poema anche la conoscenza teologica dell’opera. Formatosi secondo i canoni della cultura romantica tedesca, era permeato da un grande idealismo.
Avevano in comune la cultura classica e il desiderio della memoria storica. Mio padre trasmetteva a Elena notizie e descrizioni importanti ma a volte si interrompeva.
Ulrich von Hassell, ripeteva mio padre a Elena, apparteneva a quella nobiltà tedesca numerosa nei Länder, in questo caso l’Hannover, che per decenni aveva contribuito a formare i quadri dello Stato ad alti livelli, grandi funzionari, sia del mondo diplomatico che di quello economico, politico, culturale, universitario.
Ulrich von Hassell come diplomatico e uomo di studio anche di economia, conosceva tutta l’Europa e numerose erano le persone con le quali aveva avuto rapporti di amicizia. In molte circostanze era stato invitato in Germania e all’estero a tenere conferenze sulla cultura italiana.
Era sì dunque un uomo dell’apparato stimato ovunque in Germania ma, aggiungeva mio padre, era a differenza dei tedeschi in genere, dotato di un senso acuto e moderno dell’Europa dovuto alla sua grande cultura storica ed economica ed ad un’ampia rete di conoscenze. Tutte queste qualità lo rendevano “diverso” e più aperto dei suoi connazionali.
Rivolgendosi a Elena mio padre ricordava le parole di suo padre Benedetto Croce sull’“altra Germania”, “quella che noi amiamo” cioè il riconoscimento di una Germania di grande tradizione classica, che nulla aveva a che fare con la politica nazista.
Hassell apparteneva a questo mondo. Mio padre faceva fatica a parlare di Hassell col quale erano stati uniti da sentimenti di amicizia finita in un modo così tragico, dopo la sua partecipazione all’attentato contro Hitler di Klaus von Stauffenberg che fu subito giustiziato. Hassell, dopo due mesi durissimi di carcere, subì un processo già precostituito nei suoi esiti (questa fu subito l’opinione comune) e due ore dopo condannato all’immediata impiccagione.
“Sì”, ripondeva Elena, lo capiva, la formazione di un uomo di Stato derivante dalla concezione di Bismark, ma aggiungeva anche da una cultura europea. Eppure, Elena si chiedeva, com’era giunto a quella ribellione? Era forse legato a qualche partito o a un gruppo al quale si sarebbe appoggiato in quegli anni? Era solo? Erano domande pertinenti, acute. Essa intuiva che in molti ambienti, ed era una realtà storica, forse vi era il bisogno di unirsi ad altre persone per verificare le possibilità di una reazione al nazismo.
Mio padre non credeva che Hassell appartenesse ad un partito, giacché come diplomatico e ambasciatore non avrebbe potuto fare una scelta al di fuori dello Stato. Era forse un conservatore? Conosceva certamente vari esponenti che criticavano il nazismo in ambienti vicino a lui, e a questi aveva accennato varie volte3. Lo sapevano tutti, ripeteva mio padre.
«Ma il suo “antinazismo” che lo portò alla ribellione e alla congiura?», chiedeva Elena. Spiegava mio padre: «credo che potesse avere una radice morale e anche cristiana: era un uomo religioso». Come tale non poteva accettare la decristianizziazione della gioventù. Soprattutto si ribellava alla persecuzione atroce degli ebrei, alla soppressione dei disabili e dei ricoverati nei manicomi. Alla mancanza di libertà civile, alla distruzione dello Stato di diritto si ribellava perché affermava che queste erano le basi e l’essenza di uno Stato moderno.


