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Tra laici e cattolici
di Adolfo Battaglia
Tre volumi, nello scorcio di questi ultimi mesi, hanno contribuito al dibattito sul (secolare) problema del partito riformatore italiano1. Sono testi assai diversi fra loro, ma utili - per varie e talora opposte ragioni – a ragionare sui temi di una ricerca che ancora non vede profilarsi la conclusione.
Quello di Ferruccio Capelli sulla sinistra “light” è un libro pieno di cose intelligenti e analisi acute, che potrebbe tuttavia, come talvolta accade per i libri interessanti, diventare molto dannoso. Illustra efficacemente le stagioni e le ragioni del populismo mediatico; le sue tecniche, i suoi limiti, i suoi inconvenienti. Non c’è aspetto dell’universo televisivo – dalla “soppressione del fatti” alla “non-grammatica dell’immagine”, dall’invenzione degli “spin.doctors” alla “neo-televisione” – che non venga adeguatamente considerato in modo fresco e spesso appassionato. Uno dei suoi leit-motiv è il rischio che lo “spirito del tempo” si risolva in una mera cultura dell’effimero. Ed è un rischio contrastato – anche sulla base dell’esperienza di direttore di un importante struttura culturale milanese – come uno dei maggiori attentati alla vita morale di un paese, e altresì, alla democrazia politica. Non si può non convenire con le pagine vigorose che illustrano questi pericoli fissando un punto d’interesse assolutamente generale.
Sotto tutti questi profili, il libro non può non contribuire allo svecchiamento del tipo di partito di massa che ha contraddistinto in Italia la sinistra. Era il tipo di partito fondato su sezioni, apparati, congressi, gerarchie, circolari, ideologia, linea generale, centralismo democratico. Qualcosa che oggi, solo a parlarne, fa venire i brividi. Un mezzo rivoluzionario come la tv – accompagnato poi da un altro mezzo altrettanto rilevante come Internet – supera di colpo tutto questo, con sicuro beneficio delle forze di sinistra italiane. Mentre la campagna elettorale e il tipo di partito espressi da Obama, basati su visioni politiche larghe e programmi pragmaticamente riformatori, prima ancora che sull’uso universale degli strumenti di comunicazione elettronica, rappresentano per loro conto un fenomeno talmente importante che è auspicabile costituiscano anche da noi il definitivo de profundis del partito del Novecento. Abbiamo in effetti una nuova prova che si può costruire una forma di democrazia omogenea alla società contemporanea e più avanzata rispetto al passato. Il libro di Capelli contribuisce appunto ad un serio esame di alcuni degli strumenti nuovi del nuovo corso. Era un esame che in certo timido modo era stato iniziato nel Partito Democratico ma che abbisognava e abbisogna di una sostanza più robusta.
Due critiche, tuttavia, possono muoversi al volume. La prima è che c’è una certa sfasatura tra la rilevanza obbiettiva del fenomeno rappresentato dalla tv per la politica in tutto il mondo, e l’eccessiva importanza senz’altro eccessiva attribuita ad essa in Italia. Sembra in particolare che l’autore consideri il sistema dei media berlusconiani il fattore determinante della sostituzione della classe politica della prima Repubblica. Non sembra ancora convincerlo l’idea che, probabilmente, la leadership del centro-destra ha messo in campo un’arma di carattere non tecnologico: cioè la capacità di cogliere temi e problemi della società italiana e di esprimerne ciò che potrebbe definirsi il sentimento-banale-medio. Complessivamente, il berlusconismo, è stato un fatto nuovo, anche se, sprovvisto di serie fondamenta culturali e inserito in un involucro pseudo-carismatico, tutto si è poi tradotto in pensieri e soluzioni tanto non efficaci quanto prospetticamente pericolose.
