Ernesto Rossi e il dibattito sul federalismo europeo
Nonostante Ernesto Rossi sia un intellettuale ascrivibile a quella cultura laica e radicale sempre minoritaria nel nostro paese, recentemente la storiografia ha mostrato un notevole interesse per questo “giacobino†sempre polemico e controcorrente
1; anche se, va subito detto, continua a mancare una biografia organica che chiarisca i diversi interessi e le molteplici matrici culturali della sua attività intellettuale e politica. Sebbene più noto per la sua strenua propaganda antifascista durante il ventennio, nelle fila di Giustizia e Libertà e per le sue battaglie contro il “capitalismo inquinatoâ€, nei primi decenni dell’Italia repubblicana
2, Rossi occupa un posto di primo piano anche nel panorama dell’europeismo militante, sia per le sue riflessioni teoriche sulla questione, sia come fondatore prima e come membro attivo poi del Movimento Federalista Europeo.
Se consideriamo che l'aspetto più rilevante ed originale dell’europeismo novecentesco parte dalla critica radicale dello stato nazionale, così come si era configurato nel secolo precedente e che aveva mostrato i suoi effetti perversi e devastanti già con la «grande guerra», Rossi si pone sicuramente come uno dei maggiori teorici del federalismo europeo, inteso come superamento del concetto tutto
moderno di sovranità nazionale.
La sua passione europea nacque già durante la prima guerra mondiale che lo aveva visto combattere come volontario in nome dei principi dell’interventismo democratico. Quei principi cioè che, pur ancorati ad una variante nobile dell'idea di nazione, non gli impedirono, alcuni anni dopo, dal carcere
3, di scrivere che egli, anche durante la guerra, si era «sempre sentito più europeo che italiano»
4, nel senso che aveva iniziato a comprendere la necessità che «gli uomini di buona volontà » tendessero verso la costituzione delle «federazioni economiche e poi politiche fra i diversi Stati europei»
5, con l’obiettivo di superare la rigidità politica implicita nel concetto di sovranità nazionale.
Si trattava di intuizioni non ancora sorrette da uno studio analitico e sistematico della questione che, d’altra parte, in quegli anni era dibattuta, anche a livello europeo, solo grazie ad iniziative più o meno individuali (si pensi al contributo dato già dagli anni venti da Coudenhove-Kalergi), o in ristretti gruppi di intellettuali (in area anglosassone assai vivace sarà la presenza della
Federal Union, sorta nel '38, animata principalmente da Lord Lothian, Lionel Robbins e Barbara Wootton).
Solo durante il confino a Ventotene, Rossi maturerà una autentica e compiuta coscienza europeista, grazie anche al proficuo incontro con giovani intellettuali antifascisti come Eugenio Colorni e soprattutto Altiero Spinelli, il quale, come lui, iniziava a coltivare ipotesi concrete di costruzione di una unità politica europea. Fu in tale contesto, come è noto, che nacque il famoso ed appassionato Manifesto di Ventotene, giustamente giudicato da Bobbio «una svolta teorica nel pensiero federalista ed europeista»
6.
Nell’autunno del ’39, quando la guerra era da poco scoppiata e dopo nove anni di carcere, Rossi era stato trasferito al confino di Ventotene. Con straordinaria lungimiranza ed una dose non trascurabile di ottimismo, proprio nel momento in cui, in seguito alla tragica e repentina resa della Francia, gli ideali democratici sembravano poter contare soltanto sull'Inghilterra, Rossi e Spinelli dedicavano le loro energie intellettuali a teorizzare il superamento della sovranità nazionale, attraverso l’abbandono del principio dell’internazionalismo, per imboccare la strada del federalismo europeo.
A spingere Rossi e Spinelli ad accostarsi in maniera sistematica all'approfondimento dell'idea federalista era stata la scoperta fortuita di alcuni scritti di Einaudi, apparsi sul «Corriere della Sera» nel 1918. Si tratta di quegli articoli famosi come "lettere di Junius"
7, pubblicati all'indomani della proposta lanciata dal presidente americano Wilson di costituire una Società delle Nazioni, organo di cooperazione internazionale, attraverso il quale dirimere, per via giuridica, i contrasti tra gli stati. Come è noto molti si illusero che la SdN potesse essere un rimedio adeguato, senza però considerare che, in realtà , i vincoli, i limiti, le regole che ne erano alla base, facevano di essa un qualcosa molto più vicina ad una lega o, al limite, ad una confederazione, o, per dirla con terminologia kantiana davano corpo più ad un
pactum pacis che a un
foedus pacificum. E questo, Einaudi lo aveva ben compreso denunciando la debolezza intrinseca del progetto wilsoniano, che gli appariva insufficiente proprio perché non affrontava il nodo centrale della limitazione della sovranità nazionale. E infatti, sosteneva Junius, «se si vuole che la società delle nazioni nasca vitale», si doveva «distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta»
8. È chiaro che il modello di riferimento di Einaudi erano gli Stati Uniti d'America cui, a suo avviso, in un’ottica abbastanza utopistica, si sarebbero dovuti associare gli Stati Uniti d'Europa, «in attesa di veder nascere in un momento ulteriore dell'incivilimento umano, gli Stati Uniti del mondo»
9.
