|
LA RIVOLUZIONE FRANCESE E L'ITALIA
di
Valeria Sgambati
Mito e storiografia della ‘Grande rivoluzione’- La Rivoluzione francese nella cultura politica italiana del ‘900†(Guida, 2006) raccoglie saggi editi e inediti di Antonino De Francesco per costituire un libro complesso e sfaccettato, che tratta con un’impostazione organica e coerente alcuni delle più importanti questioni della storia politica e della storiografia moderna e contemporanea. Vi sono descritte la genesi e l’evoluzione di tante “fatiche†storiografiche e di importanti tendenze e problematiche culturali e politiche, per circa due secoli, restituendole e collegandole debitamente al loro contesto storico, con tutti i condizionamenti interni e internazionali del caso, senza appiattire o banalizzare il discorso storiografico in termini ideologici o ridimensionare l’interna, resistentissima e fitta trama della storiografia, delle sue scuole, dei suoi maestri.
La “grande rivoluzione†si è prestata, più di qualsiasi altro problema storico e storiografico, a fungere da filtro e da prisma di tendenze e scelte culturali e politiche, tutte da configurarsi, necessariamente ma non deterministicamente, nell’ambito del loro presente storico, dell’attualità politica e sociale. E ciò soprattutto in Italia, dove, come ci ha ricordato l’autore, un libro sulla Francia è sempre un po’ anche un libro sull’Italia; e inoltre, considerando il fatto che dal 1789 al 1989 intercorrono due densissimi secoli di storia italiana, si capisce facilmente come si sia passati attraverso varie e anche contrastanti interpretazioni della rivoluzione, dal carattere talvolta originale e sovente ideologicamente “trasversaleâ€, vuoi nei giudizi positivi, vuoi in quelli negativi. Perciò non meraviglia che in questo libro si trovino in filigrana questioni importanti e anche irrisolte della storia contemporanea italiana: dal rapporto tra rivoluzione francese, risorgimento e fascismo al rapporto tra politica culturale, politica interna e politica estera dalla fine del XIX secolo al secondo dopoguerra; dal ruolo degli intellettuali italiani nel ’900, soprattutto durante il regime mussoliniano, al problema dell’esistenza e consistenza di una cultura fascista; dalle origini e dagli sviluppi del “ducismo†alla debolezza della cultura politica democratica; dall’antifascismo alla resistenza, dalla cosiddetta “morte della patria†al 1948. E quasi sempre i problemi che ruotano intorno alle eredità ed interpretazioni della rivoluzione francese sono affrontati in quella rara prospettiva storica in grado di coniugare effettivamente idee, uomini e problemi storico-politici a partire dal ’700 per arrivare alla fine del ’900.
Si analizza così la “gallofobia†post-napoleonica, assai diffusa in Italia dai primi dell’ ’800, la quale, pur da inquadrare in quella di tutta l’Europa continentale, presenta nondimeno tratti molteplici e caratteristici, accomunati dal rifiuto dell’esempio rivoluzionario e napoleonico di Francia, dalla condanna del robespierismo, del terrore e del “cesarismoâ€, e dal riconoscimento di un autonomo percorso politico italiano. E inoltre si mette in risalto il fatto che la “gallofobia†italiana, intrecciandosi col Risorgimento, annovera non soltanto esponenti del conservatorismo e moderatismo politico e sociale ( come per certi versi Manzoni) o “sabaudistiâ€, ma anche campioni del pensiero democratico, radicale, repubblicano e socialista, come figure ben note quali Mazzini e Pisacane , nonché altre minori figure, quali gli storici Carlo Tivaroni, Alessandro Groppali ed Ezio Maria Gray. Così come ci si sofferma sull’ampio spettro di posizioni e interpretazioni storiografiche e politiche della rivoluzione francese nel tormentato ’900 italiano, da Salvemini a Ferrero, da Barbagallo a Volpe, da Solmi a Morandi, da Croce a Gramsci, da Saitta a Ragionieri, da Salvatorelli a Cantimori, da Venturi a Chabod, da Maturi a Valiani, da Spellanzon a Omodeo, da Cusin a Garosci e a Diaz, per fare solo alcuni nomi importanti.