La seconda osservazione è parallela alla prima. Le tesi che percorrono il libro sono infatti che la televisione sia all’origine della decadenza della democrazia e che la sinistra italiana sia diventata “leggera” poiché ha ceduto al suo fascino. Tanto avanti l’autore procede su questo insidioso terreno da affermare che ormai «lo spazio pubblico è traslocato dentro i media»; e che con i media attuali «le possibilità dei cittadini di partecipare alla vita pubblica decrescono» (ma rispetto a che cosa?). La ragione sarebbe da individuare, appunto, nel fatto che «la forza principale che tiene lontano i cittadini, ne svuota il potere di controllo e le possibilità di protagonismo, sono proprio i nuovi media». La tv metterebbe la democrazia “su un piano inclinato”, in pericolo.
Tesi così estreme, che l’autore stesso comprende di dover circondare di qualche cautela, non hanno bisogno di lunghi discorsi. È sempre debole una conclusione che colleghi i fenomeni sociali ad una sola causa, ad un responsabile unico. E sempre si tratta, anche, di tesi pericolose, perché distolgono l’attenzione dalla natura complessa delle cose e indirizzano i pensieri su un terreno errato. La democrazia è davvero in declino nel mondo attuale? Ben pochi lo sostengono, e davvero non si direbbe a giudicare dal sempre crescente numero di paesi a regime democratico. La democrazia era davvero più forte e migliore nel ’900? Con la struttura politica e sociale da cui sono state caratterizzate le nazioni protagoniste del ’900?
C’è un fondo di pessimismo sul presente, in questo libro, del tutto omogeneo a quello che circola negli studi di molti sociologi contemporanei. Acuti e rispettabili analisti, certo, che hanno il solo vizio di continuare ad essere “eurocentrati”, cioè, in sostanza, di non vedere né considerare il mondo; e di ritenere che siano centrali, nel mondo, i problemi delle società europee da essi analizzate. Col risultato, oltretutto, di chiudere le società europee e impedir loro di confrontarsi con ciò che di più vitale si muove oltremare.
Il fatto è che a dispetto della crisi economica globale di questi anni, il trend che si è ormai affermato non si accorda col pessimismo eurocentrico. Il senso di vita e speranza levatosi nelle aree asiatiche, americane, africane, oceaniche, la loro crescita economica e civile, la loro progressiva affermazione nella vita mondiale, sono difficilmente denegabili. Una visione sociologica non va bene. Il senso della storia è indispensabile ad analisi veritiere. Non si deve tener conto che la scienza compie da un secolo conquiste straordinarie e che le società contemporanee sono colme di ragioni, di tensioni, di volontà?
Proprio dove la forza della democrazia è più stanca, come in Italia, sarebbe una buona cosa se l’intelligenza della ricerca, di cui l’autore sicuramente dispone, si dispiegasse su terreni più vasti di quelli arati nel libro. Le forme della democrazia che sono possibili ed utili nel mondo globale attendono di essere comprese ed utilizzate per intero: questo è il problema al quale le ideologie del ‘900 e gli schemi di interpretazione unidirezionali (e ancor più i vecchi apparati partitici) non riescono a dare risposte.
                         
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Del tutto diverso anche nello spirito è il volume di Massimo Teodori dedicato alla “storia dei laici”: e si direbbe meglio, anzi, “alle storie dei laici”. Lo compongono infatti ben ventotto brevi capitoli, ciascuno centrato su un tassello differente di quel mondo variegato e proteiforme. Ad esso si dedicarono in passato altri studiosi, a cominciare da Bobbio e Spadolini con volumi dal titolo significativo2. Questo volume si differenzia da quelli perché non è un insieme di ritratti personali e non definisce isolate figure esemplari. Presenta invece le molte ragioni e le differenti imprese di un universo culturale e politico cui si debbono momenti di influenza rilevanti. Non abbiamo, così, una storia organica delle forze laiche ma la ripresa di un numero impressionante di notizie, di fatti, di persone, che danno immediatamente un’idea della vastità ed importanza della loro opera. Dalla quale, non a caso, non si poté mai prescindere, per quanto minoritarie, e profondamente avversate dalle grandi ideologie, siano state le forze politiche laiche.