La sua tragedia era appunto insita in un conflitto morale: l’odio per Hitler, autore della distruzione dello Stato, ma d’altra parte Hassell appartendo nella sua interezza morale alla Germania, allo Stato, era un bismarkiano si sentiva il dovere di difenderlo, come difendeva l’esercito seppur devastato dalla follia di Hitler. Questo era il grande contrasto di cui soffriva. Così come quello di numerosi generali e ufficiali, ed egli ne era informato. Essi erano in quegli anni intimamente avversi al nazismo, ma d’altronde essi stessi non potevano e non volevano augurarsi né concepire una sconfitta dell’esercito da parte degli Alleati. Tragica era la contraddizione in cui cadevano. Accenni questi, fatti spesso da von Hassell a Santa Hercolani, che li ripeteva ai miei genitori.
Questo disperato sentimento di impotenza Hassell doveva averlo accennato a mio padre alla fine del suo mandato, cioè nel settembre del ’37 a Montericco, casa in campagna dei miei genitori, presso Imola. Mio padre ne aveva capito l’angoscia, che del resto era comune a numerose persone come lui. Ma non credo li avesse nominati.
Elena capiva quanto questo personaggio fosse complesso e che questo studio esigeva ricerche di documenti, incontri in Germania con le poche persone rimaste che dovevano averlo conosciuto.
Ma purtroppo molti suoi amici che mi avrebbero aiutato a ricordare persone e situazioni non esistono più.


Eravamo nel settembre del 1937 a Montericco.
Prima di proseguire devo premettere alcuni cenni particolari. La figlia maggiore Almuth era in Germania e sembrava avesse difficoltà di ritornare in Italia come avrebbero voluto i genitori. La figlia Fey, un po’ maggiore di me era fidanzata a Detalmo Pirzio Biroli e si volevano sposare al più presto. (Detalmo, anche lui maggiore di noi, faceva parte dei nostri amici e in quel periodo della nostra vita, contò molto). Veniva spesso a Roma, ci parlava dei contrasti politici di cui nessuno poteva parlare pubblicamente e ci raccomandava il silenzio. Consiglio, anzi un ordine che anche i nostri genitori ci davano quando venivano a casa ospiti non affidabili da un punto di vista politico. Detalmo spesso alludeva ad amici inglesi come se avesse un rapporto continuo con loro.
Con la scusa delle ripetizioni di greco, Paolo Bufalini, il più giovane di una famiglia di antifascisti a tendenza comunista, ci dava lezioni di greco al Palatino: anche egli ci informava preoccupato e sdegnato di ciò che stava accadendo nel nostro paese e gli errori sempre più gravi del governo: ci raccomandava di non parlarne e di non riunirci in più di tre o quattro (proibizione della polizia, considerato come indizio di cospirazione). Come reazioni e opinioni era vicino a Detalmo, ma non si conoscevano. Questa era la atmosfera in cui vivevamo. Per il resto la nostra vita si svolgeva serena fra studi e amici.


Settembre 1937. Un pomeriggio, ospiti di Santa Hercolani, l’ambasciatore von Hassell e la moglie Ilse von Tirplitz4 da Bologna vennero a fare una visita ai nostri genitori.
Non posso dimenticare quella giornata a Montericco, era ormai autunno. Ma era ancora caldo. Eravamo tutti vestiti d’estate. I prati abbastanza verdi, nonostante il sole che aveva imperversato in agosto. Gli alberi ancora pieni di foglie: un pomeriggio come tanti altri passati a leggere e a studiare per prepararci al prossimo anno scolastico. Mio padre una mattina come tante altre aveva ricevuto il fattore Pietro Castellari con il quale aveva parlato lungamente.
Quel pomeriggio arrivarono gli Hassell. Rimanemmo per un poco davanti all’arancera, i miei genitori e gli ospiti erano lieti di rivedersi. Ben presto Hassell e mio padre si incamminarono verso i cedri, stavano l’uno accanto all’altro e si allontanavano verso il prato grande. La signora von Hassell e mia madre seguivano lentamente ad una certa distanza parlando fra di loro. E noi le seguivano. Non fu una visita lunga. Dovevano tornare da Santa Hercolani a Bel Poggio, a Bologna per poi ripartire l’indomani. Speravano di rivedersi a Roma, ma nel saluto sembravano esitanti. La sera mio padre era più preoccupato del solito, mia madre impressionata: la signora von Hassell le aveva ripetuto varie volte che non voleva che le figlie rimanessero in Germania. Sarebbero dovute tornare subito. La Germania, diceva, non era luogo per ragazze e donne giovani: alludeva a organizzazioni create da poco, dove le facevano lavorare formando il loro carattere con metodi al di fuori delle norme, nessun concetto della famiglia, della scuola o delle tradizioni. Questo sembrava aver detto l’ambasciatrice a mia madre5.
Un pomeriggio dunque che avrebbe dovuto esser sereno, eppure fu come uno spartiacque tra la spensieratezza da un lato, e dall’altro l’inizio di una consapevolezza di pericoli gravi in cui incorrevano i figli di amici. Mio padre non ripeté nulla del colloquio avuto con il suo amico, ma la sua espressione sembrava sempre più cupa.
Un pomeriggio in apparenza sereno come ce ne erano stati tanti fin dalla mia infanzia e come ve ne furono molti negli anni posteriori ma lontani, perché la parentesi della guerra e la tragica occupazione di tutt’Italia (di Montericco stesso) furono avvenimenti disastrosi di cui avremmo recepito solo anni dopo tutta la crudeltà, il pericolo e la degenerazione di molti valori.
Riprese la nostra vita normale di scuole, di studi, di incontri e anche di feste, intorno al nostro tavolo sempre numeroso e allegro.
Ma nel ’38 all’inizio di gennaio, tra altre notizie a volte gravi, venimmo a conoscenza dalle parole tristi e preoccupate dei nostri genitori che l’ambasciatore Hassell era dovuto partire in fretta per la Germania. Quale avvenire si preparava per lui, pensavano i miei? Sapevamo però la bella notizia che Fey e Detalmo si sarebbero sposati a breve6.


