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La caverna platonica in immagini letterarie novecentesche
di
Fulvia de Luise
Ancora nella caverna. La ricerca di Alessandro Miorelli (Ancora nella caverna. Riscritture narrative tardo-novecentesche del mito platonico della caverna, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento, 2006) si muove dentro il potere di un’immagine che ha già in sé complicate stratificazioni. La persistenza di un archetipo di portata antropologica e la suggestione della celeberrima pagina platonica tendono a sovrapporsi e nello stesso tempo ad agire insieme, come significanti attivi, nel medesimo luogo metaforico. Da scenari ancestrali, la cavità evoca il grembo e la spelonca, lo spazio raccolto di ogni possibile tutela umana, ma anche l’angustia claustrofobica che spinge a forzare la soglia, dove si colloca il limite tra il dentro e il fuori. In questo spazio simbolico, Platone colloca un evento dirompente (la liberazione del prigioniero dalle ombre dell’antro) il cui potere distorsivo non ha cessato di incidere sull’immaginario colto dell’Occidente, mutando senso all’archetipo senza distruggerlo. Così la caverna non smette di significare lo spazio chiuso dell’esistenza, ma rappresentarla vuol dire anche misurarsi con la scena platonica, dove accade che il senso umano della realtà si modifichi in modo irreversibile. Per questo non è possibile trattarla come un generico simbolo della condizione dell’uomo: la caverna è diventata un luogo frequentatissimo dell’immaginario, attraversato dai conflitti della storia, un “campo-immagineâ€, per dirla con Miorelli, in cui si deve “entrare ancora†ogniqualvolta appare necessario interrogarsi sui parametri di fondo di tale condizione, «riorganizzarsi e cercare di capire il proprio essere in situazione» (p. 17). Siamo in un luogo divenuto intensivamente letterario, dove le precedenti rappresentazioni (in primis l’ipotesto platonico) impongono di scrivere in modo non ingenuo, sapendo che ri/scrivere dà in più ad ogni segno il valore polemico della differenza, rispetto al modello implicitamente evocato.
Ecco allora che la prima parte del saggio è dedicata ad illustrare il canone della riscrittura, incrociando la teoria letteraria dell’intertestualità con le problematiche specifiche che si sviluppano quando letteratura e filosofia si intrecciano nell’invenzione narrativa, producendo un uso denso delle immagini e del materiale mitico. Che questo avvenga continuamente nei dialoghi platonici è cosa nota, ma è giusto sottolineare che solo gli apporti più raffinati della linguistica, dell’ermeneutica e anche dell’epistemologia del Novecento hanno permesso di valorizzare il nesso tra finzione narrativa e ricerca di verità nel tessuto dei dialoghi e particolarmente in alcuni cruciali luoghi platonici, inducendo a superare il vetusto schema oppositivo mythos-logo e ad indagare la capacità produttiva del mito come modello descrittivo dotato di valore euristico.
Non mi soffermo sull’ampiezza dei riferimenti teorici messi in campo da Miorelli (da Nietzsche a Habermas, da Gadamer a Derrida, da Cassirer a Blumenberg, passando per Eco e Genette, Simmel e Barthes, più alcuni recenti contributi italiani) a sostegno del metodo seguito nella sua ricerca, particolarmente attento alle pratiche di semantizzazione dello spazio nella scrittura letteraria. L’importante mi sembra stia nel sostenere l’applicabilità degli strumenti interpretativi emersi dal dibattito novecentesco sulle strutture di senso della comunicazione (dall’analitica del messaggio all’estetica della ricezione) alla scrittura platonica, in quanto essa esprime una piena consapevolezza della potenza del rappresentare nella ricerca di verità : una consapevolezza che è tutt’uno con la maestria descrittiva e mitopoietica di Platone scrittore (un autore che scompare dietro le sue scene e i suoi personaggi) e che si fa già teoria nella Poetica di Aristotele, dove «il mythos è divenuto macchina per raccontare nella quale poco importa della personalità dell’autore» (p.34).