Dunque, la lettura delle lettere di Junius, che risale al giugno del '40
10, aprì ai due confinati la strada alla critica del sistema degli Stati nel XX secolo. Altre letture tuttavia furono indispensabili per dare corpo e forma all’europeismo di Rossi e Spinelli, che vissero a Ventotene un vero e proprio sodalizio intellettuale. E fu proprio Einaudi ad indicare loro testi più pertinenti, inviandogli ad esempio alcuni scritti dei federalisti inglesi come quelli di Lord Lothian e soprattutto quelli di Lionel Robbins, tra cui
The Great Depression ed
Economic Planning and International World. In essi anche Robbins, come per certi versi aveva fatto Einaudi, tentava di dimostrare da una prospettiva liberal-liberista, come la crisi del sistema europeo fosse superabile solo attraverso la limitazione della sovranità assoluta degli Stati nazionali del continente, e quindi mediante la fondazione di un organismo di governo sovranazionale. Robbins inoltre, partendo da considerazioni di carattere economico, osservava che l'economia di mercato ha bisogno di garanzie e di tutela per consentire uno sviluppo equilibrato del benessere; garanzie e tutela che tradizionalmente sono sempre state appannaggio del potere coercitivo degli stati sovrani i quali, in condizioni di anarchia internazionale, tentano di tutelare il mercato interno attraverso misure di politica economica e doganale che, falsando il libero scambio delle merci, risultano in ultima analisi dannose per i consumatori. Il protezionismo doganale ad esempio, che aveva caratterizzato i sistemi economici durante gli anni Venti e Trenta, era al tempo stesso causa ed effetto della mancanza di coordinazione internazionale. D'altra parte, l'inarrestabile crescita produttiva, se aveva messo in discussione nei paesi democratici i presupposti stessi dello Stato nazionale, nei regimi autoritari ed autarchici aveva a sua volta imposto la spinta verso la ricerca dello «spazio vitale». Non era dunque l'economia capitalista ad essere intimamente fragile e causa della guerra (come ad esempio sostenevano comunisti e socialisti), ma era proprio l'anarchia internazionale a produrre il disordine economico e quindi la possibilità della guerra. La vera rivoluzione cui bisognava tendere era dunque di carattere squisitamente politico e non già economico, mediante cioè un trasferimento della sovranità dai singoli Stati ad uno Stato sovranazionale.
Frutto dunque di una rielaborazione della tradizione einaudiana e della scuola federalista anglosassone, il Manifesto di Ventotene ha il grande merito di aver istituito, per dirla con Sergio Pistone, «un nesso organico fra una dichiarazione teorica, […], delle ragioni per cui si doveva realizzare la federazione europea e delle precise indicazioni strategiche ed organizzative che dovevano guidare l’azione in un movimento politico avente come unico obiettivo il federalismo sovranazionale»
11. Dunque non più solo pensiero, ma anche azione; non più solo teoria, ma anche
praxis, questo uno dei motivi dell’enorme importanza del
Manifesto, che giunto a compimento nel «tetro inverno '40-'41», e pur essendo prevalentemente scritto da Spinelli (Rossi redasse solo la prima parte del III capitolo:
Compiti del dopoguerra. La riforma dello Stato), risente fortemente del lavoro svolto in comune. È lo stesso Spinelli, infatti, a sottolineare come la discussione fra loro avesse investito ogni aspetto, tanto da poter egli riconoscere «ancora giri di pensiero caratteristici dell'uno di noi due nelle parti scritte dall'altro»
12.
Per un'Europa libera e unita. Progetto di un manifesto, questo il titolo completo del famosissimo
pamphlet nel quale l'aspirazione alla pace è assolutamente radicale e, pur peccando forse dell'ottimismo con cui «tutti coloro che lanciando una nuova idea credono sempre che essa sia di imminente realizzazione»
13, ha sicuramente svolto nel secondo dopoguerra un ruolo fondamentale, sia nella spinta propulsiva al perseguimento dell’unità europea, sia negli ideali europeistici più o meno condivisi dai risorti partiti democratici italiani, così come a lungo contestati da quelli della cosiddetta «sinistra di classe».