Le notizie dei von Hassell erano diventate rare; solo per mezzo di amici comuni si seppe che la loro vita era intensa, soprattutto per l’ambasciatore invitato a conferenze e ad impegni importanti, benché dimostrasse di essere sempre più critico e polemico contro il nazismo. Queste notizie le ricevevamo da Santa Hercolani che era andata a trovarlo in Germania. Ricordo che nel luglio ’41 Santa li trovò a Ebenhauser, nella loro villa in campagna. Santa Hercolani si era recata a Monaco, poco distante da Ebenhauser, per far visitare da un ortopedico, il famoso Professor Brackar, suo figlio Alvise7. Altre notizie dirette le avemmo alla fine di novembre in casa dei cugini Ruffo della Scaletta8. Erano tutti molto preoccupati, come anche lo stesso Hassell, che dopo un soggiorno in Italia, aveva notato, e con molta contrarietà, l’atteggiamento filotedesco di Mussolini. I nostri cugini Ruffo ci riferirono anche che l’ambasciatore von Hassell aveva rivisto zio Philip von der Leyen nel castello di Pommersfelden da suo cognato Schönborn: alcuni ufficiali dell’Aeronautica9, insediati a Pommersfelden in presenza di addetti militari aeronautici di altri paesi avrebbero usato un linguaggio temerario sul Terzo Reich.


L’Italia era entrata in guerra il 10 giugno del ’40: gli anni seguenti, ’41 e ’42 furono difficili per tutti: poche le notizie. Ma in quegli anni, a Roma, spesso il discorso ricorreva sugli Hassell. «Speriamo che siano prudenti», mormoravano i miei genitori.


