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La Repubblica contro la scuola
di Giovanni Carosotti
La scuola degli italiani di Adolfo Scotto di Luzio (il Mulino, Bologna 2007, pp. 413, € 25.00) è un ampio lavoro di ricostruzione storica, che fa riferimento a una quantità considerevole di documenti, aggiornati fino ai tempi più recenti; fosse solo per questo, costituirebbe un’opera insostituibile per qualsiasi studioso impegnato ad indagare le vicende dell’istituzione scolastica italiana. Ma il testo si offre, anche e soprattutto, a un’altra valutazione di lettura: la minuziosa articolazione degli eventi, pur resa in modo oggettivo con riferimenti alle fonti, obbedisce a una logica interpretativa il cui fine è quello di permettere un quanto più possibile preciso giudizio sulle politiche scolastiche attuali. Un testo storico, ma che intende anche suscitare un dibattito sulle questioni che a tutt’oggi coinvolgono la scuola in Italia.
La tesi sottesa all’esposizione di di Luzio è la seguente: dalla fine della seconda guerra mondiale si è assistito in Italia a una progressiva distruzione della scuola secondaria, casatiana-gentiliana, da parte della Repubblica democratica. Distruzione che l’Autore giudica in modo negativo, in quanto questo sacrificio non ha risolto gli eventuali problemi di quel modello scolastico, in particolare quello della disuguaglianza.
Un giudizio motivato su questo studio non può esimersi dunque dal valutare proprio il nesso tra storia e presente che l’Autore vuole suggerire, per discuterne l’attendibilità o, meglio, per collocarlo in modo corretto tra le posizioni che oggi, a proposito della scuola, si confrontano. Sul piano metodologico, la convinzione di di Luzio in base alla quale non è possibile avere una posizione adeguata in merito alla politica scolastica senza conoscere in dettaglio la storia specifica della scuola italiana è difficilmente contestabile. Totalmente condivisibile è l’affermazione tesa a rilevare nel dibattito odierno sulla scuola un consapevole rifiuto della storiografia, che non permette di individuare i concreti limiti della scuola in Italia e, soprattutto, non consente di scorgere nelle opzioni riformatrici la persistenza di posizioni già manifestatesi in passato.
Prima di affrontare direttamente questo problema, è meglio isolare i punti più qualificanti il giudizio storico di di Luzio. Innanzitutto, quello che sottolinea una rottura tra la scuola casatiana-gentiliana e la nuova scuola di massa; rottura che, è bene ribadirlo, avvenne già durante il fascismo. Per cui è più agevole, anche se generalmente non riconosciuto dal senso comune storico, individuare una continuità tra alcuni aspetti della politica scolastica del fascismo e quella, successiva, repubblicana, che non fra Gentile e il fascismo stesso. L’attività di Ministro della Pubblica Istruzione del filosofo siciliano, invece, va compresa interamente alla luce della cultura politica liberale.
Se la continuità tra fascismo ed età repubblicana apre illuminanti possibilità di comprensione, forse manca, nell’analisi di di Luzio, un’identica analisi comparativa in merito ai progetti di riforma elaborati negli anni Novanta, considerati solo un tentativo di ricostruire la scuola dalle macerie in cui l’aveva ridotta il periodo democratico.

Subito dopo il processo di unificazione la scuola italiana, come venne concepita dal ministero Casati, presentava una contraddizione di fondo, accettata come inevitabile dai governanti di allora, tra gli indirizzi destinati alle élites e quelli propri dei quadri sociali intermedi. La scuola secondaria tentò sì di unificare il ceto medio, ma lo fece sempre a partire da un dualismo, considerato insuperabile, tra centro e periferia (gli istituti più prestigiosi, quelli destinati alla futura classe dirigente, erano tutti nei centri urbani; e in quegli istituti i docenti trovavano le migliori condizioni stipendiali, tanto che la progressività della loro carriera si realizzava da incarichi in sedi sperdute e periferiche, per giungere poi alla grande città) e poi tra scuole tecniche e scuole a indirizzo umanistico. Tutta la politica scolastica successiva è stato il tentativo, non riuscito, di superare questa frattura, considerata foriera di intollerabili disuguaglianze.
