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Eugenio Colorni e Benedetto Croce
di Alceste Riosa
Nel 2009 è ricorso il centenario della nascita di Eugenio Colorni, nome che forse ai più delle nuove generazioni può far dire, come di Carneade, “Chi era costui?” Proprio per questo motivo la passata gestione la Fondazione Filippo Turati di Firenze aveva indetto, con il meritevole sostegno della trascorsa gestione del Ministero degli Affari Culturali, una serie di iniziative di ricostruzione storica relative al personaggio, che lo riportassero di attualità nella memoria collettiva. Ne sono risultati due convegni, l’uno a Palazzo Macuto a Roma nel maggio, l’altro a ottobre alla Sala Napoleonica dell’Università degli Studi di Milano, che hanno ricordato la poliedrica figura di Eugenio Colorni, politico antifascista e filosofo. Le due località non sono state scelte a caso: a Milano egli nacque e fu studente assiduo nell’università degli studi della città lombarda, dove ebbe come maestri docenti del calibro di Romolo Caggese nel campo della storia moderna, di G.A Borgese con il quale approfondì la conoscenza dell’estetica crociana, di Martinetti, sotto la direzione del quale svolse una tesi su Leibniz, discussa nel novembre 1930. Nella Capitale si concluse il 28 agosto 1944 la sua breve esistenza interrotta dagli spari alle spalle di due sicari fascisti, mettendo così fine ad una intensa attività antifascista che avevano condotto Colorni a dirigere da Trieste, dove vi era giunto per insegnare all’istituto magistrale “Carducci”, il Centro socialista interno dopo l’arresto subito dal leader dell’organizzazione Rodolfo Morandi. Per questo motivo e perchè di origine ebraica il giovane era stato internato nell’isola di Ventotene, dove collaborò con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi alla stesura del famoso Manifesto di Ventotene per il federalismo europeo. Giunto a Roma nel 1943, ivi divenne redattore capo de «L’Avanti!» candestino, fu dirigente del rinato Partito Socialista e costituì la prima brigata Matteotti. In questo quadro «l’apporto ideale e pratico che Colorni diede, in questo periodo, alla battaglia antifascista si incardinava, assai coerentemente, in una tematica profondamente innovatrice, che andava dal federalismo all’internazionalismo al rifiuto del mito della ‘rivoluzione’ importata»1.
Per la verità i due convegni miravano a saldare giustamente un grave debito dovuto alla memoria di Colorni, minacciata di oblio assieme a quella degli altri protagonisti dell’antifascismo, per disegno di certo revisionismo a metà tra storiografia e bassa cucina politica che, se impossibilitato per limiti di decenza e di attendibilità storica a riportare sugli altari le camicie nere, si dà alquanto da fare per stendere ombre sulla memoria degli antifascisti, quando non a deformarne i contorni a suon di colpi bassi che fanno dubitare prima ancora che sui moventi strettamente politici di coloro che così fendono l’aria, sulla loro etica. Del resto, l’inconsistenza da un punto di vista seriamente storiografico delle posizioni che costoro rappresentano è così evidente per l’unilateralità delle chiavi interpretative sottese e per la inaccettabile decontestualizzazione dei materiali documentari utilizzati, che conviene volger le vele altrove facendo tesoro di quanto nel 1947 scrisse lo scrittore ex partigiano che rispondeva al nome di Italo Calvino: «Quindi, lo spirito dei nostri..e quello della brigata nera..la stessa cosa?..»: «La stessa cosa ma tutto il contrario. Perchè qui si è nel giusto, là nello sbagliato [..] C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra»2.