Il ricordo degli Hassell rimaneva dentro tutti noi, figli, amici, genitori. Fey von Hassell, figlia dell’ambasciatore e Detalmo si erano sposati già dal gennaio del ’40 e si stabilirono a Udine. La situazione, con gli anni peggiorava e dopo l’8 settembre del ’43 i rapporti e le comunicazioni durante la guerra erano diventati sempre più difficili e pericolosi. Ricordo la notte del 9 settembre il frastuono incessante dei carri armati tedeschi che si precipitavano verso il sud lungo la via Emilia. Dopo un mese, l’8 ottobre fummo obbligati a lasciare la nostra casa di Montericco. Un comandante delle SS10 l’aveva scelta perché circondata da un bosco e la giudicavano perciò più sicura dagli attacchi aerei. Fu un’occupazione lunga e gravi le conseguenze: saccheggi, disordini, furti, paura: un reggimento succedeva all’altro con sempre maggiore pesantezza.
Dopo pochi mesi la mia famiglia fu divisa, mia madre a Ravenna con i figli Martino e Nicolò; Piermaria tra Milano e altri luoghi nel nord con un gruppo di giovani antifascisti, Ginevra e io a Firenze con nostro padre11. La linea gotica ci avrebbe completamente divisi e separati fino a al 4 dicembre del ’44.
La notizia della terribile morte dell’ambasciatore Hassell mio padre la seppe solo nell’inverno del ’45, quando dopo un viaggio lungo e pericoloso raggiunse da Roma mia madre a Ravenna. Mia madre l’aveva ricevuta a sua volta da Santa Hercolani a Bologna che nell’ottobre del ’44 l’aveva saputa da alcuni ufficiali tedeschi di stanza in quella città in modo alquanto confuso: avrebbero ripetuto che vi sarebbe stata una congiura ai danni del Fürer nel giugno, finita con l’attentato del 20 luglio. Varie personalità del mondo militare vi avrebbero preso parte, gli Stauffenberg ed altri militari subito passati alle armi. Non si capiva quale fosse la reazione di quegli ufficiali tedeschi a Bologna. Due mesi dopo, circa, in settembre, dicevano, avrebbe avuto luogo un processo al Tribunale del Popolo di un noto personaggio e l’istantanea condanna e la sera stessa l’esecuzione. Probabilmente, alludevano all’ambasciatore von Hassell, ma Santa e mia madre speravano di aver capito male.
Fu l’ultima volta, in quel periodo, che mia madre e Santa si poterono vedere. Ravenna fu liberata dagli Alleati il 4 dicembre 1944 ma Bologna solo nell’aprile del ’45. Era diventata impossibile ogni forma di comunicazione fino alla liberazione di tutta l’Emilia.


In famiglia il nostro pensiero era stato sempre vicino ai cugini tedeschi ai quali eravamo affezionati e noi tutti ne eravamo preoccupati. Si capì, molto dopo, che un certo atteggiamento di reticenza e di silenzio era comune in quel tempo alle famiglie di parenti e di nostra conoscenza. Forse anche i ragazzi dell’Accademia Militare, appartenenti a queste famiglie, avevano gli stessi sentimenti. Non sappiamo. Certo è da quel che si capì posteriormente nella primavera del ’45, da Santa Hercolani, che le reazioni del figlio maggiore dei von der Leyen, Wolfram, e dei suoi compagni all’Accademia Militare Tedesca, furono coraggiose e inusuali. Sembra, questo il racconto di Santa, che durante la proiezione di un documentario sull’esecuzione dell’Ambasciatore von Hassell avvenuta l’8 settembre del 1944 (trasmesso tempo dopo nell’Accademia probabilmente come violento e minaccioso ammonimento verso i giovani) sarebbe accaduto un fatto inaudito di ribellione in un Istituto di quel genere. Pare che i ragazzi voltassero le spalle allo schermo. La punizione inesorabile: furono spediti al confine russo-polacco in bicicletta, era già l’inverno ’44-’45, senza equipaggiamento adatto al rigore e al gelo di quel periodo. Furono in molti a non fare ritorno. Wolfram fu dato per disperso. In seguito, con molto ritardo, giunse la lettera del suo comandante ai genitori annunciando la morte avvenuta il 5 febbraio del ’45. Tutto ciò ho verificato con la figlia di Santa Hercolani, Albertina all’epoca benché giovanissima, vivendo a Bologna con sua madre, ricorda ancora oggi molti di questi fatti. Ma a volte non riusciamo a precisare le date di quel terribile autunno-inverno ’44-’45 per il grande isolamento in cui vivevamo tutti.