La convergenza di giudizio tra moderati e democratici italiani su aspetti essenziali della vicenda rivoluzionaria francese non denota, al contrario di quanto affermato tante volte, il tratto di “arretrata†eccezionalità , ma si configura, viceversa, «come l’ambito dove un fenomeno siffatto, per una situazione storica di grande originalità , troverebbe il modo di meglio rivelare, invece, la propria peculiarità ». E’ insomma, per De Francesco, un felice segno culturale e politico il fatto che persino Giuseppe Ferrari, cioè colui che contro le idee mazziniane in pieno secolo XIX additava l’esempio francese, ritenesse che la libertà non si fosse affatto coniugata con l’esperienza repubblicana di Francia, fino a quel momento storico, e che la nuova Italia «avrebbe dovuto aver la forza per fare da sé sulla via della democrazia nel concerto europeo»; così come lo è il fatto che Delio Cantimori a partire dagli anni tra le due guerre valorizzasse «una tradizione intimamente nazionale» dell’utopismo e del radicalismo politico italiani, i quali «talune opzioni avrebbe(ro) condiviso con l’esempio di Francia senza non di meno mai subirlo».
Se si vuole rintracciare nel libro uno dei nuclei centrali delle ricerche e dei ragionamenti di De Francesco, si può dire che è nell’individuazione dell’originalità e ricchezza della storiografia italiana sulla rivoluzione francese e segnatamente di quella appartenente alla sinistra di derivazione risorgimentale e democratica, che è stata a lungo e ingiustificatamente trascurata e criticata negli ultimi 50 anni, soprattutto perché più incline a valorizzare il 1789 piuttosto che il 1793, e a vedere gli effetti perversi e di lunga durata del bonapartismo, considerato il più diretto antenato dei totalitarismi del ’900. Una originalità e una ricchezza interpretativa che oggi, dopo il revisionismo storiografico francese relativo alla grande rivoluzione, a partire dal Furet degli anni ’70, e con la fine del secondo dopoguerra, avvenuta nell’89, meritano di essere ricordate e valorizzate. In controtendenza, evidentemente, con la “corsa storiografica†imperante dopo la seconda guerra mondiale, tendente a far prevalere il mito dell’anno II, a rivalutare figure politiche giacobine, come Filippo Buonarroti, a fare della gallofobia «una chiara prova degli irreversibili destini autoritari dell’Italia della terza Roma». E questa corsa storiografica, secondo l’autore, sarebbe soprattutto servita a espungere e rimuovere in modo drastico quanto miope l’elaborazione politica e culturale di più generazioni di storici italiani, anche di chiara fede democratica e progressista.
Di più, questa corrente storiografica dalle ascendenze democratiche e radicali è stata appiattita e confusa con la storiografia di parte liberale e se n’è mortificata «la diversità delle origini al punto – come ha scritto l’autore – da far(la) rientrare come dimostrazione aggiuntiva nel più ampio quadro dell’insofferenza italiana verso il 1789», secondo le tesi di Furio Diaz e degli storici di area marxista e gramsciana, in particolare. E nemmeno negli ultimi anni, cioè dopo l989, quando era ormai crollato il mondo sul quale aveva retto la storiografia del secondo, lunghissimo dopoguerra si è positivamente dischiuso un qualche ritorno d’attenzione verso un indirizzo di studi dalla pronunciata passione in senso democratico, lasciando così un importante discorso storiografico ancora ingiustificatamente trascurato e interrotto.
La più vistosa conseguenza di questa tabula rasa è stata quella di cancellare i tratti più originali della storiografia italiana sulla rivoluzione francese, che, secondo De Francesco, vanno ravvisati nei decenni a cavaliere tra Otto e Novecento, quando reinterpretando il 1789 taluni storici fecero perno proprio su quella data epocale per definire l’ampiezza e i limiti della via nazionale alla modernità .
Va insomma giustamente riscoperto il lungo filo rosso storiografico e politico che unisce Mazzini, Tivaroni, Lombroso, Mario, Arturo Labriola, Ferrero e Salvemini, per citare alcuni nomi. E proprio Salvemini, con la sua opera sulla rivoluzione francese, edita più volte, da primi anni del ’900 al secondo dopoguerra, è forse il caso più rappresentativo di questa tendenza storiografica legata alla cosiddetta école italienne. Infatti la sua opera - che è stata influenzata dalle riflessioni di Tocqueville, Jaurès e soprattutto di Taine e originata dall’esigenza di indicare alla sinistra italiana dopo la crisi di fine secolo una via simile a quella percorsa nei primi anni della rivoluzione francese, onde evitare la degenerazione rivoluzionaria e terroristica successiva - ha il merito di dare, come ha scritto De Francesco, «una originale collocazione alle molte suggestioni d’ordine politico e culturale che attraversavano la galassia del democraticismo italiano di fine secolo XIX», derivanti in maggior parte dalla cultura politica risorgimentale, e perciò «segna la data di nascita della moderna storiografia italiana sul 1789», rappresentando pure uno degli esempi più compiuti del tenere insieme storia ed esperienza politica.