Venendo ai contenuti del libro, essi si distribuiscono in due parti: la prima, dedicata al racconto platonico situato nell’“incipit†del VII libro della Repubblica (qui assunto come ipotesto) e alle sue diverse risonanze nel dibattito filosofico contemporaneo; la seconda dedicata a due racconti firmati Beckett e Durrenmatt, due “riscritture†d’autore della caverna platonica al tempo della post-modernità .
È bene dire subito che il paradigma della riscrittura è applicato con fine capacità di penetrazione dei testi nella loro autonomia, senza fretta nel guidare il lettore sulle tracce dell’archetipo platonico, mentre il modello del “palinsesto†(nell’accezione di Genette) trova accenti innovativi accogliendo la suggestione cinematografica della caverna platonica: i testi contemporanei si leggono come se fossero “proiettati all’indietro†su quella fatale “parete di fondo†dello spelaion. Così, attraverso gli spazi disegnati da Beckett e Durrenmatt, come in controluce o come seguendo un indizio lasciato cadere in un angolo dello schermo, la scena si rivela polemicamente situata nello stesso luogo, accuratamente ridescritto per negare o correggere gli effetti semantici dell’ambientazione platonica. Prima di tutto vediamo, in luogo dell’evento liberatorio, balzare in primo piano in entrambi i racconti la pesantezza claustrofobica degli spazi, l’immobilità dell’azione ripetuta nel tempo; e laddove Platone fa un uso misurato e preciso della scenografia, vediamo qui la descrizione d’ambiente dilagare dominando la storia. L’indagine di Miorelli muove dalla rilevazione del carattere oppositivo di queste scritture, di questo continuo contrappunto, per cogliere, da un lato, le ragioni per cui la caverna platonica mantiene il valore di archetipo della condizione umana, dall’altro, le novità che i nuovi narratori rivelano, riproponendo l’intenzione rappresentativa di Platone nella condizione post-moderna.
Su entrambi i fronti, Miorelli trae ispirazione da uno studio di Konrad Gaiser (Il paragone della caverna. Variazioni da Platone a oggi, Napoli 1985), che, in due conferenze tenute presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, proponeva interessanti interrogativi sulla lunga storia dell’immagine della caverna, nel quadro di un recupero di Platone scrittore e mitologo: Platone che fa rivivere “ipotesti†della tradizione sapienziale e orfico-pitagorica, costruendo in due varianti (Fedone 108c-115d; RepubblicaVII, 514a-519b) la potente allegoria della condizione umana come immersione in un mondo sotterraneo, chiuso alla luce del sole; Platone “ipotesto†a sua volta, riproposto o tradito da innumerevoli citazioni, che, a partire da Aristotele (fr. 13 Walzer-Ross, in Cicerone De natura deorum, II 37, 95) fanno riemergere il paragone con nuove intenzioni rappresentative, parlando al proprio contesto attraverso il gioco delle varianti. Ciascuna di esse meriterebbe (o ha di fatto meritato) un’indagine a sé, per gli effetti illuminanti del confronto; basti citare ad esempio il saggio di Claude Gaudin (Deux cavernas. L’écriture allégorique, in «Revue de philosophie ancienne», 10 (1992), n.2), dedicato al ribaltamento di senso che l’allegoria platonica subisce nella nuova versione aristotelica riportata da Cicerone, dove all’uscita dalla caverna è la visione astronomica naturale (e non quella dei paradigmi ideali) a guidare gli uomini al pensiero della divinità .
Raccogliendo undici esempi particolarmente significativi, l’analisi di Gaiser forniva alcune coordinate essenziali per inquadrarne il significato epocale all’interno della linea di continuità del topos: un’immagine negativa della condizione umana, sensibile ai mutamenti che percorrono la nostra storia culturale e dunque rivelativi di inquietudini e tensioni di volta in volta sopravvenute a modificare l’archetipo. Se «ogni epoca, ogni concezione del mondo ha il suo paragone della caverna» (p. 53), le varianti selezionate per il nostro tempo, nota Gaiser, presentano «un totale rovesciamento del senso platonico», ponendo in primo piano «il dubbio sulla possibilità per l’uomo di conoscere la verità » (p. 56).