Purtroppo le notizie date a Bologna nell’ottobre ’44 da ufficiali tedeschi a Santa Hercolani erano state esatte. Il processo del Tribunale del Popolo avvenuto ai primi del settembre ’44 per umiliare l’Ambasciatore Ulrich von Hassell rimase nella storia contemporanea come esempio di una diabolica e perfida macchinazione nazista, per distruggere un patriota della cui fama avevano paura. Così fu interpretato da tutti. Ulrich von Hassell fu impiccato per disprezzo al gancio di un macellaio due ore dopo la sentenza di morte, pronunciata in un’aula allibita. Ma la sua figura nel tribunale era apparsa subito superiore a tutti, nobilissima: da accusato era diventato il massimo accusatore dei suoi stessi giudici che con infami parole avevano difeso la politica di Hitler condannando Hassell alla pena capitale. Ulrich von Hassell si ergeva davanti a tutti come esempio di dignità, di eroismo e di coerenza, come simbolo della “altra Germania”.
Sarebbe stato facile per lui nascondersi, forse anche andare all’estero ma la moglie stessa ripeteva dolente: non voleva nascondersi, non voleva sfuggire al suo destino. La sua coscienza era legata alla tragedia della Germania, voleva morire, solo così gli sembrava di poter redimere la Germania dal baratro dove Hitler l’aveva gettata. Questi i racconti sottovoce ma chiari tra Santa Hercolani e Ilse von Hassell quando si videro tempo dopo: questo il tormento degli ultimi tempi dell’Ambasciatore von Hassell, la Germania distrutta dalla follia di Hitler, l’esercito un tempo loro orgoglio, umiliato e paralizzato. Numerosi i generali e ufficiali condannati a morte o gettati in carcere12. In un certo senso Hassell sapeva di non avere più speranze, né sulla integrità della Germania di cui pur sempre era figlio, né sull’esercito umiliato. Aveva spesso con i suoi amici considerato la possibilità di una “pace separata” per poter riabilitare la Germania; ma questo sogno era diventato irrealizzabile. Non sentiva più un futuro per sé, né per l’onore della Patria, né per la dignità dell’esercito. Quante volte deve aver pensato a questa tragedia. Egli sapeva di essere ricercato sapeva che tutte le sue parole, i suoi gesti, i suoi contatti erano controllati, anche prima che scoprissero la loro congiura. Non c’era che una via, che una fine dignitosa, e questa forse, come interpretava la moglie, Ilse, e lo ripeteva agli amici angosciati, era ciò che desiderava: con la sua morte avrebbe dimostrato al mondo, all’Europa, alla Germania stessa che c’era un’“altra Germania”. Andava verso il martirio che per lui, come una religione, era l’unica liberazione, l’unica speranza consentita.


Gli autori dell’empio processo e dell’atroce morte stesero subito una mano diabolica di vendetta sul resto della famiglia. Prelevati con violenza anche i due figli ancora in tenera età di Fey von Hassell Pirzio Biroli.
Fey von Hassell Pirzio Biroli seppi molto dopo, fu deportata il 7 settembre del ’4413. Essa rimase prigioniera per otto mesi peregrinando con altri sospettati di antinazismo, amici e conoscenti, figli dei congiurati, tra i quali parte della famiglia di Klaus von Stauffenberg, il ben noto borgomastro di Lipsia Goerdeler, e molti altri, chiusi in convogli sigillati, in tutta la Germania, fino al confine con la Polonia, fino a Dachau e a Buchenwald per essere poi riportati a Innsbruck. Ammalati, senza medicine, né vitto, né abbigliamento invernale, sopravvissero ma loro stessi capirono che erano considerati ostaggi importanti, ad uso di scambio con rilevanti prigionieri tedeschi, ragione per cui “dovevano” vivere. Nella primavera del ’45 la situazione a Innsbruck era spaventosa fra la disintegrazione dell’esercito tedesco e l’avanzata degli Alleati. Alcune SS pur di sbarazzarsi dei pericolosi testimoni, i loro prigionieri, messe le mine stavano per far saltare il camion dove essi erano ricoverati. Fu il Generale Vietinghof che, saputo ciò che stava accadendo proprio durante il “cessate il fuoco”, tra Alleati e Tedeschi (l’esercito tedesco era ormai in disfacimento) diede ordine che sotto la sua giurisdizione nessun prigioniero civile poteva essere ucciso. L’Esercito Alleato ormai avanzava e occupava la zona.
Doveva essere l’aprile del ’45, ero a Roma: avevo incontrato Detalmo Pirzio Biroli in via dei Giubbonari. Non mi aveva visto. «Aspetta, gli gridai, dammi notizie». Lui rispose con voce strozzata: «cerco di partire per il Friuli per essere più vicino al fronte, nessuna notizia di Fey e dei bambini» e corse via.
Le comunicazioni erano impossibili: gli Alleati avanzavano lentamente nel nord Italia, verso il confine con l’Austria e la Germania, questa intanto precipitava nel caos, i Russi dalla Polonia da loro occupata sfondavano pesantemente sulla Germania del nord. Gli Alleati (truppe francesi) occupavano contemporaneamente la Baviera e la zona di Innsbruck. I prigionieri, tra cui Fey e i suoi compagni, furono portati prima a Innsbruck, poi ai confini con l’Italia, poi ancora verso Verona, ma sempre considerati prigionieri, perché di nazionalità tedesca, cioè di un paese ancora nemico e sconfitto. Poi di nuovo, sempre prigionieri, trasferiti a Napoli, per ordine del Quartiere Generale Alleato. Dopo molte sentenze ed ordini, riconosciuto il loro status di perseguitati dal regime nazista, furono finalmente liberati.
Detalmo Pirzio Biroli finalmente poté raggiunge Fey von Hassell. Questo avveniva nel luglio del ’45.


