In una storia del Novecento, nella speciale prospettiva dell’antisemitismo e dell’olocausto, un posto significativo va assegnato al rapporto fra Croce e la questione ebraica, con particolare riferimento ai drammatici anni Trenta. Si tratta infatti di un rapporto forse poco noto, ma netto e limpidissimo per tutti coloro i quali conoscano le carte crociane, perciò meritevole di qualche riflessione introduttiva, in vista di uno studio approfondito che convogli e confronti materiali epistolari in via di emersione. Peraltro, nel secondo volume delle
Pagine sparse le ultime pagine raccolgono documenti storici concernenti la
Questione ebraica nel mondo e si aprono con la risposta ad una domanda della «American Hebrew and Jewish Tribune» pubblicata nel fascicolo del 7 dicembre 1934. Se ne cita il passo iniziale, dichiarativo e profetico:
Sempre nella mia vita intellettuale ho combattuto gli stolti concetti di razza e le forme varie di oppressione della libertà ; e sono stato fermo nel convincimento che la vera religione dell’èra moderna consiste esclusivamente nella libertà e nella cultura. […] Non mai, e la storia lo attesta, le persecuzioni contro gli Ebrei sono state di alcun beneficio ad alcuna nazione. I popoli credono di elevarsi con questi mezzi violenti, mentre lavorano al proprio indebolimento; credono di liberarsi dai loro oppressori, mentre si tolgono da se stessi la loro libertà . Né la disgraziata recrudescenza di tal procedimento, di cui abbiamo un esempio nella Germania, gioverà alla vita e alla cultura tedesca. Vi sono di questo già segni evidenti che rendono inquieti molti di quel popolo, così possente un tempo di pensiero e di alta dottrina1.
A conferma di un quadro tragico tempestivamente delineato, e al fine di bene illuminare la questione proiettandola su di uno sfondo ampio, tra il
prima e il
poi, può essere utile convocare subito due citazioni molto esplicite: una del filosofo Hans Jonas, allievo di Heidegger e amico di Hanna Arendt, emigrato negli Stati Uniti; l’altra dello storico dell’arte Ernst Gombrich, viennese rifugiatosi in Inghilterra. I passi sono tratti da interviste coeve,
Il passato che non passa, del 1990, raccolta nel libro di Jonas
Sull’orlo dell’abisso, e
Un ritratto del 1989 poi nel volume
Dal mio tempo.
Nella prima testimonianza autobiografica la lacerazione tra l’essere ebreo e l’essere tedesco appare definitiva, nella seconda l’elitario viennese Gombrich dissolve, ma non sana, la frattura, attraverso il privilegio attribuito all’individuo e alla lingua (e a me pare il risultato di una raffinata e forse necessaria rimozione). Durante la guerra, Jonas era stato soldato nell’esercito inglese ed in tale ruolo era tornato in Germania nel 1945. Alla domanda circa i suoi sentimenti in quel frangente, l’autore del
Principio responsabilità risponde:
Si erano sentite solo delle oscure voci sui campi di morte, ma cose più precise si seppero solo una volta sul posto. Verso i tedeschi provavo rabbia, ma non verso i nazisti, bensì verso «i tedeschi». Era infatti incontestabile che il popolo tedesco fosse stato più o meno dalla parte di Hitler partecipando all'intera vicenda. E naturalmente guardavo alle città distrutte con un sentimento di vendetta semiappagata. Mi sembrava una giusta, ma insufficiente punizione per l'assoluta mostruosità che era avvenuta qui. Al contempo però sapevo anche che non ogni tedesco aveva partecipato interiormente ai fatti e alcuni nemmeno esteriormente.