Di qui parte il supplemento di indagine di Miorelli, che raggiunge i suoi risultati più originali cercando la chiave antiplatonica di queste caverne che vogliono essere lo specchio del nostro tempo, del nostro vivere. La potenza del paradigma e quella della sua negazione sono poste direttamente a confronto: “Prima di tutto e dopo tutto Platoneâ€, intitola Miorelli il paragrafo centrale del suo libro, come a segnalare l’impossibilità di uscire davvero dall’archetipo, di dirsi non più platonici, senza fornire al testo nuove glosse.
Che cosa avviene dunque di così straordinario da non poter essere dimenticato nella rappresentazione platonica della caverna? La costruzione della scena mira a proiettare il lettore in un complesso esperimento mimetico, dove è possibile vivere le emozioni di una condizione apparentemente estranea come se fosse la propria; la situazione virtuale del racconto, descritta con pochi tratti essenziali, agisce in altri termini come una macchina per pensare. Il personaggio Socrate vi guida il suo interlocutore più serio, l’aristocratico spregiudicato Glaucone, perché egli provi su di sé la condizione del prigioniero, poi quella della sua uscita dalla caverna, infine il ritorno drammatico tra gli schiavi delle ombre; produce per lui le condizioni di un’esperienza estraniante (come nota acutamente Miorelli, cogliendo significative spie nel testo), perché egli supplisca con la sua immaginazione alle scarne indicazioni socratiche e completi così il senso di un esperimento che anche il lettore è invitato a fare. Sta qui la produttività operativa del racconto, irriducibile ad ogni forma di meccanica corrispondenza analogica o allegorica. Gli elementi simbolici si concentrano nell’opposizione tra ombre e luce, tra dentro e fuori, ma l’articolazione dei significati su diversi piani (ontologico, gnoseologico, politico, pedagogico) non è riducibile ad un unico canone: una molteplicità di schemi interpretativi funziona all’interno del racconto, ma nessuno di essi esaurisce quello che Miorelli chiama il “potenziale epistemologico†del mito. Attraversando anche in questo caso un’ampia gamma di riferimenti teorici, l’autore sembra indicare come prospettiva di fondo del modello platonico (e come chiave della sua alta produttività nel tempo) la capacità di produrre una conversione dello sguardo: se la caverna proietta il lettore in un labirinto di ombre, l’avventura del prigioniero mostra che si può vedere altrimenti, semplicemente distogliendo lo sguardo dal dentro e disponendosi a guardare la condizione descritta come se la si osservasse dal di fuori. Lo spostamento continuo del punto di vista, dai personaggi della scena al narratore e ai suoi interlocutori, nota Miorelli, accentua la dinamica conflittuale tra i diversi campi visuali, facendo emergere quella che egli chiama l’“istanza appercettiva†del racconto, cioè l’invito a gettare «uno sguardo sullo sguardo» (p.93). Si potrebbe continuare a indagare la forma di autocoscienza indotta da questa conversione dello sguardo, per scoprire che la potenza del guardare altrove è precisamente ciò che libera il prigioniero dai vincoli della situazione vissuta; per cui non troviamo qui la rappresentazione della condizione esistenziale dell’uomo, ma della possibilità di sfuggire ad essa, accettando la dissoluzione del senso circostanziale delle cose (e il relativo accecamento che ne deriva), per trasferirsi nell’ordine visuale del “buonoâ€, dove la potenza di un pensiero perfetto genera un mondo nuovo (come la città alternativa en logois del IX libro della Repubblica, dove il filosofo può scegliere di andare a vivere).
