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Legge Pica ed eredità malavitosa
di Raffaele Pinto
La legge Pica del 15 agosto 1863 rimase in vigore, con le successive proroghe, sino al 31 dicembre 1865 e inflisse un colpo mortale al brigantaggio meridionale. In una situazione di grave pericolo, che metteva a repentaglio la sua stessa sopravvivenza, il giovane Stato unitario diede prova di quella determinazione e di quell'efficienza, che avrebbe saputo trovare solo in poche altre emergenze della storia nazionale.
Intere province del Mezzogiorno furono pacificate e rese sicure con l' applicazioni rigorosa di una legge, che si dimostrò indubbiamente efficace, per quanto fosse discutibile sotto il profilo costituzionale.
La legge Pica era ovviamente una legge esclusivamente repressiva, dettata dall'emergenza e non si proponeva, per come era stata formulata, di risolvere i problemi dell'arretratezza e del sottosviluppo, che continuarono a essere una caratteristica delle regioni meridionali.
Essa tuttavia riuscì a estirpare definitivamente, in quasi tutto il Mezzogiorno, la mala pianta del brigantaggio, impresa che sembrava al limite dell'impossibile. Ricorda F.S. Nitti (Eroi e briganti) che «ogni parte d'Europa ha avuto banditi e delinquenti, che in periodi di guerra e di sventura hanno dominato la campagna e si sono messi fuori della legge […] ma vi è stato un solo paese in Europa in cui il brigantaggio è esistito si può dire da sempre […] un paese dove il brigantaggio per molti secoli si può rassomigliare a un immenso fiume di sangue e di odi […] un paese in cui per secoli la monarchia si è basata sul brigantaggio, che è diventato come un agente storico: questo paese è l'Italia del Mezzodì».
Invece già nel 1870 il fenomeno criminale e reazionario, conosciuto come brigantaggio, poteva considerarsi completamente debellato. Non fu tuttavia una vittoria definitiva, come pure sarebbe stato possibile, perché in alcune limitate zone del Mezzogiorno e solo in esse, il fenomeno criminale lentamente risorgeva, prendeva forza e si organizzava in terribili associazioni delinquenziali, tristemente famose come: mafia, camorra, ’drangheta.
Abbiamo così oggi nel Mezzogiorno una distribuzione della criminalità a macchia di leopardo: vi sono zone, tutto sommato circoscritte, completamente in mano alla criminalità, sottratte al governo e all'autorità della forza legittima, inserite però in un contesto molto più vasto, dove non esistono le grandi organizzazioni criminali e anche la microcriminalità è quasi inesistente.
Ci chiediamo quali sono le ragioni di questa disomogenea distribuzione della criminalità meridionale, che non trova adeguate spiegazioni in differenze etniche, culturali e socio-economiche. Come mai il Cilento, conosciuto in passato come la terra dei "tristi", teatro di feroci scorrerie brigantesche è oggi forse la zona più tranquilla d'Italia, mentre sui contrafforti dell'Aspromonte, non molto distanti, prospera una terribile organizzazione mafiosa?
Esiste un rapporto, una filiazione tra mafia, camorra e ’drangheta da una parte e il vecchio brigantaggio dall'altra? Se lo chiede Enzo Ciconte (Storia criminale. La resistibile ascesa di mafia, 'ndrangheta e camorra dall'Ottocento ai giorni nostri, Soveria Mannelli, Rubbettino 2008), ma la sua risposta è negativa. Secondo Ciconte «si può con tutta tranquillità affermare che non c'è alcuna filiazione, perché sono fenomeni distinti e separati sul piano temporale, geografico e politico».
Quest'affermazione può essere condivisa, ma solo nel senso che se è vero che le attuali organizzazioni mafiose non sono figlie del vecchio brigantaggio, certamente esse si sono sviluppate solo nelle zone dove il brigantaggio non fu duramente represso e dove lo Stato non tagliò definitivamente i ponti con banditi e malandrini. Da questo punto di vista la legge Pica rappresentò una vera inversione di tendenza, forse comparabile solo al breve periodo della repressione del generale Manhes nel 1809-1810, durante l'occupazione francese.
Ricorda F.S. Nitti che già durante il Vicereame spagnolo non vi fu guerra combattuta con le forze interne del Regno, in cui una delle parti nemiche non adoperasse i banditi. Ma furono i Borbone a servirsi in maniera sistematica e spregiudicata dei briganti. Il brigantaggio era una gran forza da usare negli estremi perigli.