Ma nel complesso il mio umore era allora tale per cui tra ebrei e tedeschi si era aperto uno iato ormai incolmabile. Anche in queste cose naturalmente ci si sbaglia. Il tempo guarisce le ferite e si apprendono molte cose. E così è successo che questo iato in molti casi si sia ridotto; in molti casi. É rimasta tuttavia la volontà di non tornare mai più in Germania. Non riuscii mai più a decidermi a ristabilirmi in Germania e a tornare a vivere tra tedeschi2.
Non solo il filosofo ebreo dichiara di non poter più vivere tra tedeschi, ma ritiene che l’adesione al nazismo da parte di Heidegger sia stato, semplicemente e catastroficamente, il grande «fiasco della filosofia».
Accanto a questa posizione, va registrata quella del mitteleuropeo Ernst Gombrich, lo storico dell’arte geniale allievo di Schlosser e direttore a Londra del Warburg Institut. Si cita di seguito il passo in cui, all’intervistatore che vorrebbe strappargli qualche dichiarazione sulla razza ebraica e sull’Olocausto, Gombrich, da parte sua, sottolinea invece la rilevanza storica delle ragioni di classe sociale e di uso linguistico:
Ernst Gombrich: L'uso di un tedesco corretto era straordinariamente importante. Gli ebrei residenti da tempo in Austria e in Germania parlavano ovviamente tedesco senza alcuna difficoltà , ma la stessa cosa non accadeva agli immigranti da est. Se Lei legge le satire di Karl Kraus comprende quale importanza rivestisse allora la questione linguistica in considerazione del fatto che molti ebrei provenienti da est, giornalisti e altro, non conoscevano bene il tedesco. Questo li escludeva.
Per poi concludere:
… Sono davvero un individualista, mi creda. Credo all’esistenza degli individui, non a quella delle razze o delle comunità o delle epoche o delle nazioni. Tutte le nozioni collettive mi fanno orrore: anche nel mio lavoro di storico. Non credo a uno «spirito del tempo» non credo a uno «spirito del popolo»… Conservo memoria della mia casa paterna, dell’ambiente che frequentavo insieme alla mia famiglia. Ma questo non equivale a sentirmi legato all’Austria3.
Ecco, nel contesto europeo evocato, tanti anni dopo, dalla esemplare testimonianza di due esuli, diversamente esuli, può risultare con maggiore evidenza il senso della mia sintetica nota, che si avvale fra l’altro, per questo punto, delle considerazioni del bel libro curato da G. Massino e G. Schiavoni
Ebrei della Mitteleuropa4. L’assalto agli ebrei, infatti, che sembrò assumere in Italia modalità attutite, strappò innanzi tutto e per sempre la grande trama dell’Europa dei dotti: un sogno secolare di cui emerge, tempestosamente, il rovescio. La scissione fra ebreo e tedesco apre al centro, in modo decisivo, la faglia tra spirito nazionale e spirito europeo.
Ebbene, Croce è tra i primi a segnalare con acutezza il carattere distruttivo dell’antisemitismo, rispetto alla civiltà europea. Non è senza significato, anzi, che il numero della «Critica» del gennaio 1934 si apra con la conferenza letta ad Oxford,
Difesa della poesia, una difesa dell’umanesimo perenne sulla traccia del testo omonimo di Shelley, e contenga nelle ultime pagine il giudizio sul discorso di rettorato di Heidegger:
Die Selbstbehauptung der deutschen Universitäten. Si cita il passo centrale della recensione:
Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante ad un Proust cattedratico, egli che nei suoi libri non ha mai dato segno di prendere alcun interesse o di avere conoscenza della storia, dell’etica, della politica, della poesia, dell’arte, della concreta vita spirituale nelle sue varie forme – quale decadenza a fronte dei filosofi, veri filosofi, tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! – oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico e vero attore, l’umanità 5.
Il razzismo per Croce è antistoricismo ed anti-Europa, è «l’ontologia nel temporale», fondata nel corpo, nel sangue.