Col suo scritto, comparso per la prima volta nel 1905, Salvemini rileggeva, e pour cause, soltanto i primi anni seguiti al 1789, fermandosi notoriamente a Valmy con l’esclusione del momento giacobino, e così facendo riconosceva alla rivoluzione il merito di avere concluso l’epoca del sopruso e del privilegio, ma al contempo indicava come, «nell’esempio di Francia e nella degenerazione autoritaria che la classe dirigente rivoluzionaria non solo non aveva impedito, ma per larga parte aveva insipientemente e imprudentemente favorito, fosse un monito a che un partito socialista profondamente diviso tra un’ala riformista ed altra massimalista, incapace di dare risposta ai problemi che il Mezzogiorno e il mondo contadino drammaticamente ponevano, lusingato vuoi dalle sirene rivoluzionarie, vuoi dal richiamo d’un ministero radicale adombrato da Giolitti, non ripetesse gli errori di allora, clamorosamente mancando al proprio compito storico di costruire in Italia una autentica democrazia».
Dopo la prima guerra mondiale, con la pesante “eredità di Versagliaâ€, si afferma invece in Italia una diversa prospettiva culturale e storiografica, destinata a guadagnare presto consensi e diffusione grazie all’affermarsi del nazionalismo e del fascismo, incentrata sulla polemica antifrancese e antiwilsoniana e sulla contrapposizione nei confronti degli interventisti di sinistra e della democrazia, nonché orientata a decisamente a rivendicare un’identità affatto italiana e contrapposta a quella di Francia. E questa nuova prospettiva storiografica, come spiega l’autore, avrebbe molto contribuito a ridestare tra gli storici italiani entre deux guerres una particolare attenzione nei confronti dell’800 politico italiano, in particolare rivolta ai temi della risorgimentistica, e nei confronti del primo ’800 francese (cioè Tocqueville, Constant, de Stael).
Nel periodo del totalitarismo fascista, «la riscoperta dei classici politici della Francia di primo Ottocento – ha scritto De Francesco – significava […] contrapporsi ad una lettura della storia europea che puntava a presentare sotto il segno della distorsione la stagione chiusa dal 1789 e sfociata nella Grande Guerra; ed era una scelta storiografica precisa e coraggiosa, perché proprio nell’interpretazione di un Ottocento sotto il segno della plutocrazia, una lettura che pure aveva iniziali ascendenze di parte democratica, stavano tanto il seme delle fortune totalitarie quanto il presupposto per quella nuova idea d’Europa auspicata dal fascismo». Ed era una scelta storiografica che accomunava, pur con intenti e contenuti diversi, tanto Gioacchino Volpe quanto Adolfo Omodeo.
Nondimeno, durante il ventennio soprattutto nell’ambito degli antifascisti, da Ferrero a Vinciguerra, da Salvatorelli a Nello Rosselli , veniva alimentato in termini storiografici il lascito politico, pur diverso, di Amendola e Gobetti che avversava qualsiasi forma di statolatria accentratrice e totalitaria, in nome dei principi del costituzionalismo e della prassi democratica; ma veniva anche alimentato, nel ramo gobettiano in particolare, un pensiero che puntava talvolta ad una lettura svalutativa dell’Ottocento italiano e anche del Risorgimento, e a una decisa rivalutazione del ’700 politico e filosofico. Così avviene che, da un lato, il giovane Franco Venturi, anticipando largamente un interesse destinato a crescere nella storiografia italiana fino a tutti gli anni ‘60 e oltre, si accosta alla figura del “giacobino†Filippo Buonarroti; e d’altro lato avviene che Luigi Salvatorelli si orienta ad analizzare in un unico ambito problematico il XVIII e XIX secc., e in particolare la stagione napoleonica e il Risorgimento italiano, l’incontro tra l’Italia, la rivoluzione francese e Bonaparte.