Dopo la caduta del fascismo ed una breve permanenza in Italia, durante la quale insieme a Spinelli e ad altri fondò tra il 27 e il 28 agosto, a Milano, il Movimento Federalista Europeo (MFE), Ernesto Rossi si trasferì in Svizzera dove l'idea dell'unità europea, come risposta ai problemi del dopoguerra, era estremamente diffusa. Tra Lugano e Ginevra, dunque, dopo anni di privazioni dovuti all’impossibilità di reperire giornali, riviste e in generale le novità della pubblicistica mondiale, Rossi iniziò a frequentare le ricche biblioteche svizzere, che contribuirono ad irrobustire e ad aggiornare la sua cultura federalista
14.
Nel frattempo la collaborazione con Altiero Spinelli continuava a pieno ritmo, al fine di coordinare le forze federaliste che erano sorte e si accrescevano in Europa. La certezza che vi fossero altri gruppi che lavoravano per lo stesso obiettivo, infatti, spingeva Rossi e Spinelli ad una attività costante di informazione e divulgazione dell'idea federalista, insistendo su uno dei punti programmatici del MFE: quello cioè di dare, coerentemente con i suoi obiettivi, una dimensione sovranazionale al Movimento stesso. Il che sembrò realizzarsi in seguito ad una serie di incontri svoltisi a Ginevra tra il marzo e il maggio del '44 tra europeisti di diversi paesi, che produssero un documento, la
Déclaration des Conseils Nationaux et des Mouvements de Résistance15, articolato in sei punti, il terzo ed il quarto dei quali erano stati redatti proprio da Rossi
16.
Il problema, da un punto di vista pratico e programmatico, consisteva nel convertire al federalismo europeo i risorti partiti politici italiani, inizialmente poco sensibili alle tematiche europeiste. E questo contribuiva a creare una scollatura nell'organizzazione del movimento fra livello interno e livello internazionale.
In Italia, infatti, il progetto federalista stentava a decollare, anche a causa della fredda accoglienza che aveva ricevuto in una parte cospicua degli stessi ambienti ex-giellisti, ora impegnati a ricucire i loro legami nel Partito d'Azione. Quegli stessi ambienti cioè che, già a Ventotene erano rimasti insensibili alle sollecitazioni federaliste del Manifesto per motivazioni sostanzialmente analoghe a quelle che saranno poi anche di Salvemini. Fra il '44 e il '45 infatti, in totale controtendenza rispetto all'impostazione di Rossi, le argomentazioni salveminiane sollecitavano a rendere prioritaria la "questione nazionale". Dall'America Salvemini scriveva infatti a Rossi che «[La] Federazione Europea non è possibile [...] costruirla dal tetto. Bisogna costruirla dalle fondamenta. Ogni paese deve contribuire per proprio conto a costruirla nei suoi confini – o meglio nello spirito dei sui figli»
17. Una vera doccia fredda insomma per Rossi, il quale in Salvemini riponeva molte delle sue speranze come possibile guida dell'ala più liberal-socialista, a lui in qualche modo contigua, dell'intellighenzia italiana che militava nel Partito d'Azione. Ma in seguito, così come Salvemini si lasciò convincere dal caparbio spirito organizzativo di Rossi
18, anche la maggior parte degli azionisti aderì al progetto federalista.
Proprio durante la sua permanenza in Svizzera, nel '44, Rossi scriveva, con lo pseudonimo Storeno,
Gli Stati Uniti d’Europa. Introduzione allo studio del problema19, tradotto e ripubblicato in francese l’anno successivo con lo pseudonimo Thelos e il significativo titolo
l'Europa di domani20. Il
Manifesto di Ventotene rimaneva sullo sfondo, ma come progetto che si arricchiva ormai di elementi nuovi e più ponderati, frutto di una analisi molto più lucida e meno carica di emozioni.
Il valore fondamentale di questo saggio consiste, in primo luogo, nella estrema chiarezza con cui vengono individuate le ragioni fondamentali per cui l’unificazione europea risultava la strada politico-istituzionale necessaria che doveva, ad avviso di Rossi, essere imboccata dopo i disastri della guerra. Il linguaggio è quello della divulgazione che pone bene in luce soprattutto i diversi risvolti istituzionali impliciti nelle possibili forme di stato da adottarsi per l’Europa unita; ma d’altra parte la scelta di chiamare questo nuovo soggetto istituzionale Stati Uniti d’Europa, era assolutamente programmatica, nel senso che evocava chiaramente il modello costituzionale statunitense.