Val la pena di richiamare, su questo punto, una delle straordinarie lettere non spedite di Jaspers ad Heidegger, le più belle di quel carteggio singolare intessuto di silenzi. Vi si rievoca, a guerra conclusa, appunto quel discorso, in termini di «sofferenza per la filosofia» e di compassione da parte della vittima per l’allora complice dello «stato terrorista»:
Ho dunque sofferto per Lei dal 1933, finché come spesso succede nel corso del tempo, già negli anni Trenta questa sofferenza quasi sparì sotto l’infuriare di cose ben più spaventose. Restò solo un ricordo lontano, e un occasionale, sempre rinnovato stupore6.
Si è voluto citare Jaspers perché appartiene a questo pensatore un timbro letterario, nelle lettere e nelle pagine autobiografiche, a mio avviso accostabile allo stile del filosofo italiano, perché connesso alla medesima intonazione morale di matrice stoica. Del resto, come è ben noto, Croce risulta, per la fitta rete di amicizie intellettuali, a non dir altro quelle testimoniate nell’ampio alveo epistolare del carteggio Croce-Vossler, ben addentro alla situazione tedesca
7.
Non ci si meraviglia affatto, dunque, che nel 1934 Croce apponga sulla prima pagine dei
Nuovi saggi su Goethe una lunga intensa dedica a Leo Spitzer per il quale si era adoperato affinché trovasse un posto in una Università , lontano dalla Germania
8.
Della dedica, scritta «per dichiarata protesta» si fa cenno, a testimonianza di una battaglia intrapresa assai per tempo, in una lettera aperta contro l’antisemitismo al rettore dell’università di Stoccolma Giulio Hammer il quale si stava adoperando per promuovere una campagna umanitaria contro le leggi razziali. La lettera fu poi pubblicata in Germania sulla «Frankfurther Zeitung» e Vossler ne scrive da La Habana a Croce, preoccupato:«In Germania non avresti potuto pubblicarla e spero ed auguro che non t’abbian dato noie». E Croce di rimando, criptico:«Leggo i giornali:
stiamo nelle mani del Signore»
9.
Già nell’aprile del 1933, in una lettera a Mann, il quale gli aveva inviato il suo saggio sul Goethe, aveva scritto:
Io non riconosco la Germania che avevamo studiato ed amato, quella di Goethe e dell’idealismo filosofico, la Germania del Nathan der Weise e della Weltliteratur, nella Germania odierna che rinnova le barbare persecuzioni medievali, con questo di peggio: che allora un odio di religione le animava, ed ora la spinta feroce è in stolte dottrine razzistiche10.
Su questo punto gli interventi di Croce sono, negli anni Trenta, frequenti e molto espliciti. In quella risposta pubblicata dall’«American Hebrew and Jewish Tribune», egli anzi, nel ricordare la riflessione di Goethe nei
Wanderjahre del
Meister, circa l’esclusione degli Ebrei dalla repubblica ideale da lui delineata «per la sola ragione che essi disconoscono le premesse storiche (Grecia, Roma, Cristianità ecc.) della civiltà di cui dovrebbero venire a far parte», osservava, nello stesso tempo, che gli Ebrei, da parte loro, «devono crearsi una coscienza storica, agevolando per tal modo la desiderata unione e fusione con le genti di altra origine, di cui sono concittadini». È notazione probabilmente necessaria per attutire il senso assai polemico e davvero impavido del testo nella sua integralità e certo da inquadrare nella situazione politica di quell’anno.
Alla fine degli anni Trenta la situazione, si sa, precipita. Come si evince dai
Taccuini di lavoro, sono questi gli anni più cupi, quelli in cui il vecchio Croce desidera di morire
11. Lungo l'estate del 1938, in particolare, la lettura della Bibbia sembra chiamata a controbilanciare la rilettura del Goethe; allo stesso modo, la grande macchina crociana della scrittura si ferma di continuo ad ascoltare la voce tremenda, sebbene ancora indistinta, del Male. Negli incontri sempre più frequenti, a Torino e a Pollone, con gli amici Ginzburg, Dionisotti, Piero e Paolo Treves, Antonello Gerbi, Gioele Solari, o con altri che senza conoscerlo corrono da lui - il professor Wardi dell'Università di Gerusalemme, il professor Trompeo, lo studioso ebreo-tedesco Gothein - pare di cogliere un'esigenza di mutuo conforto, a ranghi serrati, tra il vecchio filosofo e i giovani intellettuali.