«Così facendo – sostiene De Francesco – Salvatorelli manteneva comunque il proprio collegamento con l’indirizzo culturale che aveva trovato in Gobetti e Ferrero, per la via politica di Giovanni Amendola, un chiaro riferimento: perché se è vero che stavolta non era l’intera stagione rivoluzionaria a finir sommersa dai flutti del Settecento, resta ugualmente certo che salvando gli anni rivoluzionari ed accusando Napoleone di averli anzi devitalizzati diveniva possibile mantenere in vita quella preclusione antibonapartista, quale ambito dove l’Ottocento italiano avrebbe preso forma, che abbiamo visto attraversare a tutto campo, ma soprattutto a sinistra, la cultura politica dell’Italia unita». E ancora a proposito dell’attenzione rivolta all’Ottocento italiano, si sottolinea pure il significativo caso dei fratelli Rosselli, le cui diverse valutazioni storiche riflettevano una prospettiva politica differente: «nella costruzione della futura democrazia italiana – ha scritto l’autore – l’uno (Nello n.d.a.) guardava in modo particolare ai vinti del Risorgimento e dunque confermava una lettura storiografica di taglio propriamente nazionale, l’altro (Carlo n.d.a.) suggeriva di volgere altrove l’attenzione e contro un Risorgimento che poco o nulla poteva dare proponeva di recuperare altresì quella cultura politica rivoluzionaria di cui la Francia, dal 1789, sempre aveva dato prova».
Durante il fascismo, mentre il duce sembrava rimanere ancorato alle sue origini babuviste e dunque fermo nell’opposizione alla dimensione borghese della rivoluzione, negli ambienti accademici e politici, il rapporto con la Francia e la rivoluzione francese si può dire che divenne più complicato e ondivago, poiché in esso si riflettevano tanto contingenze e scelte politiche, quanto orientamenti ideologici e opzioni culturali, che ad un’attenta analisi si rivelano più differenziati di quanto si possa immaginare, attraversando le diverse anime del fascismo, quella nazional-liberale, quella sindacalistico-rivoluzionaria, quella sociale e corporativa.
Ancor prima della campagna “antiborghese†e della nuova politica estera degli anni Trenta, ovvero subito dopo i patti Lateranensi, vi fu un fermento di posizioni e reazioni fasciste a proposito della Grande rivoluzione, dirette soprattutto contro gli splendori sanfedistici e antirivoluzionari che si erano fatti strada; così come lungo tutti gli anni Trenta, «in accordo ad un quadro internazionale destinato a drammaticamente peggiorare, la preclusione nei confronti della rivoluzione francese» era divenuta anche «uno strumento polemico contro la III Repubblica, ritenuta la naturale erede politica di quanto di peggio il 1789 avesse consegnato al mondo contemporaneo», ma anche un fondamentale argomento finalizzato a «sostanziare la contrapposizione, in termini competitivi, ad un bolscevismo accusato di comunque restare nel solco filosofico degli avvenimenti d’Oltralpe».
Sempre di più, la diversa valutazione degli “immortali principi†e del loro rapporto col Risorgimento e col fascismo diventano un criterio e un ambito culturalmente e politicamente selettivi. A fronte del “fascista critico†Bottai, con il seguito di numerosi e autorevoli intellettuali, che manteneva un equilibrato giudizio sulla rivoluzione francese e leggeva in una linea di continuità il nesso tra quest’ultima e il 1922, anno della rivoluzione fascista, stava, per esempio, Ugo Spirito, filosofo attualista, allievo di Gentile e teorico del corporativismo integrale, che considerava rivoluzione francese e non quella bolscevica antitetica alla rivoluzione fascista; mentre nel mezzo stavano i sindacalisti rivoluzionari i quali, ricalcando le orme di Sorel, contrapponevano irriducibilmente il 1922 al 1789, da cui sarebbe cominciata la deriva individualistica e plutocratica borghese.
Sul piano prettamente storiografico, si può dire che tanta parte degli storici italiani durante il ventennio, pur mantenendo un forte legame con la tradizione storiografica nazionale e valorizzando l’originalità del pensiero politico italiano – segnatamente quello dell’Ottocento, che consentiva pure di mettere in risalto il nesso tra Risorgimento e fascismo – nondimeno se ne discosta significativamente, anche grazie all’influenza della storiografia francese, procedendo spedita nella inusuale rivalutazione di Robespierre e Bonaparte, del Terrore e del Brumaio.