Di Luzio non giudica negativamente quel modello dualistico; non averne compreso le specificità ha condotto a una pratica politica distruttiva che, nel tentativo di creare pari opportunità, ha in realtà umiliato le ragioni formative delle discipline proprie della scuola classica. Di Luzio tra l’altro difende, con motivazioni condivisibili, la tradizione separata della scuola tecnica che, al contrario di quanto afferma certa storiografia approssimativa, godeva di grande prestigio e aveva positive ricadute didattiche nell’Italia meridionale pre unitaria. Un errore, a parere dell’Autore, fu quello di toglierne la competenza al ministero dell’Economia, a favore di quello dell’Istruzione, decisione già in parte presa alla fine dell’800 e in via definitiva durante il fascismo. Traspare da questa valutazione un giudizio positivo sull’idea, propria del progetto di riforma Moratti, di creare due cicli d’istruzione separati anche se di pari dignità; è questo in fondo l’aspetto più qualificante che distingue, secondo il parere di di Luzio, questo progetto riformatore da quello precedente del ministro Berlinguer.
Di Luzio non nega l’inevitabilità del superamento di questo modello dualistico nelle successive fasi della storia d’Italia, contemporaneamente al radicarsi anche nel nostro Paese della società di massa. Nota però che quel sistema implicava un principio formativo di assoluta validità, che è stato poi sacrificato, in modo irresponsabile e demagogico, nelle scelte successive: ovvero l’intendere la scuola come «infedeltà ai valori tradizionali», il cui scopo è «superare le fedeltà originarie del fanciullo». La vera emancipazione per una popolazione legata ancora a tradizioni arcaiche e vittima di un analfabetismo dilagante, non poteva che favorire una rottura con il sapere arretrato del proprio borgo natio, per aprirsi, in primo luogo linguisticamente, a una cultura di carattere più universale, realizzando così un vero passaggio di stato, un’autentica emancipazione. La «scuola democratica» invece, con un atteggiamento condiviso da quelle che di Luzio chiama le due forme di populismo proprie del periodo democratico (cattolica e comunista), si fonderà sull’assunto di «valorizzare la fedeltà», impedendo poi di fatto la possibilità di raggiungere una possibile eguaglianza, attraverso la crescita culturale. La lotta costantemente condotta nel secondo dopoguerra contro il latino, per esempio, disconosce l’importanza dell’emancipazione linguistica, e rende impossibile così alle classi popolari la possibilità di accedere a una cultura di qualità.
Da questo punto di vista, l’opera di Gentile, in linea con altre fondamentali posizioni intellettuali di quel periodo – soprattutto con Gaetano Salvemini –, fu molto più illuminata. Il dualismo “contadinifilosofi” che entrambi gli intellettuali utilizzavano per ribadire una concezione elitaria dell’istruzione (di origine casatiana), non corrispondeva affatto – come spesso si scrive – a un atteggiamento reazionario, che esprimeva un dominio di classe. Anzi, manifestava la consapevolezza che l’élite italiana era assolutamente incapace, per propri limiti intellettuali, di identificarsi con la categoria dei filosofi, in quanto non preparata a fare propri i valori del lavoro. La scuola gentiliana (ma si potrebbe dire anche salveminiana) è sì allora una scuola elitaria, ma che non garantisce affatto una classe sociale, qualora questa non si dimostri all’altezza delle proprie responsabilità. È una scuola che pretende tanto, senza dare per certo nulla, proprio agli esponenti delle classi dominanti.
Totalmente opposta sarà la scelta della “scuola democratica” la quale, interpretando la cultura come un privilegio, prevedeva un atteggiamento di accondiscendenza verso i ceti popolari, offrendo una prospettiva di livellamento culturale e di semplificazione che in realtà, per limiti soprattutto di carattere organizzativo (tipologia di scuole, qualità degli insegnanti), finiva per riproporre proprio una condizione di disuguaglianza.
Quest’esigenza, che sostanzialmente voleva sostituire alla cultura la competenza professionale, era già propria del fascismo, il quale aprì al principio della scuola per tutti e, soprattutto durante il lungo ministero Bottai, oppose le ragioni dell’economia e del lavoro a quelle della crescita culturale degli allievi. Del resto, nota l’Autore, il complesso rapporto che è possibile istituire tra fascismo e democrazia si gioca sul fatto che «nella scuola dei regimi totalitari vige lo stesso principio socialdemocratico dell’identico accesso a tutti».