Dal Congresso internazionale degli scrittori per la libertà della cultura tenutosi nel ’34 a Parigi fino al tramonto del terzaforzismo laico e alla crisi della Repubblica, riaffiora suggestivamente nel volume l’avventura di una classe dirigente che ebbe scarso potere e molta qualità. Ed è oltretutto interessante, dopo le trenta pagine di fitte note bibliografiche, leggere in fondo al volume quello sterminato “indice ragionato dei nomi” nel quale – accanto a uomini ben noti, da Croce a Sforza, da La Malfa a Pannunzio, da Salvemini a Parri, a Carandini, Silone, Ernesto Rossi, Adriano Olivetti, Guido Calogero, Bruno Visentini – riemergono una quantità di figure poco note, gli uomini e le donne che dalla seconda linea diedero un grande e onorevole contributo alla crescita del paese. Ecco dunque Tarchiani, Brosio, Bauer, Rossi-Doria, Ippolito, Baffi, Siglienti, Cingano, Tino. Ecco Tomaso Perassi, Giovanni Conti, Paolo Barile, Piero Calamandrei, Tullio Ascarelli. Ecco Gino Luzzatto, Guido De Ruggiero, Luigi Salvatorelli, Giorgio Levi Della Vida, Aldo Garosci, Vittorio De Caprariis, Nicola Matteucci, Nicola Chiaromonte, Alberto Carocci, Arrigo Benedetti, Alessandro Bonsanti. Ecco Mario Ferrara, Antonio Calvi, Mario Paggi, Achille Battaglia, Franco Libonati, Ennio Flaiano, Carlo Doglio, Raimondo Craveri, Elena Croce, Anna Garofalo, Ebe Flamini, Aurelia Gruber-Benco. E poi i Ruffini, i Reale, gli Albertini, i Croce, gli Olivetti. E gli infiniti collaboratori del «Mondo» e dell’«Espresso»; e l’eccezionale numero di giornali, settimanali e riviste in cui un po’ tutti si provarono. Un gran numero di persone e di opere (seppure ancora altro potrebbe essere citato) e, insieme, gli strumenti attraverso cui operarono: il Partito d’Azione, il Partito Liberale, la Democrazia del lavoro, il Partito Repubblicano, il Movimento di Comunità, l’Associazione per la libertà della cultura, l’Unione goliardica, i convegni del Mondo…
La singolare caratteristica di questo complesso mondo fu costituita, all’esterno, da due comuni rifiuti, e all’interno da infinite differenze di posizione. Accomunò tutti il rifiuto del fascismo e del comunismo: e si trattò di una scelta biunivoca tutt’altro che scontata, non condivisa da molti autorevoli personaggi e aspramente contestata a sinistra (sul piano politico, da Togliatti come da Amendola, e su quello culturale da Marchesi come da Bianchi Bandinelli, Eugenio Garin e Luigi Russo). Fu peraltro, nello scontro tra la democrazia occidentale e il comunismo sovietico, una scelta omogenea a quella compiuta dalla migliore intellettualità europea: ed è superfluo notare che oggi tutti ne riconoscono la validità e l’importanza. Ma nel momento in cui dopo il fascismo – non ancora affermatosi l’universo cattolico alla guida del paese, né la fortezza comunista all’opposizione – l’unità di intenti e di scelte dei laici sarebbe stata fondamentale per assestare l’Italia su una struttura politica equilibrata, il mondo laico, al contrario, si divise, e anzi si frantumò, dando luogo a una dialettica tanto viva e ricca di interesse, a rileggerla oggi, quanto politicamente distruttiva, in quegli anni cruciali.