Sentivano i regnanti che la loro fortuna era disporre di una forza cieca da scatenare contro le classi medie tutte le volte che si mostravano desiderose di ordinamenti nuovi. Non solamente durante il 1799, ma durante la monarchia francese, ma nel 1820, ma nel 1848, ma nel 1860 i Borbone ebbero il brigantaggio come estrema difesa. Secondata dai preti fatta servire alle passioni locali, inasprita da tutte le sofferenze, quest'onda irrompeva terribile e devastatrice. Passato il pericolo, restaurate le sue basi, la monarchia premiava i più fortunati, i capi delle insurrezioni e sterminava gli altri: tranne a ricominciare ove ve ne fosse il bisogno […]. Così nella storia del brigantaggio ─ prosegue Nitti ─ noi troviamo due forme distinte: i delinquenti comuni erano o desiderosi di far fortuna e di sfogare i loro istinti o poverissimi spinti dalla fame e dalle ingiustizie a rivoltarsi contro la società. Oltre a questo vi è stato un vero e proprio brigantaggio politico, che rivolgendosi alle masse e svegliando istinti rivoluzionari è stato sostegno alla monarchia e da essa a volta a volta creato e distrutto.
In sostanza le due anime del brigantaggio erano strettamente connesse ed entrambe facevano parte di un più vasto disegno politico, volto ad assicurare la stabilità del regime.
Con la legge Pica lo Stato unitario diede un segnale inequivocabile che questo rapporto di collaborazione tra Stato e briganti era definitivamente interrotto. Mentre lo stato d'assedio che aveva preceduto la legge poteva ancora essere inteso come temporanea misura di polizia, l'inserire in un quadro normativo preciso la persecuzione dei briganti, la lotta al manutengolismo, la stessa competenza dei tribunali militari, chiarì in maniera definitiva che non si intendeva lasciare ulteriore spazio a ipotesi di compromesso.
Le plebi, fiaccate, abbandonarono la campagna e in molti scelsero la strada dell'emigrazione. Nello stesso tempo i borghesi, i possidenti si sentirono garantiti nel nuovo ordine statale, come forse non lo erano mai stati in passato. Questo accadde nella maggior parte del Mezzogiorno e in particolare in quelle province, che più avevano sofferto del brigantaggio: tutta la Basilicata, i Principati, gli Abruzzi, la parte settentrionale della Calabria.
Purtroppo, però, la legge Pica non venne applicata con lo stesso rigore in tutte le zone cosiddette infette e non ne riguardò altre, considerate immuni da brigantaggio. Non in tutte le regioni vennero recisi i rapporti tra politica e organizzazioni criminali. Questo vale innanzitutto per la Sicilia, dove addirittura la mafia avrebbe contribuito allo sbarco alleato nel 1943.
Come ricorda Ciconte durante l'Ottocento fenomeni di brigantaggio di massa si verificarono nel Mezzogiorno fondamentalmente in due occasioni: all'inizio del secolo, durante l'occupazione francese e dopo l'unità d'Italia. In tutte e due le occasioni la Sicilia rimase estranea al movimento di massa perché non fu occupata dai francesi e perché anche dopo l'unità la Sicilia non fu attraversata dal moto brigantesco con caratteristiche di massa, tanto é vero che la legge Pica, nella sua originaria formulazione, non aveva inserito alcuna delle province siciliane fra quelle infestate da brigantaggio.
Assenza di brigantaggio di massa volle dire assenza di repressione sistematica. Lo stesso valse per la Calabria, dove, ricorda sempre Ciconte, il brigantaggio interessò territori e località delle province di Cosenza e Catanzaro, mentre rimase quasi del tutto estraneo alla provincia di Reggio Calabria, culla della ’ndrangheta. La repressione non fu mai esercitata in tutta la Calabria con la stessa energia esercitata nelle altre regioni del Mezzogiorno peninsulare.
Addirittura la Commissione Massari, nel suo viaggio attraverso le province meridionali, non toccò mai le Calabrie ritenute, in maniera del tutto incomprensibile, immuni da brigantaggio; «Nelle Calabrie il brigantaggio non esiste affatto oppure è faccenda di assai poco momento: tutte le volte che esso ha osato levare il capo le popolazioni calabresi non hanno affidato ad altro fuorché a lor medesime la cura di combatterlo e di annientarlo" (Inchiesta Massari, p.110; cfr. anche Scirocco: Briganti e società dell'Ottocento; il caso Calabria).