Proprio durante l’edificazione dello stato totalitario, scoperta diviene l’analogia tra Robespierre e Mussolini e il rifiuto degli “immortali principiâ€, del 1789, fa diventare il 1793, il terrore, «la data d’avvio del rifiuto di quel liberalismo che soltanto il 1922 avrebbe affossato». Così per Raffaele Di Lauro, che considerava la rivoluzione francese non rinnegata ma superata dal fascismo, Robespierre va riabilitato perché antesignano dell’antiparlamentarismo; così per Giuseppe Maranini – la cui opera Classe e stato nella rivoluzione francese fu subito recensita da Georges Lefebvre – il quale dà un pessimo giudizio sulla Gironda e svaluta gli esiti istituzionali e sociali dell’89, considerandoli disarmonici e negativi.
Queste interpretazioni storiografiche di epoca fascista, che riecheggiano quelle d’Oltralpe (da Jaurès a Mathiez e Lefebvre) e che contribuirono a far eclissare l’originale tradizione interpretativa italiana, mantenutasi in qualche modo nel periodo tra le due guerre grazie a Ferrero e Salvatorelli, si sono significativamente annidate e sviluppate in tanta parte della storiografia italiana del secondo dopoguerra, sia pure con un rovesciamento di segno ideologico-politico ma non di significato.
Insomma, dal fascismo al comunismo non può considerarsi, come pure è stato fatto, il passaggio opportunistico e superficiale di molti intellettuali formatisi tra le due guerre, perché attiene ad una complessa storia culturale italiana e coinvolge una vasta trama storiografica. C’è senz’altro, da un lato, il trionfante totalitarismo politico e istituzionale, che imprimeva e irretiva più generazioni di intellettuali; dall’altro lato, ci sono pure opere storiografiche che rilanciavano in termini nuovi l’interesse per la rivoluzione francese, vieppiù considerata, da destra come da sinistra, la deriva “borghese e plutocratica†della moderna società europea.
«La lettura tutta favorevole alla Montagna e al robespierrismo, ha scritto De Francesco, ha trovato il modo di agevolmente superare il crollo del regime e di puntualmente riproporsi nella storiografia italiana dell’immediato dopoguerra, dove, non a caso sotto un segno ideologico presto comunista sarebbe avvenuta la (ri)scoperta jauresiana ma anche di Mathiez e Lefebrve». Con buona ragione, è questo «un aspetto a lungo passato inosservato all’interno della riflessione storiografica sull’interesse per il 1789 nell’Italia del secondo dopoguerra; e tuttavia non è certo un dettaglio di poco conto, perché le fortune del robespierrismo e dell’anno II nell’Italia degli anni Trenta possono valere da utile osservatorio per prospettare in termini più articolati di quanto tradizionalmente accolto la trasmigrazione, sotto le insegne del comunismo, di una generazione intellettuale cresciuta sotto gli auspici del fascismo». Da Maturi a Saitta, a Cantimori.
Se dunque è facile individuare nella temperie totalitaria i motivi di questa trasmigrazione, non solo italiana ma europea, più difficile è invece spiegare come e perché in Italia «dopo il 1945, si potesse correre a raccolta in storiografia sotto le insegne del giacobinismo e nella lotta politica tener fermo sul rifiuto sempre e comunque della democrazia». E ciò perché ci porta «oltre il dato storiografico per investire le modestie e le insufficienze delle prime stagioni culturali della Repubblica e per una via siffatta riproporre la questione dei termini sostanzialmente autoritari che innervarono, anche da sinistra, la vita civile italiana del secondo Novecento». E forse, viene da dire, anche perché nel giacobinismo non riluce il carattere propriamente rappresentativo della democrazia, ma quello più ambiguo della “volontà generaleâ€; e inoltre, viene da aggiungere, perché molto poco nel secondo dopoguerra si diffusero e s’imposero le culture e le pratiche politiche “girondineâ€, liberaldemocratiche, democratiche e socialdemocratiche.
Eppure, dopo il ’43 sembrarono riprendere vigore le idee e le tesi storiografiche liberaldemocratiche che avevano una importante tradizione nel paese e che negli anni ’30 avevano avuto nell’esule Guglielmo Ferrero l’importante continuatore, soprattutto grazie alla sua riflessione sulla rivoluzione francese e sul modello autoritario rappresentato dal bonapartismo, primo esempio di cesarismo e di totalitarismo impostosi nel XX secolo. Da tutta un’area intellettuale e politica, legata in particolare all’azionismo, e rappresentata da Omodeo, De Ruggiero, Salvatorelli e altri ancora, con le loro riviste «L’Acropoli» e «La Nuova Europa», si affrontarono coraggiosamente e innovativamente molte tematiche culturali e politiche che riprendevano positivamente la tradizione repubblicana e democratica italiana, nonché le riflessioni di Tocqueville, Quinet, Salvemini e Ferrero sulla rivoluzione francese.