Eppure ancora non basta: il velo d’oblio steso sulla figura di Colorni non data da poco. Una responsabilità rilevante l’ha di certo avuta dal secondo dopoguerra in poi la storiografia organica al PCI, il cui obiettivo era consistito se non nello sbarazzarsi almeno nel mettere da canto la memoria di personaggi dell’antifascismo non direttamente riportabili all’ortodossia comunista. Naturalmente ciò non contrastava con la raffigurazione della Resistenza come fenomeno nazionale; ma questo disegno, veniva soprattutto fatto valere sul versante dell’azione delle masse. Fermo restando, però, l’obiettivo di riconoscere ai dirigenti comunisti l’indubbia superiorità, grazie alla loro strumentazione teorica, nell’interpretarne lo stato d’animo delle masse e nell’orientarne le dinamiche. Tanto più ciò veniva fatto valere nei confronti di personaggi come quello del Colorni, i quali all’antifascismo non erano certo arrivati per le vie maestre del marxismo, ritenuto dalla cultura comunista la vera chiave di volta dell’interpretazione del processo storico3. Certo il discorso rinvia alla supina accettazione di questa impostazione da parte della storiografia socialista, a parte i tentativi di storici isolati, come quelli del compianto Gaetano Arfè4; ma qui il discorso si farebbe lungo dovendo chiamare in causa la politica del PSI dal secondo dopoguerra, e comunque non comprimibile entro gli spazi ristretti di queste “note a margine”.
Purtuttavia anche se una rondine non fa primavera, qualcosa pur vorrà significare quando al suo volo ne segue qualche altro. Intendo riferirmi alla decisione della Einaudi, proprio nel centesimo anniversario della nascita di Colorni e in concomitanza dei due convegni di cui copra, di rieditare l’antologia degli scritti di Colorni, la cui prima edizione fu introdotta e curata da Norberto Bobbio, con il titolo Scritti filosofici. Ora essa appare sotto quello de La malattia della metafisica (E. Colorni, La malattia della metafisica, a cura e con introduzione di Geri Cerchiai, Torino, Einaudi, 2009), titolo quest’ultimo che riproduce, correggendolo, quello dato da Colorni ad un proprio saggio: La malattia filosofica5. Ma non è solo questa l’unica differenza, giacchè oltre al bel saggio introduttivo del curatore di questa edizione, Geri Cerchiai, contribuiscono alla miglior conoscenza degli scritti di Colorni le puntuali premesse informative alle varie sezioni in cui essi sono distribuiti nonchè il ricco apparato di note. Oltre a ciò, va sottolineata la differenza qualitativa tra i due saggi introduttivi, essendo quello precedente del Bobbio condotto qua e là secondo una falsariga autobiografica intesa a ricostruire il percorso filosofico del Colorni troppo adattandolo a quella vicenda più complessiva del pensiero filosofico italiano tra le due guerre di cui Bobbio fece parte.
Più disinteressata e comunque più riccamente problematica è la chiave interpretativa utilizzata invece da Geri Cerchiai, il cui merito consiste a mio avviso nell’aver insistito sull’“inesausta tensione morale” (ivi, p. 284) del Colorni e nel farne la leva di Archimede per comprendere più a fondo la sua scelta politica idealmente successiva e la quale, pur fattasi per questo motivo scelta di vita, poteva far pensare ad Ernesto Rossi, suo compagno di prigionia a Ventotene, che «Colorni era un intellettuale assolutamente negato all’azione pratica»6. In realtà questo giudizio era fin troppo schematico, dettato da un atteggiamento illuministico che non riusciva a cogliere la pluralità dei possibili approcci alla politica e pertanto la complessità dei presupposti che Colorni intendeva rispettare prima di trascorrere all’azione pratica e che facevano tutt’uno con il primato che egli assegnava all’amore, come capacità di «conoscere gli altri, – sono parole dello stesso Colorni - guarda[ndo] gli altri». Mettersi nei panni altrui, accettare la loro diversità rispetto a sè, era per lui la condizione preliminare di ogni scelta politica. Come giustamente osserva Cerchiai, «ragione pratica e ragione teoretica sembrano infine trovare, nel comune sforzo di vincere se stessi, un punto d’appoggio e di reciproco sostegno per aprirsi, nei limiti del possibile, all’accoglimento e alla comprensione della natura e della lingua degli altri»7.