Rossi, infatti, nell’escludere l’ipotesi di una forma di Stato accentrata sul modello italiano post-risorgimentale, che avrebbe richiesto una grande omogeneità etnica, spirituale, linguistica e religiosa, del tutto assenti tra i diversi stati europei, descriveva due ipotesi: l’unità imperiale e l’unità federale. Entrambe queste opzioni avrebbero potuto scongiurare il pericolo della guerra, ma mentre la prima avrebbe certamente eliminato il contributo che ciascun popolo può dare al progresso dell’umanità perché è una forma di organizzazione politica che «assoggetta tutti i popoli al governo di un unico popolo militarmente più forte»
21, la seconda avrebbe consentito ai popoli di convivere pacificamente senza rinunciare all’autonomo sviluppo della loro individualità , perché la scelta dello stato federale prevede che «i singoli stati membri trasferiscono quegli attributi della loro sovranità che gli sono indispensabili per la gestione in comune di tutti gli affari di interesse generale, conservando i rimanenti poteri per risolvere indipendentemente i loro particolari problemi»
22. In sintesi, il federalismo sul modello degli Stati Uniti d’America o sul modello svizzero, veniva proposto da Rossi, come l’unica struttura costituzionale in grado di gestire democraticamente l’interdipendenza tra gli Stati, a patto che non fosse previsto il diritto di recesso per nessuno dei medesimi Stati membri. Alla base dunque della organizzazione federale dovevano essere posti gli individui e non gli stati associati che, in virtù del patto, avrebbero dovuto cedere la loro sovranità alla federazione per svolgere tre funzioni fondamentali: «le relazioni con l’estero, la difesa del territorio e la tutela della pace nell’interno della federazione»
23, attraverso un governo, al quale fosse riservata la politica estera, un esercito, agli ordini di tale governo, in sostituzione degli eserciti nazionali e un tribunale supremo, che giudicasse tutte le questioni relative all’interpretazione della costituzione federale e risolvesse le eventuali controversie tra gli stati membri, e fra gli stati stessi e la federazione.
In subordine all’unificazione politica, Rossi, indicava la necessità di raggiungere anche l’unificazione economica che avrebbe contribuito a dare vigore ed efficacia ai vincoli federali. Nel progetto politico di Rossi, il nucleo di partenza da cui iniziare l’opera di costruzione degli Stati Uniti d’Europa, avrebbe dovuto comprendere almeno le quattro grandi potenze dell’Europa occidentale: Inghilterra, Francia, Germania e Italia, risolvendo finalmente le antiche tensioni franco-tedesche, senza imporre questa volta, una pace punitiva alla Germania.
È evidente che quando Rossi scriveva – siamo nel 1944 – la guerra non era ancora finita, la situazione europea era in profonda evoluzione ed era alquanto difficile immaginare gli equilibri post-bellici. Non era ad esempio prevedibile che la realtà bipolare USA-URSS, chiaritasi in tutta la sua effettiva drammaticità solo nel '47, avrebbe notevolmente ridotto il peso politico della Gran Bretagna che invece, a suo avviso, avrebbe dovuto svolgere, a guerra conclusa, una funzione chiave nell'ambito del processo di unificazione europea. D'altra parte, proprio rispetto alla posizione dell'URSS, Rossi aveva sin dagli inizi idee ben precise. Egli infatti aveva colto tutta l'ambiguità che esisteva nei rapporti tra gli alleati anglo-americani e l'Unione Sovietica, la quale, pur contribuendo in maniera decisiva alla sconfitta del nazismo, proponeva un modello politico, economico e sociale del tutto alternativo ed opposto a quello dell'occidente democratico. La federazione europea dunque, «che, per essere veramente tale, deve di necessità avere un principio rappresentativo» non sarebbe potuta nascere con la partecipazione dell'URSS, che «di fatto non è un paese democratico»
24. Qui, tra l'altro, si manifestava la cultura politica profondamente e coerentemente anticomunista
25 di Ernesto Rossi, che influirà non poco anche sui suoi orientamenti politici nella fase difficile che va dal '45 al '48 in Italia.
Se si può dire che il periodo svizzero fu caratterizzato da un costante impegno teso a infiltrare il federalismo nelle altre forze politiche italiane ed europee, il periodo successivo al rientro, almeno sino al ’47, sarà un periodo di attesa, occupato, peraltro, dagli impegni assunti all'ARAR (Azienda di Rilievo e Alienazione Residuati).
Di ritorno in Italia nell'aprile 1945 infatti, oltre alla sua crescente diffidenza verso i comunisti italiani filosovietici, e verso la maggior parte dei socialisti vicini alle posizioni di Nenni, Rossi, come d’altra parte anche Spinelli, maturerà il suo temporaneo distacco dal MFE
26, in attesa dell'evolversi degli eventi, anche se non abbandonò mai il suo impegno nella diffusione, attraverso convegni e pubblicazioni, di una cultura politica realmente europeista lasciando completamente cadere – quello che definiva – «il proselitismo inutile»
27 tra i federalisti «del genere squinternato-spiritualisto-tolstoiano-esperantovegetarianesco»
28.