Ma ben presto questa promettente riflessione storiografica, che aveva anche il merito di mantenere vitale e positiva la tradizione risorgimentale, divenne una realtà minoritaria e si ridusse al silenzio, mentre diventava prevalente, complice anche il pensiero storico francese, l’indirizzo marxista e gramsciano, a cui aderivano non pochi storici di formazione fascista, proteso ad esaltare l’ “altro Risorgimentoâ€, Buonarroti e non Mazzini, Pisacane e non Cavour, insieme al giacobinismo e al robespierrismo.
Inoltre, «all’indomani del 1945 – ha scritto De Francesco – nulla sarebbe dunque rimasto delle letture d’impianto
sabaudista volte a negare una filiazione del movimento nazionale italiano dall’esempio francese e niente si sarebbe conservato d’una lettura (d’origine pur risorgimentale) che faceva dell’opposizione ai francesi da parte delle collettività della penisola la dimostrazione di un primo straordinario sentimento d’italianità delle plebi: molto invece si sarebbe trattenuto, seppur collocato sotto un segno ideologico affatto mutato di quanto altra storiografia, pienamente inserita nella politica culturale del regime, avrebbe prodotto nel corso del Ventennio circa il nesso tra la tradizione politica dell’Italia risorgimentale e l’esempio della rivoluzione di Francia».
Quanto alle ragioni dell’effimera egemonia liberaldemocratica, De Francesco invita a ripensare taluni atteggiamenti e vicende politiche. In primis, la tragedia del 1943 e la successiva guerra civile con «lo scontro culturale subito violentissimo in seno all’antifascismo impedirono di riannodare un discorso politico sul registro della tradizione nazionale» e poi la convulsa stagione di avvio dell’Italia repubblicana, all’insegna della radicalizzazione politica e sociale ma anche della sopravvivenza di un certo autoritarismo repressivo.
Nondimeno, a mio giudizio, resta da interrogarsi ancora sul fatto che troppi intellettuali di fede azionista e democratica abbandonarono presto il loro campo culturale e politico oppure si lasciarono sedurre dalle sirene gramsciane e financo sovietiche; e sul perché il loro il riferimento politico, lo sfingeo partito d’azione, si era dissolto così rapidamente nel 1947, travolto dalle divisioni interne che non avevano trovato la necessaria sintesi politica e avevano sancito la dura sconfitta dell’ “ala politicaâ€, più liberal-democratica che socialista, più legata ad Amendola e Salvemini che a Carlo Rosselli e Gobetti; e tutto questo non sarebbe stato privo di conseguenze culturali e politiche.
L’oblio che circondò l’opera di Guglielmo Ferrero, da un lato, e la sufficienza o indifferenza che accompagnarono la riedizione della storia della rivoluzione francese di Salvemini nel secondo dopoguerra, dall’altro, risultano esemplari della nuova stagione storiografica e politica che si era dischiusa. E ancora di più all’indomani del 1948, come era del resto prevedibile considerato il particolare clima politico, «la storiografia italiana sulla rivoluzione – ha sostenuto De Francesco – avrebbe avviato un lungo tragitto al fondo del quale le molte acquisizioni non possono far velo alle non poche cancellazioni». Ed è facile pensare che questa memoria corta e divisa della storiografia italiana democratica e progressista certamente non ha agevolato la formazione e lo sviluppo di una politica culturale all’altezza dei tempi storici e politici e non ha nemmeno aiutato l’elaborazione di una cultura politica più moderna nell’ambito delle forze di sinistra nel nostro paese.
Anche per questo, ci suggerisce De Francesco, oggi va recuperata anche se non esaltata una «vicenda culturale dimenticata, il cui tratto sostanzialmente distante dal liberalismo (oltre che dal marxismo n.d.a.) ha reso di difficile interesse anche dopo 1989, quando il crollo del mondo sul quale aveva retto la storiografia del secondo dopoguerra pure avrebbe potuto dischiudere un qualche ritorno d’attenzione verso un indirizzo di studi dalla pronunciata passione politica in senso democratico».
E di questo necessario recupero, dall’ampio e profondo respiro culturale e politico, il libro di De Francesco traccia meritoriamente la strada maestra.
|