Altra storia è quella di Napoli e della camorra. Nel Napoletano e in provincia di Caserta il nuovo Stato unitario non prese le distanze dalla vecchia tradizione borbonica di adoperare plebaglia e criminalità per perseguire obiettivi di stabilità e tutela dell'ordine costituito.
Durante il periodo di trapasso dal Regno dei Borbone all'arrivo di Garibaldi fu nominato prefetto di polizia Liborio Romano, singolare personaggio che aveva militato sotto molte bandiere. In un momento di estrema difficoltà, abbandonato da polizia e gendarmi, per tutelare l'ordine pubblico Liborio Romano fece ciò che il governo borbonico aveva sempre fatto nei momenti disperati: scendere a patti con la camorra. «Lo Stato in virtù di quel compromesso o accordo che dir si voglia, di quell'esempio di realismo politico, appaltava la gestione dell'ordine pubblico a noti e incalliti criminali. In quei frangenti chi trattava sapeva di avere di fronte un "potere parallelo" un'elite organizzata in funzione di una strategia criminale, che si sarebbe sviluppata e consolidata nel tempo» (I. Sales, Le strade della violenza, malviventi e bande di camorra a Napoli, L'ancora del Mediterraneo, Napoli, 2006).
Anche a Caserta, Marcianise, S. Maria Capua Vetere, tutte zone attualmente a elevata densità cammorristica, esponenti della camorra vennero incaricati della gestione dell'ordine pubblico. Così venivano riannodati in alcune zone i fili tra delinquenza e potere politico, altrove spezzati dall'applicazione rigorosa della legge Pica. Per la verità il patto tra camorra e potere politico si ruppe per qualche tempo quando Silvio Spaventa, nominato ministro di polizia nell'ottobre 1862, fece arrestare centinaia di cammorristi. Fu attribuito allo stesso Spaventa anche l'inserimento nella legge Pica della camorra, considerata alla stregua di un "brigantaggio di città". Ma quella di Spaventa fu un'iniziativa quasi individuale, che interruppe per un certo tempo ma non cancellò i rapporti tra camorra e potere politico nelle province di Napoli e Caserta, che ripresero in breve tempo, più forti di prima (Ciconte, op. cit.). In conclusione la legge Pica modificò profondamente il tessuto sociale, culturale e politico del Mezzogiorno d'Italia, dove dispiega ancor oggi i suoi effetti. In gran parte dell'opinione pubblica nazionale è diffuso il convincimento che il Mezzogiorno sia afflitto, nella sua totalità, dalla piaga della criminalità organizzata. Che in ogni parte di questa terra martoriata si minacci, si spari e si uccida, che dovunque le imprese e il commercio debbano pagare pesanti tangenti.
Questo non è vero. Quasi tutto il Mezzogiorno è afflitto da sottosviluppo, ma la maggior parte di esso è immune (o almeno lo era fino a poco tempo fa) da fenomeni criminali. Strano a dirsi le zone più tranquille sono proprio quelle dove il banditismo era più radicato e dove il brigantaggio fu un fenomeno di massa, mentre la criminalità e le mafie sono insediate nelle aree considerate a suo tempo poco infestate dai briganti o del tutto immuni. In tali zone la repressione fu assente o molto blanda e in alcune di esse (Napoli e la Sicilia) i rapporti tra potere politico e organizzazioni criminali non furono mai del tutto recisi.
Tutto fa pensare che l'infezione malavitosa, dopo l'unità d'Italia, fu definitivamente debellata in vaste aree del Mezzogiorno da una massiccia terapia d'urto, fatta da leggi efficaci, puntualmente applicate. In altre zone, per errati convincimenti, per inerzia o per convenienze politiche, tale azione di radicale bonifica non fu attuata, dando modo a preesistenti focolai malavitosi di svilupparsi nel tempo, sino a diventare potenti organizzazioni criminali, estese anche al di fuori degli originari confini territoriali.
In definitiva si può dire che, con qualche approssimazione, la distribuzione della criminalità nel Mezzogiorno d'Italia, in particolare nel Mezzogiorno peninsulare, rappresenta oggi il negativo fotografico della repressione del brigantaggio post-unitario, attuata mediante un impianto normativo che ebbe poche luci e molte ombre, ma fu un male necessario. E con gli effetti della legge Pica ci troviamo ancora oggi a fare i conti.
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