La scuola, successiva, della Costituzione repubblicana – e non poteva essere altrimenti – venne concepita come scuola di massa. Di per sé questo potrebbe non costituire alcunché di negativo, ma tutto il dibattito sulla scuola negli anni della Costituente non si risolse su un punto decisivo, ovvero se privilegiare le ragioni dell’istruzione o introdurre nella scuola finalità sociali extraculturali che inevitabilmente indebolivano le prime. La successiva degenerazione fu la conseguenza delle decisioni allora prese. Si introdussero idee che trasformavano il maestro in una sorta di assistente sociale; inoltre si volle adeguare la scuola quasi totalmente alle attitudini individuali dell’alunno, per cui le finalità culturali (ma potremmo dire formative) non costituirono più un fine oggettivo, ma si identificarono con quanto il singolo allievo era capace di raggiungere.
Non c’è spazio anche solo per riassumere la puntuale ed esaustiva analisi storica proposta da di Luzio; diremo solo che l’Autore nota una coincidenza di fatto, se non nelle intenzioni, tra la cultura cattolica e quella comunista, che non a caso, all’interno della Costituente, misero in secondo piano la questione delle scuole non statali. In particolare, fu decisivo, nel mondo cattolico, il prevalere delle posizioni di Aldo Moro e gli atti del Ministro Gonnella; in campo comunista, il lavoro teorico di Concetto Marchesi e soprattutto di Lombardo Radice.
Il compimento di questo percorso si ebbe con l’istituzione della Scuola media unica, la quale segnò il definitivo superamento del dualismo casatiano-gentiliano; rappresentò «l’unità dei due ordini distinti in epoca risorgimentale». L’esito della scuola democratica fu però deludente, in quanto l’eguaglianza di opportunità risultava solo apparente, come dimostrano i fenomeni, mai pienamente superati, di «inefficacia formativa» o di «dispersione implicita».

Lo studio si conclude con un accenno troppo breve – sicuramente però oggetto di successivi lavori, nonché di recenti impegni saggistici dell’Autore – agli ultimi quindici anni, e ai progetti di riforma legati ai nomi dei ministri Berlinguer e Moratti. Sono queste ultime considerazioni, di natura evidentemente più polemica, a suscitare qualche perplessità non solo sui giudizi di di Luzio, com’è ovvio, ma più in generale – e in questo caso la questione è di carattere metodologico – sulle conclusioni che egli trae dalla dottissima indagine storica esposta nelle pagine precedenti. Ovvero, si può condividere l’analisi storica proposta da di Luzio, ma non ritenere che gli eventi recenti della scuola abbiano con quel passato storico la relazione che lo studioso istituisce.
Berlinguer e Moratti avrebbero sperimentato la difficoltà di doversi confrontare con la distruzione della scuola operata nei decenni precedenti e sono stati costretti a concepire un’organizzazione del tutto nuova, proponendo una cesura netta con la tradizione. È proprio questa presunta cesura, però, ad apparire problematica. Basti pensare che molta della vis polemica diretta contro la scuola ai nostri giorni, a sostegno di progetti radicali di riforma, trova le proprie motivazioni in argomenti di carattere economico che ricordano, in modo a volte addirittura clamoroso, le invettive di Bottai contro la scuola gentiliana. Atteggiamento attento alle esigenze di breve periodo dell’economia, che sottovalutano però la funzione formativa di lungo periodo propria delle singole discipline. Lo stesso errore, ampiamente sottolineato da di Luzio, che fu commesso quando, con pessimi risultati, si condizionarono i programmi in base alle risultanze del rapporto SVIMEZ del 1963. Un classico esempio di quella sottovalutazione della storiografia praticata dagli attuali riformatori.
E d’altra parte, in un passo molto significativo del testo, anche di Luzio è costretto ad ammettere una sorta di degenerazione, dal punto di vista culturale, dell’attuale dibattito sulla scuola rispetto a quello dell’immediato secondo dopoguerra, dove la valenza attribuita alla cultura era ancora molto alta, mentre oggi essa è sottoposta ad un attacco senza precedenti. («Va anche detto tuttavia che lo sforzo teoretico compiuto da questa generazione intellettuale nell’immediato dopoguerra testimonia, accanto alla critica della cultura, della persistente fiducia negli strumenti della cultura stessa per penetrare nel nuovo mondo e dargli forma. Questo va detto perché la moda radicale che segna invece il nostro tempo […] rappresenta l’abdicazione pura e semplice della ragione a vantaggio di una ragione umanitaria senza contenuti»).
