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Sulle tracce degli zingari
di Giovanni Brancaccio
Nel leggere il bel volume di Elisa Novi Chavarria, Sulle tracce degli zingari. Il popolo rom nel Regno di Napoli. Secoli XV-XVIII, apparso nella collana “Prima pagina” diretta da Giuseppe Galasso, per i tipi di Guida (Napoli 2007), confesso di aver provato una forte emozione, che mi ha ricondotto indietro nel tempo, alla fine degli anni Cinquanta, quando fanciullo nelle stradine del centro storico del paese dei miei nonni materni, Sant’Angelo de’ Lombardi, ascoltai, per la prima volta, dalla stentorea voce dell’arrotino ambulante la seguente litania “propagandistica”: “mola forbici e rasoi”. Alto e snello, con la carnagione scura, i capelli lunghi ed arruffati, il signor Persio Cingari, era per i paesani lo “zingaro”, ma era anche – l’ho capito molto tempo dopo – l’epigono di un’attività lavorativa, che i rom si erano trasmessi per intere generazioni. Un lavoro, certo povero, ma che aveva permesso a quanti lo avevano scelto o “ereditato”, di spostarsi da un posto all’altro con i loro umili arnesi, quasi continuando la vita nomade dei loro avi. Accanto a quel ricordo, la lettura del libro della Novi Chavarria mi ha fatto scorrere nella mente il susseguirsi dei fotogrammi del film Il tempo dei gitani del regista bosniaco Emir Kusturica, apparso venti anni fa, che con una commistione di tragico e grottesco, privilegiando talvolta dimensioni surreali, ci ha condotto, per così dire, per mano nel singolare mondo degli zingari, facendoci riflettere, soprattutto in maniera meno stereotipata, sulle loro usanze, sul loro sistema di vita e di valori.
Sebbene il volume della Novi Chavarria emani in alcune sue pagine il fascino di un racconto, tale da evocare emozioni e ricordi, va subito detto che il lavoro è una seria, puntuale ricerca storica, fondata su una cospicua messe documentaria sapientemente rinvenuta in numerosi archivi e sulla riflessione critica della più aggiornata produzione bibliografica relativa all’argomento.
Provenienti dall’India, gli zingari in più flussi migratori, attraverso la Persia e l’Armenia, giunsero nei domini bizantini, da dove poi passarono in Siria ed in Egitto, prendendo il nome di Egiptii. A metà del secolo XIV, gli zingari si erano distribuiti in Grecia, nel Peloponneso e nelle isole Ionie, nei territori della Serbia e nel nord dei Balcani. Lungo la traiettoria che li aveva portati dal subcontinente indiano alle rive del Mediterraneo, quelle popolazioni nomadi avevano arricchito il loro linguaggio di termini persiani, curdi e greci ed avevano acquisito taluni elementi religiosi dell’islamismo e del cristianesimo. Agli inizi del ‘400, dalla penisola balcanica gli zingari si spinsero verso il cuore dell’Europa. L’avanzata dei Turchi e la caduta, nel 1453, di Costantinopoli furono all’origine di nuovi spostamenti lungo due principali traiettorie: la prima, terrestre, verso la Germania, la Scandinavia, la Francia e l’Italia; la seconda, marittima, dalla vicina Grecia al Mezzogiorno d’Italia e, quindi, alla Sicilia, all’Andalusia e più tardi alla Sardegna. E’ un merito della Novi Chavarria aver puntualizzato come fosse il Muratori nella sua opera Rerum Italicarum Scriptores a ricostruire le tappe dell’arrivo degli zingari in Italia. Nel 1422, gli zingari, valicati i passi alpini, erano a Bologna; circa venticinque anni, erano giunti a Modena, Reggio Emilia e Ferrara, dove militavano come mercenari al servizio degli Estensi. Quasi contemporaneamente a questo flusso terrestre proveniente dal nord, un altro gruppo ugualmente consistente si trasferì dalla vicina Ragusa, insieme con Greci, Albanesi, Dalmati e Serbo-Croati nel Regno meridionale, dislocandosi, inizialmente, negli Abruzzi, nel Molise e nelle Puglie. Gli zingari che arrivarono a Napoli e nelle regioni tirreniche del Regno, invece, provenivano, lungo