Soprattutto, ci sono le lettere a Croce. Lettere dei molti intellettuali ebrei che se ne vanno dall'Italia, muniti del suo lasciapassare, la raccomandazione o l'attestato per questa o quella istituzione straniera. Tutti gli studiosi che abbiano dimestichezza con il cospicuo materiale epistolare dell'Archivio Croce, hanno sicuramente ricostruito nella memoria, (mobilitata, magari, proprio contro la crescente ignoranza o indifferenza rispetto al passato prossimo) quel gruzzolo di lettere, di Attilio e di Arnaldo Momigliano, di Umberto Segre, di Ludovico Limentani, di Mario e Giorgio Falco, che chiedono e ottengono aiuto concreto, in particolare le lettere commendatizie che fanno da viatico agli studiosi costretti alla fuga. Commovente un biglietto dello storico Arnaldo Momigliano, che vale la pena di trascrivere:
Torino, 27/XII ’38
Illustre Senatore, La ringrazio del certificato che Ella ha avuto la bontà di mandarmi. Per conto mio, lo considero un incitamento. Sugli altri, dovrebbe avere qualche efficacia; ma purtroppo il mondo è stanco.
Le faccio gli auguri più fervidi di lavoro sereno nell’anno nuovo e Le invio devoti saluti.
Arnaldo Momigliano12
Discreto e sommesso è l’appello del filosofo, maestro di Garin, Ludovico Limentani, il quale cancella dal biglietto da visita i titoli accademici per lasciare solo il nome e cognome come soggetto di una imbarazzata richiesta di aiuto in terza persona:
LUDOVICO LIMENTANI si permette di domandare licenza di includere il suo, tra i nomi di coloro che potrebbero rispondere a eventuali richieste di Associazioni culturali inglesi, fornendo informazioni sul conto di lui. Ringraziamenti e ossequi13.
Ma singolarissime, e perturbanti, sono le lettere, sin qui ignote, di ebrei che scrivono a Croce in quanto semplici lettori, i quali seguono sulle pagine della «Critica» la battaglia contro razzismo ed antisemitismo, a partire almeno dal 1934.
Ebbene, si tratta di ebrei i quali rivendicano, contro le leggi razziali
14 la propria italianità e il legame della propria famiglia con gli ideali del Risorgimento. Così l'avvocato milanese Enrico Ancona racconta in molte pagine la storia della sua famiglia e trascrive il testo che accompagna la medaglia al valor militare per essersi distinto nella battaglia di Caporetto. E Croce risponde subito da Pollone consentendo sul patriottismo degli ebrei d’Italia, e ricordando «il povero Leopoldo Franchetti, che si tolse la vita non reggendo al dolore del rovescio di Caporetto»
15. Del medesimo tenore la lettera della signora torinese Federica Maroni, nipote di Isaia Artom, segretario di Cavour: «...Sono italianissima, e quel che posso affermare di me in ricordi adunati in settantatre anni di vita credo si possa affermare sicuramente di tutti i miei correligionari. Sono nativa di Asti [...]. Ora mi vedo negare la gioia di vivere e di morire sotto il mio cielo italico e di cremare le mie ossa al fuoco di tronchi delle foreste d’Italia». Sono testimonianze offerte allo storico e narratore, perché egli le ricordi e le tramandi. Per noi è la testimonianza della esistenza di una comunità discorsiva, che al suo interno può servirsi di segnali impliciti, dove reticenze e silenzi rientrano anch'essi nel sistema della trasmissione del messaggio. E in alcuni casi ci sono le minute delle risposte di Croce. A Federica Maroni, Croce conferma la natura della propria "opposizione", necessariamente condotta sulle pagine della «Critica» e di riviste straniere, e quindi, anche in tale frangente, del suo spregiudicato realismo, refrattario a ciò che sia inutile:
Giacché la mia rivista è di carattere scientifico e nel campo della scienza, fa quasi vergogna di dover ancora combattere e prendere sul serio gli assurdi concetti di razza, inventati dall'orgoglio e dalla fatuità tedesca e antiquati presso i filosofi e gli storici che sanno il fatto loro. Altra e politica forma di opposizione è vietata, a me come ad altri, e, del resto, mi diceva un amico tedesco in un caso analogo, sarebbe come di chi pronunciasse un discorso sopra un ponte mentre soffia il vento. Il vento sono gli eccitati interessi politici, che quando cangeranno o saranno soddisfatti, cadrà anche l'antisemitismo. Per ora, ci vuole forza d'animo, per sostenere l'offesa, e giova confortarsi col pensiero che il cuore di tanti e tanti italiani batte col loro. Sillaba di Dio non si cancella e la verità resta la verità . Sappia che chi le scrive ha anche lui settantun anni di vita, e lunga esperienza, e caro ricordo del passato.
L’amico tedesco è Karl Vossler. È il 26 agosto 1938, è il periodo in cui raggiunge l'acme la campagna giornalistica, con centinaia di articoli, contro "la cultura bastarda" di Croce, contro "il chassidismo di Croce" (sulla rivista fascista «Tevere», 21 dic. 1938). Dal novembre del 1937, sulla «Rivista di filosofia neoscolastica» di padre Gemelli compare la rubrica
Documenti di senilità intellettuale crociana. La vecchiaia di Croce "che non comprende il presente" è del resto un motivo ricorrente di quegli articoli. Una vera aggressione si registra sul «Frontespizio» ad opera di Papini e di Barna Occhini e su «Campo di Marte». Persino letterati solitamente moderati e cauti come Enrico Falqui si lasciano andare ad operazioni di sfottò e sciacallaggio morale: si profitta del clima per aver ragione di Croce nel campo della critica letteraria
16!
La battaglia di Croce prende, in quest’ultimo scorcio di anni, una intonazione intellettuale obliqua, ma non per questo meno rischiosa; la «Critica» viene spesso ritirata e poi di nuovo messa in circolazione, in un ritmo logorante di cui è traccia nei
Taccuini e nella corrispondenza con l’editore Laterza e con Francesco Flora, che della rivista era il redattore responsabile.
Sarà utile offrire qualche esempio di una siffatta strategia discorsiva: nel numero del gennaio 1938 appare un saggio,
Un’epistola del Galateo in difesa degli ebrei, dove si parla dell’umanista Antonio Galateo e della sua presa di posizione a favore degli ebrei nel regno di Napoli nei primi anni del Cinquecento, ma sottolineata con argomenti che possedevano una forte valenza contemporanea. Si illustra l’epistola diretta al conte Belisario Acquaviva il quale aveva consentito che un suo figlio sposasse una fanciulla israelita di una famiglia di ebrei convertiti, suscitando così qualche mormorazione di censura. Con l’impiantarsi del dominio spagnolo nell’Italia meridionale gli ebrei, i quali avevano aperto banche e case di commercio, avevano subìto gravi danni; ma nel periodo in cui il Galateo scriveva il popolo napoletano aveva cominciato a capire il pericolo politico che «col pretesto della difesa religiosa contro gli ebrei, s’introducesse nel regno l’aborrita inquisizione di Spagna, e sentiva il pericolo economico della mancanza di prestiti ai bisognevoli e dell’assai più grave usura che gli indigeni avrebbero preso ad esercitare». Croce aveva modo di elogiare l’umanista che continuava la difesa dei perseguitati ebrei «ricordando con parole elevate quanto la civiltà cristiana dovesse a quel popolo e spregiando il pregiudizio della nobiltà riposta nella razza»
17. Sono pagine improntate ad una retorica dell’antifona. Tanto è vero che subito, il 22 gennaio, lo storico ebreo Giorgio Falco gli scriveva da Milano:
Carissimo e Illustre Maestro, consenta che un ebreo La ringrazi per aver cercato il modo di dire – in quest’ora – una parola di umana simpatia per tutti gli ebrei. E creda sempre alla devota ammirazione e all’affetto filiale del
Suo Falco.