Colorni si esprimerà così chiaramente solo da un certo punto in poi della sua riflessione. Eppure - sulle tracce di quanto lucidamente esposto dal Cerchiai e per lo spazio che egli riserva alla trattazione di questo tema peraltro rammentando che già nei suoi studi su Leibniz Colorni aveva avuto a mente il problema dell’”amore distinteressato” - a me pare che sia da qui che si debba partire per afferrare il senso complessivo dell’itinerario filosofico di Colorni, da quando egli, appena laureato, aveva dato alle stampe un ampio saggio sull’estetica di Croce agli studi su Leibniz fino al suo appassionarsi alla teoria della scienza e per la psicanalisi. Il tutto nel giro di un decennio, quanto ne passa da quando egli, ventitreenne pubblica il suo lavoro su Croce8 al 1942, quando elabora Il progetto di una rivista di metodologia scientifica9, in favore del pluralismo metodologico delle varie forme di sapere e in vista di una feconda interazione tra di esse.
Se così, quelle che a prima vista o considerate da un diverso angolo visuale possono apparire cesure, superamenti, punti di svolta, insomma discontinuità, alla luce di questo riferimento lo sono assai di meno, e lo stesso abbandono di Croce risulta assai meno definitivo di quanto Bobbio abbia fatto intendere riportandolo già all’epoca della stesura del testo sull’estetica crociana10. In realtà la posizione di Colorni verso Croce è in quel periodo assai più articolata e certamente non lascia prevedere una evoluzione “contro”. Il giovane studioso è fortemente critico verso la parte sistematica del filosofo neo-idealista, ma in quanto essa nuoce a quell’”empirismo trascendentale”, nel quale Colorni crede di poter includere la parte più viva e imperitura delle ricerche del filosofo abruzzese. In questa luce i risultati ne vanno gelosamente salvaguardati e arricchiti, in una prospettiva in cui il sistema ne sia non una condizione impoverente ma una risultante: «Il circolo dei distinti, che rappresenta, a suo modo, il bisogno [per Croce] di giustificazione aprioristica e deduttiva, si impone sull’empirisimo trascendentale, falsando a volte e rendendone inaccettabili i dati. E invece proprio in quell’empirismo sta la ricchezza del Croce e la sua capacità di aderire al proprio dell’arte, traendone a volta a volta determinazioni universali»11. L’esigenza di universale era dunque ben viva nel giovane studioso ma ferma restando «l’individualità di ogni universale»12 da salvaguardare in ogni campo di attività spirituale, anche se preminente in quello dell’estetica. Lungo questa via Colorni poteva ammonire a conclusione del suo lavoro che «molto c‘è da lavorare [...] per chiarire la conformazione e i caratteri dell’universale artistico: e principalmente in questo senso deve essere utilizzata e proseguita [sottolineatura dello scrivente] la grande opera del Croce»13. In questa luce non era un caso che Colorni tanto tenesse al giudizio di Croce e a lui si rivolgesse per lettera definendolo non certo per captatio benevolentiae «il più grande maestro dei miei anni, e della mia generazione». Ciò nulla toglieva alla contemporanea esigenza di «rifare per conto proprio»14 il cammino, nella quale attitudine egli faceva consistere sia la giustificazione della propria giovanile inquietudine sia la preferenza per una filosofia aperta, che in ultima analisi si risolvesse in una sorta di pluralismo metodologico. E il quale non si precludesse al confronto con altre esperienze filosofiche.
Non faceva dunque ombra alla serietà e all’impegno del giovane studioso il suo contemporaneo interesse per Leibniz, già messo a frutto due anni prima nella sua tesi di laurea su Sviluppo e significato dell’individualismo leibniziano15.