Fu solo dopo il famoso e storico discorso di Marshall del giugno '47 che Rossi riprese la sua attività federalista, avendo compreso pienamente i motivi politici, oltre quelli economici, che sottendevano l'European Recovery Program
29, che gli sembrava un'occasione irripetibile e da non perdere. Rossi, infatti sosteneva che «con il piano Marshall, gli Stati Uniti sta[va]no facendo un tentativo liberale», cercando di indurre alla collaborazione, «al di sopra delle frontiere nazionali i popoli ai quali da[va]no aiuti»; una seria opportunità quindi per superare le sovranità nazionali da parte dei paesi dell'Europa occidentale, in modo da metterli nelle condizioni «di difendersi per loro conto contro il pericolo di una espansione imperialistica sovietica»
30. Insomma, i federalisti europei e il MFE si trovavano di fronte alla necessità di schierarsi dalla parte delle forze filo-americane, distaccandosi definitivamente dalle forze politiche di sinistra ostili al Piano Marshall. Fu proprio in tale prospettiva che sia Rossi che Spinelli iniziarono a riavvicinarsi al MFE, assumendo il primo, il ruolo di segretario generale e il secondo, quello di una sorta di “presidente nell’ombraâ€, come lo definì Luciano Bolis
31.
Ma, una posizione autonoma dell'Europa tra le due superpotenze era irrealizzabile, secondo Rossi, senza l'impegno costruttivo dell'Inghilterra. E non a caso era proprio ai laburisti inglesi, allora al governo, che rivolgeva l'invito a comprendere quanto fosse necessario che essi assumessero la
leadership dell'unificazione federale dell'Europa occidentale; tenendo sempre ben chiaro il presupposto che «l'unificazione economica, condizione necessaria degli aiuti americani, non può essere la premessa, ma deve essere la conseguenza dell'unificazione politica»
32. Una unificazione politica che non poteva prescindere, inoltre, dal problema tedesco: nel senso che, anche i settanta milioni di tedeschi i quali, dal '45 in poi, avevano subito, in seguito agli accordi di Potsdam, uno "schiacciamento" inconcepibile, dovevano entrare a far parte a pieno titolo della federazione europea. Anche la Germania quindi doveva essere messa nelle condizioni di risorgere in tutta la sua potenza economica, rispetto alla quale, l'unico "contrappeso sufficiente" sarebbe stato rappresentato dalla Gran Bretagna: una nazione cioè forte, oltre che del suo potenziale industriale, anche e specialmente della sua «secolare esperienza di autogoverno», caratterizzato dal «controllo dei cittadini sulla classe governante». Fino ad allora però, in Inghilterra, l'unico portavoce dell'ipotesi federalista era stato Churchill, secondo il quale l'Inghilterra, pur dovendo svolgere il ruolo di "madrina" del federalismo europeo, non doveva però entrarvi a far parte. In tal modo, la federazione europea sarebbe servita all'Inghilterra esclusivamente «come baluardo contro l'espansione imperialistica sovietica»
33. E l'accusa principale che Rossi muoveva ai laburisti era che, «salvo Bevin e pochi altri, tengono i paraocchi per non vedere quanto accade al di là della Manica», gli sembravano, cioè tutti concentrati nella ricostruzione dell'economia inglese, senza considerare i vantaggi che avrebbero potuto trarre da un mercato continentale unificato nella federazione europea. Anche il «federarsi o perire», lanciato nel '40 da Attlee, si era trasformato, nel linguaggio dei laburisti, nel più banale «esportare o perire». Tra i compiti quindi dei federalisti europei in quella fase delicata, vi era quello fondamentale, secondo Rossi, di "scuotere" i laburisti (allora al governo) e di convincerli che «la libertà dell'Inghilterra si difende oggi sul continente europeo e che l'Europa non si salva se non si contrappone all'imperialismo sovietico e all'imperialismo americano un'idea che, come quella dell'unione europea, può apparire alle masse popolari più progressista del mito totalitario comunista e più benefica della politica colonialista del dollaro»
34.
Il problema di fondo era che, tra gli europeisti, si andava definendo in maniera sempre più chiara il contrasto tra gli unionisti ed i federalisti, ed il progressivo prevalere dei primi sui secondi sembrava escludere la creazione di un organo di governo sovranazionale, chiaramente identificato sotto il profilo istituzionale. Era questa una spaccatura che si era manifestata con forza al Congresso dell'Aja (maggio 1948), organizzato dal Comitato internazionale di coordinamento dei movimenti per l'unità europea, grazie all'iniziativa presa dall'Union Européenne des Féderalistes (cui aderiva anche il MFE) fondata da Brugmans. Quel Congresso, nel tentativo di mediare tra le diverse tendenze, aveva fra l'altro fatto emergere una ulteriore opzione metodologica per il raggiungimento dell'unione: quella del «funzionalismo», inteso come opportunità di intervenire attraverso meccanismi integrativi graduali, da utilizzare per funzioni e per settori specifici, che, di fatto, portava ad escludere la strada di una strategia costituente che puntasse alla costituzione dell’unione politica europea come obiettivo immediato. L’approccio funzionalista, sebbene in un’ottica di lungo periodo si sia mostrato per certi aspetti vincente, ebbe come effetto quello di allontanare il radicale Rossi dalla militanza europeista. Egli, infatti, sempre più si convinceva che l’integrazione funzionalista, avviata peraltro dal Piano Marshall, doveva essere solo una fase di passaggio verso la messa in moto di un meccanismo costituente, finalizzato all’istituzione di un potere politico europeo unitario e sovrano, senza il quale gli sembrava impossibile realizzare il progetto federalista.