Quest’ultimo passaggio possiede, a nostro parere, un valore quasi rivelativo su un aspetto discutibile del giudizio storico di di Luzio. È indubbio che la scuola italiana, negli ultimi decenni, abbia subito un processo, regressivo, di semplificazione e di livellamento culturale. Tale esito è problematico attribuirlo in toto all’idea di scuola concepita dalla Costituente, ancora in forse tra la critica e la valorizzazione della cultura ma anche ricettiva delle critiche che, già all’interno del fascismo, erano state rivolte alla riforma genti liana. È forse preferibile spostare più in là nel tempo questo mutamento di ordine culturale, e precisamente nella discutibile applicazione della pur importante riforma della Scuola media unica. L’attenzione alla centralità dell’alunno, nonché il produttivo rapporto con il mondo del lavoro, non devono di per sé essere demonizzati – e alcune valutazioni di di Luzio in questo senso attendono evidentemente risposte altrettanto documentate e qualificate –, ma la loro applicazione non doveva intendere – come invece si verificò – una svalutazione dello specifico disciplinare, perché solo riconoscendo alle discipline una funzione formativa insostituibile è possibile dedicarsi alla personalità dell’alunno, il quale ha diritto anche a un’attenzione individualizzata, purché finalizzata alla trasmissione dei medesimi contenuti culturali; a realizzare cioè quella “infedeltà” misconosciuta dalla scuola repubblicana.
La svalutazione del sapere disciplinare, e quindi il livellamento culturale e del profitto che ha caratterizzato la scuola italiana degli ultimi decenni, ha avuto una potente accelerazione dalla prima metà degli anni Novanta, a partire dal ministero Falcucci (1982-1987; e, successivamente, con l’abolizione degli esami a settembre decisa dal ministro D’Onofrio nel 1994), per essere esplicitamente rivendicata dai ministeri Berlignuer e Moratti (si consideri, in quest’ultimo caso, l’aleatorietà dell’«Unità minima didattica» prevista dal progetto di riforma).
Questa valutazione storica, sulla quale di Luzio sembra più reticente, dovrebbe far giudicare non decisiva l’importanza della contestazione sessantottina sulla vita scolastica italiana. Non è questo il parere dell’Autore, il quale in merito ha posizioni decisamente schierate e, forse, condizionate da un atteggiamento ideologico, estraneo al rigore delle pagine precedenti. Il 1968 ha assunto ormai, nei commenti sulla scuola, la vera e propria funzione di mito conservatore (cfr. l’editoriale di Giovanni Sartori sul «Corriere della Sera»del 12 novembre 2008); in quegli anni – ma in verità già prima, proprio a partire dalla riforma della Scuola media unica – venne concepita quella costruzione teorica che è possibile chiamare “pedagogia democratica”, indubbiamente mediocre e contestabile nei suoi assunti e destinata al fallimento nella concreta azione didattica. Ma l’incidenza reale di quelle teorie fu sia di breve periodo sia piuttosto modesta. È vero che una parte dei docenti mostrò un atteggiamento più permissivo, ma non fu in quegli anni che, nei Licei soprattutto, scomparve l’ampia selettività (fenomeno invece praticamente assente negli ultimi due decenni, durante i quali l’ideologia sessantottina è stata sottoposta a critiche radicali e definitive). Semmai questi comportamenti scatenavano dibattiti e conflittualità. Ci sembra che in queste pagine di Luzio faccia riferimento a un numero di fonti limitato, a volte un po’ comode nella loro ingenua radicalità teorica, e si lasci andare a una prosa descrittiva francamente poco credibile. Per esempio il ritratto, non supportato da alcuna fonte, degli insegnanti formatisi prima di quegli anni: «Hanno fatto studi severi, mantenendo un legame forte con l’università e i vecchi maestri, attraverso le riviste scientifiche sulle quali continuano a pubblicare i loro lavori di erudizione storica e di filologia, frutto di ricerche condotte quando sono già in cattedra, senza bisogno di aggiornamenti, con libri che hanno in casa e con quelli messi a disposizione dalle grandi biblioteche storiche del nostro paese». A questo ritratto agiografico si potrebbe allora contrapporre qualsiasi esperienza personale di chi ha avuto insegnanti ottusamente conservatori, chiusi alla contemporaneità artistica e culturale, rancorosi verso le trasformazioni che il mondo conosceva in quegli anni e responsabili dell’espulsione dal circuito scolastico di molti alunni che potevano essere recuperati.