Il più strenuo sperimentalismo sembra l’insegna a cui Colorni si attiene anche successivamente. Ed era su questo piano che il giovane, da poco uscito dall’adolescenza e dotato di una versatilità speculativa pari alla quasi frenetica ricerca di indipendenza filosofica, si sentiva legittimato a muoversi in contemporanea su registri diversi, anche a costo qualche volta di smarrirsi e di confondersi. Era ancora lui che, quasi contrapponendovi se stesso, deplorava quei «giovani che dal premere delle più celebrate dottrine sono tratti a vedere difficilmente fuori dagli schemi ad essi forniti; e stentano a liberarsi dal loro asservimento e a trovare fuori di esse armi e nutrimento per risolvere quelle aporie che nel loro senno sanno di non poter eliminare»16. E ad una esigenza del genere egli pensava di poter offrire risposta proprio attraverso quel metodo della ricerca empirica, che «Colorni apprezzava tanto in Croce”, come avverte Geri Cerchiai in una delle sue tante preziose chiose ai testi riportati nell’antologia17 . Può anche essere vero che Colorni restasse interno ad un crocianesimo affatto speciale al suo modo personale di intendere il filosofo abruzzese, e non corrispondente a quanto lo stesso Croce pensava della propria filosofia, rimproverando al Colorni di voler erroneamente distinguere quanto in essa c’era di vivo [la parte empirica] e quanto di morto [il sistema]. Croce come parte in causa aveva le sue buone ragioni per avanzare questo rilievo. Ne avremmo di meno noi se indugiassimo nella vana fatica di una esegesi tra l’interprete e l’opera intepretata, per confermare o confutare l’appartenenza ad un ambito di pensiero di cui Colorni nemmeno molto successivamente negò la presenza nel proprio pensiero, ricordando in terza persona: «I compagni continuano ad accusarlo di essere crociano. Egli se ne difende, ma sente che non hanno completamente torto. È quello spirito che egli fa giuocare contro il suo medesimo creatore,, quell’ordine, quella pazienza, quello sbrogliare le matasse, quel ‘disgiunto’»18.
La presenza del Croce nel giovane Colorni non si interruppe mai del tutto ed essa era certamente avvertibile proprio nelle implicazioni che il giovane studioso faceva seguire a quella nozione d’«amore disinteressato» di sopra menzionata: la storia come Verstehen, comprensione, dell’altro inteso nella sua storicità era di pretta marca crociana. Vero che qui Colorni venne a trovarsi di fronte ad un bivio, e fu lui medesimo a riconoscerlo scrivendo nei confronti del mondo umano, «noi siamo forniti di organi di presa speciali, ben diversi da quelli del conoscere scientifico»19. La consapevolezza del dualismo era nello studioso fin troppo evidente. D’altra parte, però, al sapere scientifico egli non riserva nessuna via d'accesso alla verità, bensì «padronanza di un processo», ragione per la quale, come sottolinea Cerchiai «la scienza non cercherà di determinare l’essenza del suo oggetto, ma tenterà di analizzarne, di scomporne le componenti, e sarà perciò capace di padroneggiare il funzionamento»20. Ma anche al riguardo quanto Colorni era distante da quel Croce, opportunamente riportato dal Cerchiai, il quale nel 1951 poteva compiacersi del fatto che anche nel mondo della scienza s’era fatto ormai strada il riconoscimento secondo cui i concetti scientifici andavano intesi come «concetti di comodo, di pratica utilità»21?