Di qui lo scetticismo rispetto alla nascita, nel 1950, della Comunità Economica del Carbone e dell’acciaio (CECA) che, a suo dire, pur avendo avuto il grande merito di aver ridimensionato le tensioni tra la Francia e la Germania, aveva «ringalluzzito tutti i fantasiosi progettisti di autorità specializzate» che si illudevano che la federazione europea potesse risolversi nella «somma delle unità particolari»
35, senza invece considerare che era indispensabile realizzare una unione politica ed economica insieme, dotata di un governo sovranazionale, basato sul principio della rappresentanza democraticamente espressa attraverso le elezioni, e garantito dai meccanismi classici del liberalismo, attraverso i quali i cittadini europei avrebbero potuto esercitare la loro fisiologica funzione di controllo sui governanti. La unificazione dei mercati e delle strutture produttive, insomma, poteva avere un senso ed una utilità solo se costituiva il presupposto per la nascita di un nuovo equilibrio politico di carattere permanente, che comportasse, cioè, «il trasferimento di una parte della sovranità nazionale ad organi sovranazionali»
36. Senza questa premessa, tutto il resto era soltanto "aria fritta".
E, d'altra parte, lo stesso esercito europeo ipotizzato nell'ambito della Comunità europea di Difesa (CED), non gli sembrava concepibile senza la preliminare costituzione di un governo federale, nel senso che un esercito senza governo altro non sarebbe stato che «un corpo senza testa»
37. Infatti, argomentava Rossi, «la forza armata è la manifestazione più concreta della sovranità », per cui l’idea di «costituire una forza sovranazionale senza contemporaneamente costituire un organo politico sovrano internazionale che lo comandi, ed a cui partecipino con eguali diritti ed eguali doveri i rappresentanti dei paesi associati» significava «rinunciare alla autonomia della politica estera per divenire vassalli dello stato egemonico»
38.
Dopo un quindicennio di ferrea coerenza con i presupposti di Ventotene, arricchiti da proposte concrete e da una militanza attiva, nel '55 Rossi si allontanò definitivamente dal MFE, convinto che la strada per arrivare agli Stati Uniti d'Europa era ormai definitivamente sbarrata. Anche la "conferenza di Messina" e la successiva creazione del MEC, lo lasciarono del tutto scontento, (come d'altra parte lo fu anche Spinelli, il quale però continuò con tenacia la sua attività federalista). Egli infatti era convinto che il tempo era passato, e che l'Europa si era lasciata sfuggire occasioni irripetibili per la sua unificazione politica e «quella che, nell'immediato dopoguerra, era la lava fluida delle strutture politiche ed economiche, si [era] riconsolidata nei vecchi stampi degli Stati nazionali»
39. Insomma, e per concludere, se è vero che con il federalismo intransigente di Ernesto Rossi, probabilmente l’Europa non sarebbe giunta alla sua attuale configurazione istituzionale, non può sfuggire il monito di questo “pazzo malinconicoâ€, il quale aveva coerentemente sostenuto che i mercati, la moneta e le dogane da sole non possono sostituirsi alla dimensione più complessa e ampia che connota nella sua pienezza l’idea di stato sovranazionale che, soprattutto in momenti cruciali, basti pensare alle emergenze dettate dalla politica estera e di difesa, necessita di un centro politico unitario e sovrano.
NOTE
1 Cfr. G. Armani,
La forza di non mollare. Ernesto Rossi dalla Grande Guerra a Giustizia e Libertà , Milano, FrancoAngeli, 2004; A. Braga,
Un federalista giacobino. Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d’Europa, Bologna, il Mulino, 2007; cfr. anche gli epistolari di recente pubblicazione che sono una vera miniera di storia della cultura politica, E. Rossi e G. Salvemini,
Dall’esilio alla Repubblica. Lettere 1944-1957, a cura di M. Franzinelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2004; E. Rossi,
Epistolario 1943-1967. Dal Partito d’Azione al centro-sinistra, a cura di M. Franzinelli, Roma-Bari, Laterza, 2007. Va aggiunto che tra il 2000 e il 2004, prevalentemente dall’editore Kaos, sono stati ripubblicati la maggior parte degli scritti di Rossi.