Di Luzio, nelle ricche e stimolanti note bibliografiche, stimolanti anche perché impostate in una tonalità discorsiva, e proprio per questo poste a fine volume, afferma, in merito a questo giudizio, di essersi ispirato all’importante studio di Giulio Ferroni La scuola sospesa. Istruzioni, cultura e illusioni della riforma (Torino, Einaudi, 1997). In realtà, però, ne ha colto, a nostro parere, solo una parte. Ferroni infatti osserva come i principi della “pedagogia democratica”, ovvero quella che di Luzio giustamente caratterizza per «l’avversione ideologica alla selezione meritocratica», si ritrovano, spogliati da ogni superfetazione ideologica, proprio nelle proposte di riforma più recenti; al di là di tutte le chiacchiere del personale politico coinvolto di voler ripristinare la meritocrazia. Si è avuta, negli ultimi quindici anni, una sorta di secolarizzazione del mito egualitario, proposto non per motivi ideologici, ma per altre esigenze. Tant’è che esso si ritrova non solo nel progetto di riforma del centro-sinistra, schieramento che potrebbe essere, molto superficialmente in realtà, considerato l’erede di quella cultura, ma anche in quello del centro-destra. Stupisce che di Luzio motivi le contestazioni al progetto del “tutor”, contenuto nella riforma Moratti, come una sterile opposizione corporativa di carattere sindacale; il tutor era invece proprio la figura destinata ad espropriare gli insegnanti della loro competenza professionale e a svilire la possibilità delle singole discipline, quando verso di esse lo studente manifestava negligenza di studio, di incidere sul suo profitto generale. È evidente dunque che esiste una motivazione, di carattere politico-economico-sociale, legata alle trasformazioni di questi ultimi anni, che spinge la politica scolastica in questa direzione – che di Luzio, giustamente, valuta molto negativa per il Paese –, e che nulla ha più a vedere con l’ideologia sessantottina [cfr. G.Carosotti, La falsa alternativa: Berlinguer, Moratti e il destino del Liceo europeo, «L’Acropoli», 5 (2004)].
È indicativo del resto che tali progetti di riforma, quando devono trovare un riferimento polemico, ancora utilizzano l’espressione “gentiliana”, con la quale in realtà intendono riferirsi all’intera politica scolastica dei primi due decenni del secolo scorso; contro dunque l’impostazione culturale di quel modello scolastico, giustamente valorizzato da di Luzio, che prende così giustamente le distanze dalle intenzioni iconoclaste delle più recenti politiche ministeriali.
Se l’Autore fa bene a denunciare la mancanza di senso storico nell’attuale dibattito sulla scuola in Italia, non può però non rilevarlo proprio negli atteggiamenti degli ultimi ministeri, dove il presupposto di lavoro delle stesse commissioni di riforma era quello di ignorare il passato della scuola, per metterne meglio a fuoco le problematiche nel contesto contemporaneo. Con il risultato che il dibattito in tali commissioni, a volte senza volerlo, ha riproposto questioni già affrontate, a un ben superiore livello, decenni prima.
Il punto di partenza di di Luzio è quindi totalmente condivisibile: per riformare seriamente la scuola italiana non si può prescindere dalla ricchezza culturale del modello casatiano-gentiliano, troppo frettolosamente rifiutato dalle successive scelte politiche. Rimane forse un’ulteriore possibilità all’analisi storica di quel periodo, nonostante la completezza e l’eccellenza delle pagine del testo in oggetto. Sottolineare non solo, giustamente, l’affinità del progetto gentiliano con la precedente cultura liberale, e quindi le convergenze, per esempio, con il pensiero di Salvemini; rilievo comprensibile, in quanto vuole opporsi a una “vulgata” sull’attività di ministro di Gentile ancora oggi considerata scontata. Ma anche riflettere sulle differenze, che pure i dibattiti di allora testimoniano, tra le posizioni di Gentile, Salvemini o Croce (il quale, rispetto a Gentile, riconosceva ben superiore importanza, nella progettazione didattica, alle capacità cognitive degli alunni nei diversi anni di corso), per valutare quali possano essere oggi le opzioni in campo per una riforma della scuola capace di sostenere la società del nostro tempo, proprio perché in grado di valorizzare i contenuti culturali.
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