la traiettoria terrestre, dal nord Italia. Loise de Rosa registrò il loro arrivo al seguito del cosiddetto duca di Egitto nel periodo compreso tra il 1422 ed il 1435; i documenti della Regia Camera della Sommaria confermano la presenza degli zingari a Capua (1445), Gaeta (1470) Cerreto Sannita e San Lorenzello (1493). Nella capitale particolare fortuna incontrò uno zingaro che per la sua bravura fu assunto come cuoco presso la corte di re Ferrante. Ma, non v’è dubbio che la maggiore penetrazione di zingari a Napoli si avesse negli anni seguenti, durante il regno di Carlo V, quando dalle “provincie” regnicole si riversarono nella capitale miglia e migliaia di contadini e braccianti agricoli ai quali si aggiunse un’ondata di Greci, Schiavoni e, appunto, zingari. E’ significativo che durante il regno di Carlo, l’imperatore promulgasse una serie di editti, miranti all’espulsione degli zingari dalla capitale e dal Regno. Tuttavia, i reiterati decreti di espulsione non trovarono forme di concretezza, se è vero che gli zingari nel 1585 erano ancora presenti a Napoli, benché alloggiassero fuori dalla cinta muraria, nella zona detta delle Case Nuove, dove del resto continuarono ad abitare anche nei decenni successivi, come testimoniarono, nella prima metà del Seicento, il Capaccio ed il Celano nelle loro “guide turistiche” ante litteram per i forestieri. E, va ricordato, al riguardo, che nella toponomastica della Napoli contemporanea esiste una via degli zingari nella zona del Ponte Casanova. Ma ciò che più conta osservare è che attraverso lo studio dei Registri dei battesimi della parrocchia di S. Maria la Scala di Napoli relativi al periodo 1570-1636, la Novi Chavarria conferma, in maniera incontrovertibile, lo stanziarsi di nuclei zingari in quella zona della città, come appare dall’onomastica dei cognomi registrati negli atti battesimali, tra i quali figuravano numerosi Zingaro, Cingali o Egizio. Lungo la traiettoria terrestre, gli zingari penetrarono, attraverso il fitto reticolo delle vie erbose, nel Matese, nell’Appennino abruzzese (Pratola Peligna e Penne), nel Molise e in Capitanata. Mostrando grandi capacità di adattamento, gli zingari si dedicarono ad una serie di lavori rispondenti alle diversità geomorfologiche del territorio meridionale. Mentre nelle zone portuali (Manfredonia, Trani, Taranto, Reggio Calabria e Cetaro) furono dediti all’arte ed al commercio del ferro; nelle aree montuose, invece, si occuparono dell’armentizia e del commercio dei cavalli; infine, nelle aree agricolo-pastorali si dedicarono al lavoro dei campi. Dall’analisi di numerosi testamenti di zingari che si trapiantarono nel Molise, in particolare a Jelsi, denominata terra de giptia, la Novi Chavarria, sulla scorta delle indicazioni metodologiche di Michel Vovelle, non solo fa luce sulla consistenza patrimoniale di alcune famiglie zingare, quanto mette in evidenza le loro credenze religiose, i loro riti funebri, in particolare l’uso di ardere e bruciare la cera bianca a Jelsi e quella rossa a Vinchiaturo sul corpo del defunto, nella quale usanza la studiosa ha voluto scorgere il manifestarsi di un sincretismo religioso, fatto di elementi originari dell’India e di elementi cristiani. Seguendo le fortune economico-sociali delle famiglie Zingaro di Mirabello Sannitico, la Novi Chavarria risale al loro sistema di trasmissione ereditaria, che non escludeva le donne dal possesso della terra, al loro configurarsi come clan ed alla formazione di una sorta di quartiere lignaggio nel comune molisano. Particolare interesse assume poi l’inventario dei beni di Presedia Zingaro del 1611, dal quale si ricava che il corredo della donna era ricco di capi di biancheria, molti dei quali ricamati finemente, di stoviglie di ogni tipo, mobilio, abbondanti scorte di generi alimentari, gioielli e soprattutto di capi di abbigliamento dai colori molto vivaci.