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2 Cfr. E. Rossi,
Settimo: non rubare, a cura di M. Franzinelli, Milano, Kaos, 2002 (I ed. 1952); Id.,
Lo Stato industriale, Bari, Laterza, 1953; Id.,
I padroni del vapore, a cura di M. Franzinelli, Milano, Kaos, 2001 (I ed. 1955); Id.,
Aria fritta, Bari, Laterza, 1956.
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3 Ernesto Rossi era stato condannato il 30 maggio del '31 dal Tribunale speciale a venti anni di reclusione come membro attivo del movimento clandestino antifascista "Giustizia e Libertà ". Fu incarcerato a Roma (novembre 1930-giugno 1931), a Piacenza (novembre 1931-novembre 1933) poi ancora a Roma fino al novembre del 1939, data in cui la sua pena fu commutata nel confino a Ventotene dove rimase fino alla caduta del fascismo.
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4 Lettera, 29 novembre 1935, cit.in G.Fiori,
Una storia italiana. Vita di Ernesto Rossi, Torino, Einaudi, 1997, p.133.
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5 Lettera al fratello Paolo, 30 settembre 1932, in
Ivi, p.121.
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6 A. Spinelli, E. Rossi,
Il Manifesto di Ventotene. Con un saggio di N. Bobbio, Napoli, Guida, 1982, p. 149.
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7 Junius era lo pseudonimo di Luigi Einaudi.
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8 Id.,
Il dogma della sovranità e l'idea della Società delle Nazioni, in «Corriere della Sera», 28 dicembre 1918, ora in Id.,
Lettere politiche di Junius, Bari, Laterza, 1920, p. 151 e anche in Id.,
La guerra e l’unità europea, Bologna, il Mulino, 1986, p. 19.
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9 L. Einaudi,
La società delle Nazioni è un ideale possibile?, ora in L. Einaudi,
La guerra e l'unità europea, cit., p. 11.
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10 A. Spinelli annotava tutti i libri letti durante il suo periodo di confine a Ventotene, specificando anche il periodo in cui li leggeva. Pertanto è assai probabile che, molte erano letture comuni allo stesso Rossi. L'elenco è in A. Spinelli,
Machiavelli nel XX secolo. Scritti del confino e della clandestinità 1941-1944, a cura di P. Graglia, Bologna, Il Mulino, 1993, pp.501-533.
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11 S. Pistone,
Introduzione a A. Spinelli, E. Rossi,
Il Manifesto di Ventotene, Torino, Celid, 2004, p. XII.
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12 Intervista con A. Spinelli, a cura di S. Schmidt, in A. Spinelli e E. Rossi,
Il Manifesto di Ventotene, Napoli, Guida, p. 174. Il Manifesto di Ventotene è strutturato in tre parti, la prima dedicata alla "crisi della civiltà moderna" come conseguenza della degenerazione dell'idea di nazione e dei fondamentali presupposti democratici, stravolti e manipolati dai regimi totalitari. Nella seconda invece i due autori affrontano i "compiti del dopoguerra", e cioè tracciano il percorso necessario per il raggiungimento dell'unità europea attraverso la «definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani» (
Ivi, p. 35). Questo obiettivo risulterà proprio dei nuovi partiti progressisti, diversi da quelli reazionari non soltanto perché ispirati a «maggiore democrazia o a maggiore socialismo da istituire», ma in quanto i primi «vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale» da costituirsi immediatamente dopo aver «conquistato il potere nazionale», mentre i secondi si limiteranno ad ambire esclusivamente «alla conquista del potere politico nazionale» (
Ivi, p. 37). La terza ed ultima parte infine, è dedicata alla riforma della società in senso egualitario; non già utilizzando il modello sovietico della statizzazione generale dell'economia, ma applicando «il principio veramente fondamentale del socialismo», in base al quale «le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne sieno vittime» (
Ivi, p. 39). Alla base dunque di un riequilibrio sociale vi sono la riforma agraria e quella industriale che saranno il frutto maturo di una «crisi rivoluzionaria in senso egualitario», guidata da un partito rivoluzionario inteso ad attingere le sue forze in un terreno interclassista, ma solo tra «coloro che hanno fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita» (
Ivi, p. 43).
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13 A. Spinelli,
Come ho tentato di diventare saggio. Io, Ulisse, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 311.
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14 Sulle letture fatte in Svizzera, cfr. A. Braga,
Un federalista giacobino…, cit., pp. 339-353.
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15 Cfr.,
Ivi, pp. 413-438.
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16 Ivi, pp. 433-434.
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17 G. Salvemini a E. Rossi, 12 dicembre 1944, in
Lettere dall'America. 1944-1946, Bari, Laterza, 1967, Vol. I, p. 58.