Ma occorre tornare a qualche tempo prima: dopo mesi dalla scomparsa dei bambini (settembre ’44) si era saputo, con grande ritardo (perché telefoni e telegrammi non funzionavano, le lettere impiegavano quattro o cinque mesi per giungere a destinazione) che Ilse von Hassell nel luglio del ’45 con la figlia Almuth si erano impegnate a visitare in mezzo a gravi difficoltà e rischi anche della vita, asili e istituti che raccoglievano bambini dispersi. Furono complicati itinerari, viaggi estenuanti. Ma gli istituti indicati non sapevano nulla delle piccole creature italiane disperse. Dopo mesi di ricerche febbrili spesso errate, in pellegrinaggi fino al confine polacco nelle zone occupate già dai russi, mai terrorizzate, con i disagi e rischi che dovevano affrontare anche della vita, madre e figlia von Hassell furono consigliate di ripiegare di nuovo verso Innsbruck, luogo dove i bambini erano stati visti l’ultima volta. I direttori degli istituti che visitavano erano perlopiù donne, alcune diffidenti che temevano ancora controlli della Gestapo e dopo i servizi inglesi. Alcune di queste non accettavano interferenze. Ma grazie al loro nome a Ilse e Almuth von Hassell furono concessi permessi di lascia passare e presentazioni ottenute dai comandi inglesi che subentravano via via ai militari tedeschi ormai senza esercito e senza ordini. Il caos era completo e attaccava tutti i settori sociali della Germania ad ogni livello. Infine a Innsbruck fu indicato loro un istituto che poi risultò distrutto, tutti i bambini trasferiti in un luogo ignoto. Infine le coraggiose Ilse e Almuth von Hassell individuarono una scuola che aveva raccolto bambini stranieri. Un’affabile direttrice disse che due bambini forse avrebbero potuto essere italiani, ma non avevano un nome italiano. Erano iscritti come von Hofer (avevano salvato le prime consonanti del cognome von Hassell). Fu un indizio. Furono accompagnate dai due bambini. Uno di essi, il maggiore, disse la direttrice, sembrava proteggere un bambino più piccolo, che ancora non parlava, e dal quale non si staccava mai. Mostrarono ai bambini fotografie della casa in campagna. Il grande sembrava riconoscerle, il piccolo invece aveva lo sguardo assente. Assalì loro il triste dubbio che il piccolo non fosse loro nipote e nemmeno italiano. Infine, nella disperazione, la nonna, Ilse von Hassell, come ultima mossa, estrasse dalla borsa altre fotografie e le mostrò al più piccolo. Il bambino all’inizio era indifferente ma ad un tratto puntò il ditino su una macchia bianca, sussurrando: “Mikko, Mikko”. La prova arrivò come un fulmine: il piccolo aveva riconosciuto nella macchia bianca il loro cavallino Mirko.
Questa fu l’ultima tappa, era luglio del ’45. La nonna Ilse von Hassell e la zia Almuth poterono riportare finalmente a Ebenhausen, in campagna i bambini. La confusione era sempre più incombente e rendeva le comunicazioni impossibili. In luglio subito la Signora von Hassell riuscì a spedire una lettera a sua figlia e a Detalmo in Italia, a Brazzà, dando la notizia che i bambini erano salvi presso di loro. Ma la lettera arrivò solo due mesi dopo quando già Detalmo e Fey dopo ritardi e disagi nella confusione generale erano potuti arrivare a Ebenhauser. Era la fine di ottobre. Queste notizie Santa Hercolani le ebbe direttamente da Ilse von Hassell e le trasmise subito a noi.