Forse la figura che meglio rappresenta le contraddizioni e la diaspora fu proprio quella di un uomo indiscutibile come il direttore de «Il Mondo», che è figura centrale nel libro di Teodori. Mario Pannunzio non mutò mai la sua posizione di fondo e fu sempre, scrive sinteticamente Teodori, «l’interprete di un liberalismo che guardava all’Europa e all’America più che alla provincia italiana». Allo stesso tempo però, nel turbine del dopoguerra, Pannunzio si trovò ad essere uno dei principali esponenti di un partito collocato sulla destra dell’arco politico (che, tra l’altro, non poca parte ebbe nel favorire la Democrazia Cristiana nella marcia verso la sua egemonia). Pannunzio e i suoi amici furono infatti costretti a dimettersi due volte dal Pli: una prima nel ’47, quando segretario del partito fu eletto il maggiore esponente della destra monarchica; e una seconda nel 1954, dopo un’affrettata “riunificazione liberale”, quando la destra confindustriale conquistò il Pli. Mentre un’altra parte della sinistra liberale, capeggiata da Brosio, Calvi e Gabriele Pepe, già prima del referendum del 1946 aveva abbandonato il partito per il suo orientamento filo-monarchico3.
In certo senso, proprio per questa travagliata vicenda Mario Pannunzio fu l’uomo più adatto a fondare nel 1949 e a dirigere per quindici anni il suo famoso settimanale. Dove l’intero mondo laico si ritrovò a collaborare e si raccolse, dando vita ad uno straordinario momento di giornalismo e di influenza politica e programmatica. Non si riuscì tuttavia, sul piano degli schieramenti partitici, a coagulare quella “terza forza” tra DC e PCI di cui tutti in linea di principio si dichiaravano fautori. Essa si aggregò poi, precariamente, nell’esperienza di centro-sinistra, ove dal 1962 in poi socialisti, repubblicani, radicali e socialdemocratici collaborarono in qualche modo insieme. E però, dopo lo slancio del momento iniziale, cominciarono a prevalere, sui programmi e le scelte di interesse generale espressi dal mondo della democrazia laica, quei modi negativi di far politica che passo dopo passo hanno infine, a ben vedere, condotto alla grande crisi del ’92-’94.
Questo delle posizioni e degli schieramenti che si affrontarono in quei decenni è uno dei punti della “Storia dei laici” dove l’autore avrebbe probabilmente potuto produrre un’indagine più approfondita (inoltre, alcune marginali inesattezze potrebbero essere in una prossima edizione utilmente corrette). Ma nel complesso il volume di Teodori rimane un forte contributo alla conoscenza di un mondo che appare oggi tanto bello e rimpianto quanto sostanzialmente misconosciuto. Il nocumento che ne è derivato per la qualità del paese è del tutto parallelo alla larga assenza della considerazione di esso nella storiografia del periodo: al vuoto, cioè, che solo di recente un nucleo di volumi, fra i quali ora questo di Teodori, cominciano finalmente a colmare, aprendo, sperabilmente, un nuovo filone di ricerca su un periodo cruciale.

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Invece l’instant book pubblicato da Feltrinelli e sottotitolato “idee plurali per uscire dall’angolo”, è per la sinistra utile “a contrario”: nel senso che per uscire dall’angolo è sicuramente necessario non fare ciò che suggerisce. Si comincia dalla notazione che, da una parte, la sinistra radicale «vive oggi la sua crisi più acuta vittima della serie estenuante dei suoi no, della sua pigrizia culturale, dei suoi interessi di piccola casta». E si continua osservando, dall’altra, che la nascita della sinistra riformista «sembra risolutiva su un solo punto, scrollarsi di dosso la sua eredità più pesante, quella che lo lega alla tradizione della sinistra». E allora? Se la sinistra radicale è defunta e i riformisti non appartengono più alla sinistra, la legittima domanda che sorge è: si potrebbe sapere che cosa serve per una buona sinistra? Idee plurali?