Accanto a nuclei seminomadi, che continuarono a girovagare per le contrade meridionali, altri nuclei stanziali si insediarono a Lucera, Foggia, Troia, Serra Capriola, Sansevero, Squinzano, San Cesario e Galatone. Dalla Numeratione dei fuochi di Terra d’Otranto del 1574, la Novi Chavarria desume un quadro preciso della onomastica degli zingari. Mentre fra i nomi maschili, accanto a quelli classici ed orientali (Serse, Pompeo, Melchiorre) e di derivazione letteraria (Morgante, Astolfo, Brancolino), erano diffusi quelli comuni (Giovanni, Giuseppe, Angelo, Francesco e Antonio), che testimoniavano il maggiore processo di integrazione degli uomini, per i nomi femminili, a causa della minore integrazione delle donne zingare, persisteva una onomastica di derivazione classica ed orientale (Livia, Aurelia, Diana, Ottavia, Virgilia, Presedia e Semidea). Si è già fatto cenno alle principali attività lavorative degli zingari e si è posto in rilievo come l’arte della lavorazione del ferro fosse da loro molto praticata. Producendo chiavi, coltelli, trepiedi, graticole, palette e spiedi, gli zingari riuscirono ad inserirsi negli spazi non assoggettati ai vincoli di produzione della corporazione del ferro; quando, però, la crisi del ‘600 si estese anche al settore del ferro, la loro piccola produzione subì un forte tracollo. Assimilati ai poveri, ai vagabondi e ai briganti, accusati di furto, borseggio, malefici e arti divinatorie, considerati elementi pericolosi e sediziosi, gli zingari furono espulsi da Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Milano ed anche dalla Francia e dall’Inghilterra. La Chiesa di Roma adottò verso gli zingari, ritenuti pericolosi per le loro pratiche magiche, per le loro credenze e per i loro usi matrimoniali, una duplice politica, repressiva per un verso e tollerante per l’altro. Per il fatto che gli zingari fossero una sorta di serbatoio per la manovalanza banditesca e fossero dediti all’abigeato, il termine zingaro nel corso del Settecento divenne sinonimo di ozioso e di vagabondo. Cessò allora l’attenzione benevola che la pittura (Caravaggio, La Tour, de Boulogne, Luca Giordano) e la letteratura (Folengo, Cervantes e Basile) avevano riservato al mondo degli zingari e si accentuò la politica della loro emarginazione, della loro esclusione sociale. Il termine zingaro assunse allora un’accezione essenzialmente negativa. A sintetizzare quella marcata posizione preconcetta, largamente condivisa dalle popolazioni regnicole, fu Celestino Galiani, che nella relazione del 1729 sulle comunità zingare, diretta al cardinale d’Althann, definendo gli zingari “gente facinorosa, furfanti, ladri e banditi”, sollecitò il viceré austriaco ad espellerli dal Regno.
A conclusione del suo lavoro, l’Autrice stigmatizza qualsiasi forma di prevenzione verso poveri e marginali, sottolinea opportunamente il ruolo avuto dagli zingari nella formazione di quella che Jacques Le Goff ha definito “civiltà meticcia” d’Europa e riconosce la loro importante funzione in quel “luogo di mescolanze etniche e coesistenza culturale, di circolazione delle idee e mobilità delle persone, di accettazione del diverso e di integrazione delle minoranze”, che è stato ed è tuttora il Mediterraneo.
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