Dopo un anno i nipotini di Ulrich von Hassell, martire per un’“altra Germania”, separati dalla madre, sua figlia, poterono ricongiungersi con i genitori, essendo l’atroce vendetta nazista finalmente annientata.

Post scriptum    

Il Diario segreto (Die Hassel Tagebücher) pubblicato in Italia nel 199614. Ma i miei genitori erano già morti, e scomparsa tutta quella generazione, amica dei von Hassell. Ho confrontato i racconti dei miei genitori, dei loro amici e di Santa Hercolani, con sua figlia Albertina, e con Angela del Drago Spalletti, tutto coincideva.
Nel 2000 apparve la pubblicazione I figli strappati di Fey von Hassell15.


«Ero da zia Nives von der Leyen a Unterdiessen, negli ani ’60. La vedo ancora con gli occhi velati di lacrime, nell’atroce ricordo del figlio Wolfram, sparito con i compagni dell’Accademia, nell’inverno ’44-‘45, dopo l’episodio di ribellione descritto nelle pagine precedenti. Non piangeva mai. Teneva la testa sempre alta. Un giorno mi porse un libro di una giornalista inglese Elisabeth von Guttenberg,“Holding the stirrup”16. “Leggi”, mi disse. “capirai molte cose”. La giornalista inglese raccontava le vicende delle mogli di notabili tedeschi, come la stessa Ilse von Hassell. Esse come diceva la giornalista in gergo inglese, avevano “retto la staffa” per sostenere i loro mariti negli orridi anni del Terzo Reich».


«Ricordo sempre negli anni ’60 le passeggiate a Pommersfelden, le gite a Salisburgo per sentire i concerti e i cori meravigliosi dei giovani nelle chiese: era la nuova Germania del dopoguerra? O non era piuttosto quella della vecchia tradizione?
Vi era anche la moglie di Karl Schönborn, Baba Cadaval17, portoghese appena sposata che aveva portato un’atmosfera allegra, moderna e piena di vita».
«Eppure il fronte russo era appena a trenta chilometri di distanza, ma i giorni trascorrevano regolari. Passando in uno dei saloni, Pommersfelden era come una reggia, notai in mezzo alla quadreria e alle opere d’arte esposte un vuoto. Karl mi rispose subito che in caso di una improvvisa avanzata russa il prezioso tappeto (un tempo lì appeso) era già imballato e pronto per essere portato in salvo. Il pericolo, infatti, era vicino, quotidiano, scontato: non ci fu nessun commento. Silenzio. Anche se poco più anziani di me, portavano forse dentro di loro terribili immagini passate, atroci ricordi e dolori rifiutati? Essi non dovevano e non potevano essere espressi come quello della scomparsa del cugino Wolfram. Solo silenzio».