È di fronte alla potenza di questo sguardo eversivo, rispetto a tutto ciò che gli altri vedono e subiscono, che si evidenzia il profondo pessimismo delle immagini elaborate da Beckett e Durrenmatt. Il paradigma platonico ha mantenuto viva nella tradizione filosofica occidentale l’idea che sia possibile pensare la condizione umana senza restare prigionieri dei parametri che caratterizzano una certa forma di vita, una certa cultura, una certa storia; che, più in generale, sia possibile pensare e progettare liberamente trasferendo lo sguardo dall’esistente (labirinto di ombre) a ciò che è razionalmente possibile (la realtà luminosa delle idee); ha segnalato i rischi del disorientamento e quelli connessi al compito di insegnare a vedere, mantenendo ferma la fiducia negli effetti liberatori del guardare altrove. Niente di tutto questo nei due racconti di Beckett e Durrenmatt, che ripropongono il gesto platonico, l’esperimento mentale della caverna, per contestarne radicalmente l’esito e la praticabilità .
La “caverna†di Beckett è uno spazio cilindrico chiuso con pareti di gomma, dentro il quale si aggirano pazienti o disperati scalatori, alla ricerca di una via d’uscita forse inesistente, in ogni caso fuori portata per i loro mezzi: nell’impossibilità di collocare la scala al centro del cilindro, puntando direttamente alla sommità del soffitto, gli scalatori devono prima o poi rassegnarsi ad occupare una nicchia sulla parete. L’esperienza del vedere, determinante per la presa di distanza dalle ombre nel paradigma platonico, è qui sovrastata dalla pesantezza tattile del sentire, in un ambiente in cui la luce non rischiara, ma emana come una febbre dalle cose; dove la continuità del suo chiarore sulfureo si associa alla rapidità dell’escursione termica nel consumare gli occhi, facendoli invecchiare insieme alla pelle.
Come Miorelli sottolinea, il paradigma platonico è qui colpito alla radice nella sua pretesa di rappresentare la verità della condizione umana: nessuna visione è possibile, nessuna lettura d’insieme, nessuna distanza visiva dalla vischiosa appartenenza alla tattilità delle cose. Con ciò narrazione e comunicazione, forme costitutive del realismo occidentale, in qualche modo erede della mimesis platonica, esauriscono le loro condizioni di senso; un resoconto impersonale può sostituirsi al dialogo e al tentativo di rappresentare l’esperienza vissuta, poiché entrambe le pratiche sono divenute insensate.
Nel racconto di Durrenmatt, una caverna racchiude il graffito di un mondo scomparso, in un imprecisato futuro post-bellico; nel graffito, il racconto di un mercenario impegnato a combattere un’interminabile guerra, che si risolve nella ricerca del nemico (invisibile) in un chiuso labirinto di cunicoli sotterranei. Al cuore della narrazione sta appunto il problema della fede nella sua esistenza, che costituisce l’unico possibile senso della vita dei combattenti. Qui l’eversione del paradigma platonico, imperniata sul tema del disorientamento, è resa più sarcastica affidando proprio all’ufficiale laureato in filosofia (tesi su Platone!) il compito di tenere tutti ancorati alla logica bellicista della caverna, giustiziando chi non crede più all’esistenza del nemico e dunque alla necessità di perpetuare il conflitto.
Sarebbe difficile riassumere la ricchezza di spunti e suggestioni che si ricavano dalla lettura analitica dei testi, che, come si è detto, costituisce la parte più originale del lavoro di Miorelli. Se ne esce con l’impressione che la letteratura sia oggi un tramite più acuto e penetrante della filosofia nell’interrogare il proprio tempo, più abile nel raccogliere la sfida platonica, rappresentando le tensioni emergenti nella condizione umana all’epoca della post-modernità .
Il ritorno all’archetipo platonico, luogo d’origine della grande narrazione occidentale, appare meno paradossale osservando in dettaglio le operazioni di riscrittura, gli effetti ottenuti variando i termini della finzione letteraria. Più che contestare il paradigma, esse ne fanno un passaggio obbligato, confermando il valore euristico della mitopoiesi platonica: quella caverna resta un laboratorio della mente e, se appare difficile uscirne, vale la pena di tornarci per provare a pensare ancora una volta la forma dell’esistenza, a partire dal punto preciso del tempo in cui siamo.
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