Nello stesso anno Croce decideva di pubblicare nel numero di settembre della «Critica» un saggio scritto qualche anno prima - come si legge proprio nella lettera ad Enrico Ancona - su Tullo Massarani, ebreo e «degnissimo patriota lombardo», nella sezione delle
Aggiunte alla «Letteratura della nuova Italia». È un saggio a difesa di uno scrittore dimenticato, intriso di spiriti risorgimentali, il quale aveva dato il meglio di sé nel periodo 1849-1860 e di quel periodo e di quegli uomini, dal Tenca al Correnti al Camerini, aveva voluto serbare le alte memorie. Il nesso storico tra ebrei e spirito italiano viene qui continuamente messo in luce
18. Il saggio conferma, peraltro, la natura delle
Aggiunte, assai diversa rispetto alle
Note del 1903-1915 raccolte nei primi quattro tomi della
Letteratura della nuova Italia, tese a definire il valore poetico della letteratura contemporanea, mentre ora, negli anni Trenta, si completano itinerari bibliografici, per gli autori già trattati, ma soprattutto si raccolgono, contro il presente, le tracce della vita culturale dell’Italia unita. Ciò che non muta, semmai, è l’esigenza crociana di attagliare il pensiero alla situazione, vale a dire il carattere militante ed operativo, in senso medico, della sua parola.
Ormai la tragedia ebraica fa irruzione nel vivo dell’
habitat del filosofo, come testimonia un passo dei
Taccuini:
2 marzo [1939]
Terminata correzione di questo primo invio di bozze. Letture varie durante la giornata. È ripartita la sig.na Gundolf, che per più giorni ha lavorato sotto il mio indirizzo nella mia biblioteca. Ma, poco dopo che s'era licenziata da me, mi è giunta una lettera della madre (lettera, evidentemente, aperta e tenuta in sospeso, perché era del giorno 27 febbraio), che mi pregava di ritenere la figliuola presso di me a Napoli, giacché essa aveva ricevuto l'ingiunzione che la ragazza, come Jüdin, deve lasciare l'Italia il 12 marzo; e voleva adoperarsi a far togliere quest'ordine, essendo figlia di madre non ebrea. Ho subito telefonato all'albergo; ma la signorina era già partita per Roma! - Casi dei tempi che corrono: ogni giorno se ne vede qualcuno, che mantiene o accresce la tristezza19.
In questo racconto di lettere trattenute e di telefonate che giungono troppo tardi, l’immagine del filosofo al suo tavolo di lavoro, là , nell’enclave europea di Palazzo Filomarino, risulta con inedita evidenza drammatica. La rappresentazione, nella sobrietà plutarchiana di una ellittica autobiografia, offre al lettore il profilo intellettuale di un «individuo-mondo» ben dentro la tempesta della Storia e dunque, anche in questo caso, alquanto lontano da quella male orientata versione olimpica di Croce che pure per molto tempo ha avuto corso.