Bibliografia

W. Schirer, The Rise and Fall of the Third Reich, trad. it., Storia del Terzo Reich (2 vol), Torino, Einaudi, 1959-1960.



NOTE
1Erano sorelle del Principe Rufo Ruffo della Scaletta. Egli fu tra i promotori del Partito Popolare a Roma. Aveva avuto continui rapporti con Don Sturzo e Alcide De Gasperi.^
2Santa Hercolani era figlia del Principe Scipione Borghese, inviato speciale dal Ministero della Guerra e dal Ministero degli Esteri nel 1917 presso la Commissione della Giustizia a Mosca. La Russia era in piena Rivoluzione. L’accompagnò la figlia Santa; si era appena laureata a Bologna in Lettere e Filosofia. Negli anni seguenti, fatto ben raro in quel periodo, tra il ’22 e il ’24 fu invitata da una importante associazione italo-americana a tenere un giro di conferenze in America sulla politica italiana di quegli anni. È da ricordare che essa fu fin dall’inizio profondamente antifascista. Si sposò nel 1925 con il Principe Astorre Hercolani, di Bologna.^
3Cfr. W. Benz, Storia illustrata del III Reich, Torino, Einaudi, 2005, p.220. Si tratta di vari accenni al “circolo di Kreisau”, forse ne faceva parte perché nella lettura del suo diario Diario segreto 1938-1944, (Editori Riuniti 1996), sono citate le persone che frequentava come Molkte, Trott ed altri appartenenti appunto al Circolo Kreisau.^
4Era figlia del Grande Ammiraglio von Tirplitz.^
5Alludeva alla Bund Deutscher Mädel, dove le ragazze come servizio scolastico obbligatorio, seguivano corsi d’istruzione estremamente politicizzati. In questo Istituto della Lega delle Fanciulle Tedesche (W. Benz Storia illustrata…, cit., pp 67), nella “BDM Werk Glaube im Schönheit” le giovani tra i 17 e i 21 anni erano preparate al ruolo attivo di mogli e madri nello Stato nazionalsocialista ma dovevano essere imbevute dei principi su cui Hitler aveva impiantato la sua politica sociale: lo sterminio di qualsiasi fascia sociale che impedisse la purezza della razza ariana.^
6Si sposarono il 9 gennaio del ’40.^
7Vedere a pagina 98 e pagina 217 del diario, verifichiamo la notizia che conferma i miei ricordi.^
8Verifico le notizie che nel diario sono riportate a pagina 18 giacché nel diario riporta che il 25 novembre incontrò i nostri cugini Ruffo a Unterdiessen dai principi von der Leyen, cioè da zia Nives e zio Philip von der Leyen.^
9p. 27 del Diario.^
10Le SS (Sturm Staffe) non erano militari ma un corpo autonomo dipendente direttamente dal Fuerer, politicizzato al massimo, di cui la Gestapo era la Polizia Politica. Ben note fin dall’inizio le rivalità e i forti contrasti tra esercito e SS soprattutto per la differente concezione della guerra.^
11Egli, senatore, era stato ricercato dalla polizia a Roma e poi a Ravenna per aver sottoscritto in Senato la Dichiarazione del Sen. Rutigliano contro l’entrata in guerra. Mussolini, a quelle dichiarazioni, si era infuriato.^
12A Plotzsensee i militari incarcerati e poi trucidati furono più di 2.700. Tra i quali gli 86 coraggiosi ufficiali implicati nella Operazione Walchiria, tra essi Klaus von Stauffenberg, il generale Ludwig Beck e molti altri. A Flossenburg, il famigerato campo di sterminio, vennero giustiziati l’Ammiraglio Canaris e il Generale Oster, braccio destro di Canaris, figura chiave dell’opposizione a Hitler. Ma questi non sono che pochi esempi.^
13I due bambini, Corrado di cinque anni, Roberto di uno, barbaramente trascinati via dalla madre dagli ufficiali tedeschi.^
14Pubblicata da Editori riuniti nel 1996. Fu corredata dall’esemplare prefazione di Sergio Romano, da un’importante benché dolorosa lettera della vedova von Hassell e dall’indice dei nomi citati con relative date e note importanti.^
15Edizione dell’Altana, 2000. Con la bella prefazione di Giuliano Vassalli.^
161952, editore Duell.^
17La famiglia Cadaval era la più importante del Portogallo. Era sempre in rapporto di fiducia e di amicizia con eminenti uomini politici non solo del Portogallo ma soprattutto in Inghilterra.^
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