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18 Rossi riuscì a convincere Salvemini, dopo lunghe trattative epistolari (vd. G. Salvemini,
Lettere dall'America, Bari, Laterza, 1968, Vol.II, pp.103-116) a partecipare ad un convegno che egli stesso aveva organizzato a Roma il 27 ottobre 1947. In quell'occasione Salvemini si impegnò a presentare una relazione sugli aspetti politici della federazione europea. Va ricordato che a quel convegno, un vero successo personale per Ernesto Rossi, parteciparono anche Piero Calamandrei (aspetti giuridici della Federazione europea), Ignazio Silone (aspetti sociali) e Luigi Einaudi (aspetti economici). Parte delle relazioni in E. Paolini,
Altiero Spinelli. Dalla lotta antifascista alla battaglia per la federazione europea. 1920-1948: documenti e testimonianze, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 591-599.
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19 Storeno,
Gli Stati Uniti d’Europa, ristampa anastatica a cura di S. Pistone, Torino, CELID, 2004.
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20 E. Rossi,
L’Europa di domani, a cura di A. Amato, Napoli, Guida, 1999. Il testo qui presentato differisce di poco esclusivamente nella forma rispetto a
Gli Stati Uniti d’Europa, ma la sostanza rimane invariata.
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21 Storeno,
Gli Stati Uniti d’Europa…, cit., p. 18.
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22 Ibidem.
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23 Ivi, p. 20.
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24 Ivi, pp. 33-34.
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25 Non è possibile in questa sede approfondire il discorso sull'anticomunismo di Rossi. Ci bastino almeno poche ma chiarissime parole che scrisse di se stesso: «Sono uno dei pochi italiani - scriveva Rossi ad Oscar Cox il 12 ottobre 1951 – che hanno svolto una attività antifascista durante tutto il periodo mussoliniano, senza mai essere stato comunista, anzi avendo sempre tenuto un atteggiamento di avversario nei confronti dei comunisti», in L. Einaudi-E. Rossi,
Carteggio (1925-1961), a cura di G. Busino e S. Martinotti Dorigo, Torino, Fondazione Einaudi, 1988, p. 425.
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26 Nel gennaio del 1946, Rossi e Spinelli inviarono una lettera alla conferenza organizzativa del MFE convocata a Firenze, spiegando le ragioni del loro distacco. Cfr., la lettera in A. Spinelli,
La rivoluzione federalista. Scritti 1944-1947, a cura di P. Graglia, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 322-330.
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27 E. Rossi, in
Verbale della riunione del MFE, Roma, 22 dicembre 1945. in E. Paolini,
Altiero Spinelli: dalla lotta antifascista alla battaglia per la federazione europea 1920-1948, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 529.
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28 E. Rossi a G. Salvemini del 21 agosto 1947, in
Lettere dall’America. 1947-1949, Bari, Laterza, 1968, Vol. II, pp. 96-97.
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29 Rossi scriveva a Salvemini il 13 luglio 1947: «[…] sembra che ci sia ora un’occasione favorevole […]. Si parla è vero di unificazione economica, ma se i laburisti inglesi riusciranno a capire che l’unificazione economica, condizione necessaria per gli aiuti americani, non può essere la premessa, ma deve essere la conseguenza dell’unificazione politica, se riusciranno a capire che non possono più difendere l’Inghilterra contro l’espansione della zona di influenza russa, senza assumere la
leadership dell’unificazione federale dell’Europa occidentale, allora potrebbe anche darsi che il discorso di Marshall divenisse il punto di partenza per la realizzazione dei nostri ideali», in G. Salvemini,
Lettere dall’America (1947-1949), cit., pp. 88-89.
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30 E. Rossi,
Unione Sovietica, partito comunista e federazione europea, In «L'Italia Socialista», 28 settembre 1947.
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31 Per una documentata ricostruzione di questa fase, cfr., A. Braga,
Un federalista giacobino…, cit., pp. 610-614.
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32 E. Rossi a G. Salvemini 13 luglio 1947, vd. n. 33.
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33 E. Rossi,
Federazione europea con l'Inghilterra, in «L'Italia Socialista», 21 settembre 1947.
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34 Ibidem.
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35 E. Rossi,
l'Unione a pezzettini, in «La Stampa», 11 ottobre 1952, anche in
Ibidem, p. 116.
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36 E. Rossi a G. Salvemini, 11 gennaio 1949, in G. Salvemini,
Lettere dall’America. 1947-1949…, cit., p. 259.
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37 E. Rossi,
Un corpo senza testa, in «Il Mondo», 28 giugno 1952, ora in E. Rossi,
L’Europa di domani…, cit., pp. 79-92.
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38 E. Rossi, risposta all'inchiesta
Chiarezza sul federalismo, in «Il Ponte», 6 (1950), n. 12, p. 1504.
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39 E. Rossi,
Aria fritta…, cit.,
Introduzione, p. XVIII.
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