Sorge il sospetto che i tanti brillanti intellettuali che hanno collaborato al volume (si intende, con doverose eccezioni) non abbiano ancora inteso il punto chiave della questione: che cioè, molto semplicemente, in Occidente la sinistra o è di tipo occidentale o non è (sempre che si tratti di normali partiti che aspirino a guidare il governo del loro paese; se invece si parla di formazioni politiche che debbono avere come obbiettivo quello di stare permanentemente all’opposizione, allora non si tratta di partiti normali, e sarebbe meglio che il discorso uscisse dal campo della politica per investirne altri). Ora, il Partito Democratico è sicuramente pieno di gravi difetti, in parte sottolineati anche dalla prefazione di questo volume. C’è una vera difficoltà di partecipare alla battaglia delle idee, di realizzare un ricambio adeguato della classe dirigente, di imporre l’agenda politica. Ma se tutto ciò deve essere corretto, a che cosa mai possono servire le idee plurali, cioè idee intrinsecamente contraddittorie tra loro? È ovvia l’osservazione che affastellare tutto e il contrario di tutto è difficile possa giovare a una forza già oberata dalla difficile storia della sua parte più consistente.
Ne nasce allora l’impressione che alla base di questo libro, dai curatori ignoti ma nutrito di cinquanta autorevoli firme, stia essenzialmente un gran rimpianto. Il rimpianto di quel bel partito di un tempo, così ricco di modesti successi sociali (e locali) ma sempre così sconfitto sulle grandi questioni politiche. Così capace di mobilitare le passioni popolari sui temi del presente senza riuscire mai a darvi sbocco; e insieme così persuasivo da essere percepito come lo strumento della società dell’avvenire. Un gran rimpianto del tutto incongruo, come l’intera vicenda italiana di per sé insegna. Però, si sa, ai sentimenti non si comanda. Si potrebbe suggerire, come antidoto, la lettura del recente rapporto di un organismo che in Italia non è neppure immaginabile, il Council of Competitiveness americano, composto da alti dirigenti industriali, presidenti di università e leaders sindacali. Ne esce un quadro dei problemi reali delle nostre società che può far passare molti fumi.
Naturalmente, il volume presenta anche scritti apprezzabili e utili. Ma se un partito dovesse fondarsi sulle idee che lo sforzo collettaneo suggerisce non sarebbe un partito ma un caos. Un centone di idee disparate dominato dal frastuono sociologico, una pura confusione ideale, culturale e politica. Per questo è bene non leggere questo libro e ci si deve dolere che «la Repubblica» vi abbia dedicato tanto spazio da indurre all’errore i suoi affezionati lettori. Avrebbe potuto, piuttosto, segnalarlo al suo editorialista, Edmondo Berselli, per la seconda edizione del suo più recente volume I sinistrati, storia sentimentale di una catastrofe politica (Mondadori, Milano, 2008).

                        

NOTE
1 F. Capelli, Sinistra light, populismo mediatico e silenzio delle idee, Roma, Guerrini e Associati, 2008; M. Teodori, Storia dei laici, nell’Italia clericale e comunista, Venezia, Marsilio editore, 2008; AA.VV., Sinistra senza sinistra, idee plurali per uscire dall’angolo, Milano, Feltrinelli, 2008.^
2 N. Bobbio, Maestri e compagni, Firenze, Passigli, 1984; N. Bobbio, Italia civile, ritratti e testimonianze, Firenze, Passigli, 1988; G. Spadolini L’Italia dei laici, da Giovanni Amendola a Ugo La Malfa, Firenze, Le Monnier, 1989.^
3 Nulla di più errato, a questo proposito, del titolo tipicamente televisivo – ovvero schematico, suggestivo e superficiale – di un modesto libro di una giornalista che conosce certamente la letteratura meglio della storia: cfr., M. Sereni, I profeti disarmati, 1945-48 la guerra delle due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008, dove la sinistra di cui si parla è appunto, in gran parte, il Partito Liberale.^
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