NOTE
* Questa breve riflessione è stata letta al Goethe Institut il 27 gennaio 2010, nella Giornata della memoria, in un seminario dal titolo
Essere ebrei e tedeschi, organizzato in collaborazione con l’Università Suor Orsola Benincasa. Ora accresciuta e annotata, conserva in molti punti l’originario carattere orale. Delle lettere qui citate, provenienti dall’Archivio della “Fondazione Biblioteca Benedetto Croceâ€, diedi per la prima volta notizia, grazie alla liberalità di Alda Croce, in un articoletto sul «Mattino» del luglio 1998, in risposta ad interventi su giornali nazionali in cui la «goethiana serenità » di solito attribuita al filosofo napoletano veniva portata come prova della sostanziale indifferenza alla tragedia ebraica. Ringrazio ora Piero Craveri e Marta Herling per avermi permesso di offrirle con larghezza.
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1 B. Croce, In
Pagine sparse, volume secondo, Napoli, Ricciardi, 1943, pp. 409-410.
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2 H. Jonas,
Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapPorto tra uomo e natura, a c. di P. Becchi, Torino, Einaudi, 2000, p. 50.
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3 E.H. Gombrich,
Dal mio tempo. Città , maestri, incontri, a c. di R. Woodfield, Torino, Einaudi, 1999, pp. 29-31.
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4 G. Massino-G. Schiavoni (a cura di),
Ebrei della Mitteleuropa. Identità ebraica e identità nazionali, Genova, il melangolo, 2008 (in part. il saggio di A. Cavaglion,
Intervista sul mondo yiddish, sull’identità ebraica e sulle identità nazionali, pp. 7-18).
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5 «La Critica», a. XXXII, fasc. I, genn. 1934, p. 69 (nostri i corsivi). La recensione, come accade assai spesso a Croce negli anni Trenta, segue una collaudata tecnica contrappuntistica: in questo caso comprende insieme il testo di Heidegger e quello del teologo K. Barth,
Theologische Existenz heute!, sul quale viene dato giudizio differentissimo («Il Barth degnamente tutela l’indipendenza della teologia, mentre il prof. Heidegger si è affrettato a far getto di quella della filosofia»).
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6 Lettera da Heidelberg dell’ 1.3.1948, in M. Heidegger, K. Jaspers,
Lettere 1920-1963, a c. di W. Biemel e H. Saner, Milano, Raffaello Cortina, 2009, p. 153.
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7 Ad es. nelle memorie, intitolate
Geist und Gewalt, dello studioso tedesco W. Weisbach si racconta della visita a Croce nel 1932: «Parlammo poi della situazione in Germania, che egli conosceva benissimo, e ci trovammo d'accordo nel dire che le mene nazionalistiche mettevano in serio pericolo lo Stato democratico. Alludendo al proprio atteggiamento, Croce disse che sarebbe bastata una mezza dozzina di persone le quali si mantenessero ferme nella loro fede nella libertà , nel liberalismo e nello spirito di umanità . Queste parole mi fecero ricordare una frase letta in Jacob Burckhardt, confortante anche per me nelle condizioni del momento: «La minoranza, che vinca o muoia, fa la storia universale in tutti i tempi». Citato dal saggio di D. Cantimori,
Nelle ombre del domani, introduzione a, J. Huizinga,
La crisi della civiltà , Torino, Einaudi, 1978, (6° ed.), p. XIV.
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8 È utile riportare la dedica per intero:«All’amico Leo Spitzer. Segna il vostro nome in fronte a questo libro un compagno negli studi di filosofia del linguaggio e di letteratura; un italiano che non ha dimenticato la raccolta che voi, addetto alla censura austriaca di guerra, amorosamente faceste delle lettere dei nostri prigionieri, con intelligente simpatia, con artistica ammirazione verso il nostro popolo anche più umile; lo segna in questa triste ora in cui avete dovuto lasciare la cattedra che onoravate, distaccarvi dai discepoli diletti, cercare altre vie. Ricordo la vostra casetta di Marburg, nella quale, vostro ospite, vi sentii, dopo le molte durate traversie, sposo e padre felice; e ridico malinconicamente le parole dell’
Achilleis: “der Glucklichste denke zum Streite immer gerustet zu sein", in B. Croce,
Nuovi saggi sul Goethe, Bari, Laterza, 1934. Sull’interessamento di Croce alle sorti di Spitzer, cfr.
Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, a c. di E. Cutinelli-Rendina, Edizione nazionale delle Opere di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, 1991. Spitzer andò prima a Costantinopoli e di lì negli Stati Uniti. È in corso di stampa, presso l’Istituto italiano di Studi Storici il carteggio fra Spitzer e Croce e fra Spitzer ed Elena Croce, a c. di D. Colussi.
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9 Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, cit., p. 381, lettera del 23 febbraio 1939 di Vossler, e risposta del 15 agosto 1939 di Croce, p. 383. La lettera aperta ad Hammer si trova nelle
Pagine sparse, Volume Secondo, cit. p. 410.
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10 Croce-Mann,
Lettere 1930-1936. Con una scelta di scritti crociani su Mann e sulla Germania, con pref. di E. Paolozzi, nota introduttiva di E. Cutinelli Rendina e trad. e note di R. Diana, Napoli, Pagani ed., 1991, p. 16, lettera del 27 aprile 1933.
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11 Ad illuminare questo delicato passaggio c’è sempre G. Sasso,
Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, il Mulino, 1989.
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12 Su questo periodo e sull’aiuto fattivo di Croce a Momigliano, cfr. C. Dionisotti,
Ricordo di Arnaldo Momigliano, Bologna, il Mulino, 1989 , al cap.
Momigliano e Croce, dove non è citato il biglietto.
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13 Da una lettere successiva, del 25.XI.1938 risulta che Croce abbia risposto subito con «amabili espressioni» e «pronta condiscendenza al desiderio» dell’interlucutore. Su questo periodo ultimo della vita del Limentani, si veda il carteggio
Ludovico Limentani a Eugenio Garin. Lettere di Ludovico, Adele Limentani e altri a Eugenio e Maria Garin, a c. di M. Torrini, Napoli, Bibliopolis, 2007. In particolare si rinvia alla perspicua e densa introduzione del curatore.
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14 Per una esaustiva messa a punto della questione, cfr. G.E. Valori,
Ebraismo e identità nazionale italiana, in «Nuova Antologia», 143 (2008), fascc. 2245 e 2246 (pp. 273-304 e pp. 261-289, in part. le pagine dedicate al Manifesto della razza del luglio 1938).
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15 Minuta dell’8 agosto 1938 ( Arch. Biblioteca Benedetto Croce).
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16 E. Falqui,
Croce e la letteratura italiana d’oggi, in «Campo di Marte», 25 aprile 1939. Poi, alquanto sfumato, nel I vol. di
Novecento letterario italiano, Firenze, Vallecchi, 1970.
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17 Un’epistola
del Galateo in difesa degli ebrei, in «La Critica», a. XXXVI, fasc. I, 20 genn. 1938, pp. 71-76. Poi in B. Croce,
Aneddoti di varia letteratura, vol. I, Napoli, Ricciardi, 1942, pp. 104-110.
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18 Aggiunte alla «Letteratura della nuova Italia», Tullo Massarani, in «La Critica», a. XXXVI, fasc. V, 20 sett. 1938, pp. 328-335; poi in
La letteratura della nuova Italia, vol. V, Bari, Laterza, 1939, pp. 395-405. Su Massarani ed altri ebrei, si veda, nella medesima prospettiva nazionale sostenuta da Croce, A. Momigliano,
Gli Ebrei d’Italia, in
Pagine ebraiche, a c. di S. Berti, Torino, Einaudi, 1987, pp. 129-142.
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19 Taccuini di lavoro, voll. 6, Napoli, Arte Tipografica, 1987 (ma 1992), vol. V.
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