Si tratta di una ragione di più per lamentare, a questo punto, che anche questa seconda edizione del volume antologico degli scritti di Colorni abbia ripetuto l’inspiegabile omissione di quella precedente, che non si sa per quale buon motivo non aveva ritenuto di includere nella scelta dei testi colorniani quello sull’estetica di Croce, un saggio che, come si vede, pur costituendo uno dei primi parti del giovane studioso, tanto profondamente ne doveva segnare l’intero percorso intellettuale. Il merito maggiore di Cerchiai sta proprio, a mio avviso, nell’aver sottolineato questo aspetto, nell’aver accostato accanto alle discontinuità del personaggio, un forse meno percepibile ma certo innegabile trait-d’union tra il prima e il dopo, ribadendo, peraltro, a conclusione del suo saggio introduttivo che «Colorni sembra portare a compimento, attraverso il passaggio allo studio della conoscenza scientifica, quel medesimo ‘sperimentalismo’ e pluralismo che avevano ispirato i primi scritti su Croce»22. Va da sé che questa considerazione non lascia prevedere quali avrebbero potuto essere i percorsi successivi di Colorni, se una crudele morte prematura non ne avesse troncato la ancora giovanile fermentazione di idee. Vano dunque ipotizzarne uno piuttosto che un altro sulla mera base delle scelte che larga parte della sua generazione compì nel secondo dopoguerra. Anche in questo caso, per lo storico vale l’antica massima che il distinguere contiene assai più verità di qualsiasi generalizzazione.
Ma perchè allo storico politico risulta tanto importante intromettersi, forse con qualche dose di naivetè, in un ordine di idee e discussioni assai più domestiche ai filosofi? Lo si può intendere se un senso ancora può avere per la storiografia presente l’interesse per il ruolo che la cultura socialista, ancor prima che il suo versante politico vero e proprio, ha avuto nel secolo trascorso e si voglia misurare il contributo da essa offerta alla difesa e alla progressiva affermazione dell’idea di libertà ed alla sua traduzione in pratica. La chiave di lettura marxista e il giudizio datone in questa luce alle vicende del movimento operaio e socialista del Novecento non pare, dato il carattere esclusivo con cui la si utilizzava, più seriamente proponibile. Né paiono sufficienti le interpretazioni offerte da quelle forme di pensiero post ed anticrociane che per comodo riassuntivo includiamo nell’ambito di ampi settori della cultura azionista.
Le commistioni ideali del socialismo italiano furono assai più varie e complesse di quelle individuate da queste scuole e in prospettiva forse più feconde. Il riconoscerlo non può relegare la storia socialista al ruolo di discendente da un dio minore. La complessa vicenda intellettuale dell’antifascista socialista Eugenio Colorni può aiutare ad intenderlo.



NOTE
1 E. Gencarelli, voce omonima in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, vol. II, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 80.^
2 I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, in “Romanzi e racconti”, Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1991 p. 106.^
3 Qualche eccezione tuttavia vi fu pure ed una di esse fu l’iniziativa della Casa editrice Einaudi di affidare a Norberto Bobbio la curatela del volume di E. Colorni, Scritti filosofici, Einaudi, Torino, 1975.^
4 G. Arfè, Eugenio Colorni , l’antifascista, l’europeista, in A. Forbice (a cura), Matteotti Buozzi Colorni. Perchè vissero, perchè vivono, Milano, Franco Angeli, 1996, pp. 58-79.^
5 Incluso ad apertura della presenta raccolta di E. Colorni, La malattia metafisica, Torino, Einaudi, 2009, da p. 10 a p. 37.^
6 La citazione è riportata in ivi, p. 285.^
7 Ivi, p. XLV.^
8 E. Colorni, L’Estetica di Benedetto Croce, Milano, La Cultura, 1932.^
9 E. Colorni, La malattia metafisica, cit., p. 176-180.^
10 Id., L’estetica ecc., cit., p. 81.^
11 Ivi, p. 85.^
12 Ivi, p. 86.^
13 Ivi, p. 190.^
14 È questo il titolo preciso ricavato dalle mie ricerche presso il Centro Apice, Archivio R. Università di Milano. Facoltà di Lettere e Filosofia, fasc. “Colorni Eugenio matr. n. 1952 DCCCV 19179”.^
15 Sull’introduzione alla metafisica di P. Martinetti, ivi, p. 53.^
16 Ivi, p. 55.^
17 Ivi, p. 29.^
18 Ivi, p. 312.^
19 Ivi, p. XXXII.^
20 Riportato in ivi, p. 29.^
21 Ivi, p. XLVII.^
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