Il D’Azeglio di Cernigliaro tra diritto pubblico e diritto cristiano
Vorrei scrivere qualcosa che possa essere letto e meritasse di essere preso in considerazione dallo straniero all’atto dell’apertura del congresso […]. Il titolo dovrebbe essere il Diritto pubblico e la Coscienza, o la Morale, ovvero, il Diritto pubblico e il Diritto cristiano!... l’obiettivo di mostrare che le traversie e le calamità dell’Europa e dell’Italia sono la conseguenza del dissidio che intercorre tra i due diritti.
Questo scriveva in una lettera all’amico e suo grande ammiratore francese, il giornalista e politologo cattolico-liberale Eugène Rendu, Massimo D’Azeglio a metà luglio del 1859. La
brochure, preannunciata nella missiva, uscita a Parigi in un testo francese, proprio a cura del Rendu, nel dicembre di quello stesso anno, nell’edizione trasposta in italiano, a Firenze, nel 1860 viene ora riproposta in appendice al saggio di Aurelio Cernigliaro,
Le radici. Rileggendo La politica e il diritto cristiano
di Massimo d’Azeglio (Soveria Mannelli, Rubbettino, pp. CXXXII e 102 di edizione anastatica del testo azegliano)
1.
Cernigliaro, da storico del diritto, porta la sua attenzione agli esiti del sopracitato progetto d’azegliano di confronto tra il Diritto internazionale europeo e il Diritto cristiano. Il fine della riflessione del D’Azeglio è quello di offrire soluzioni teoriche e politico-pratiche all’apertura di un nuovo Congresso internazionale sulla questione italiana, ritenuto probabile dalla diplomazia europea attorno al tema della volontà dei popoli dell’Italia Centrale di veder riconosciuto il diritto all’autodeterminazione e, nel contempo, la richiesta di Unità con il Regno di Sardegna, sacrificando il Potere temporale della Chiesa, oltre che dei principi spodestati.
D’Azeglio parte dall’osservazione che «due princìpi sono ora in lotta: il cristiano e il pagano; quello si addentra nelle coscienze, questo domina troppo spesso nei fatti». Ma precisa subito cosa intende per principio cristiano:
Principio cristiano, dicemmo, e non fede cristiana, perché questa espressione non ci parve esatta. Sarebbe infatti per lo meno inesatto il dire che la fede nel domma é più estesa e forte oggi di quel che altre volte non fosse; mentre noi asseveriamo che il principio cristiano in quanto riguarda l’applicazione sociale delle massime e de’ precetti dell’Evangelo, non aveva mai gittato ne’ costumi così profonde radici […]. Come lo scalpello trae fuori la statua dal blocco che la teneva prigione, così la ragione umana ha svolto dall’insegnamento cristiano i grandi principi dell’eguaglianza dinanzi alla legge, della libertà di coscienza, ed altri, i quali sonosi collocati, più ancora che nei codici, nei nostri costumi. Lo stesso secolo decimottavo, nonostante le sue parole, è stato nelle opere, ben disse un illustre Italiano, figlio legittimo del cristianesimo: gli uomini dell’ottantanove infatti non adempivano, forse senza saperlo, ad un ufficio, nel suo principio e nelle sue conseguenze eminentemente cristiano?
Sulla queste premesse, trova il fondamento il principio di nazionalità , come principio di diritto pubblico internazionale:
Proclamata una volta l’eguaglianza degli uomini dinanzi alla legge morale, e alla civile del pari, come si può fare a meno di riconoscere l’eguaglianza loro dinanzi alla legge delle nazioni, dinanzi al diritto pubblico? – Oggi gli organi più rispettati del comune pensiero, i più eminenti uomini di Stato si fanno difensori di questa forma importante della eguaglianza nata dal domma cristiano, del principio, vo’ dire della nazionalità […]2.
Cernigliaro analizza con puntuale senso storico gli atteggiamenti politico-pratici del D’Azeglio che hanno dato forza propulsiva al riconoscimento dei diritti della nazione italiana. Tali diritti il trattato di pace di Zurigo del 1859, conclusivo del conflitto franco-austriaco aveva, come si vedrà , molto timidamente per la prima volta riconosciuto. Tra gli atti politici più rilevanti del D’Azeglio vi è il
Proclama ai popoli delle Romagne, che il 28 luglio 1859, all’indomani dei preliminari di Villafranca, lo statista piemontese pubblica per affermare il diritto degli italiani, e in specie dei popoli già sottoposti allo Stato della Chiesa, all’autodeterminazione:
Coll’ordine con la tranquillità vostra mostrate all’Europa che il chiedere leggi giuste ed uguali per tutti, concesse in oggi ad ogni popolo civile, che il volersi fare indipendenti dal giogo straniero e il reclamare l’esecuzione di promesse tante volte violate, non è opera di rivoluzionari, ma che rivoluzionari debbono dirsi coloro i quali, calpestando il principio cristiano e la retta ragion di Stato, impongono agli uomini pesi intollerabili e li spingono a spezzare ogni freno e a gettarsi fra le braccia della rivoluzione3.
Cernigliaro rileva a tal proposito che
era stabilito, in tal modo, il trait d’union politico tra il 1848 ed il ’59: chiedere leggi giuste ed uguali per tutti non era dissimile dal reclamare l’indipendenza dal giogo straniero. La ‘rivoluzione’, pur non ammessa di per sé, trovava la sua giustificazione causale nel comportamento di chi conculcava la libertà alla pari di chi ostacolava la legittima aspettativa dei popoli all’indipendenza4.
Due mesi dopo, in un articolo pubblicato su «L’Opinione» di Torino e significativamente intitolato
Il Piemonte e l’Italia centrale, l’uomo politico definito dallo Spadolini «più estremista dei rivoluzionari, ma più moderato dei conservatori»
5, esprimeva forte il richiamo alla ineludibile necessità di assoluta coerenza politica, in linea con il processo d’identità nazionale sin lì realizzato. Si rivolgeva, perciò, al governo e al sovrano piemontese perché non palesassero indecisioni sulla linea di unità con l’Italia centrale. Essa,
abbandonata a se stessa, conobbe l’occasione, l’afferrò per i capelli, seppe fare e fece da sé. Essa si proclama unita al Piemonte, chiama suo re Vittorio Emanuele, l’opera delle trenta generazioni riuscì a questa forma. Chi si prenderà la responsabilità di dire: non la vogliamo […]. In diritto esiste l’unione, ed esisterà a dispetto di tutto, finché un voto contrario non lo distrugga […]6.
Ma, come osserva Cernigliaro, D’Azeglio, dopo aver sostenuto la forza legittimante del “fait accompliâ€, ritiene che il riconoscimento internazionale a livello europeo si configuri come un passaggio decisivo per la stabilità delle situazioni. In tal senso un diritto pur valido in sé, come avrebbe ripetutamente detto, sul fondamento del diritto naturale, andava propugnato innanzi a un congresso chiedendone una sorta di declaratoria
7. Un congresso europeo che legittimasse l’unità degli italiani era visto, perciò, come l’unica via per «porre un termine a quell’insieme d’errori mantenuti colla violenza, da un lato, e di miserie, resistenze e rivoluzioni, dall’altro». Ciò perché il diritto pubblico europeo si fonda sulla giustizia delle disposizioni «che tutelando i diritti e gli interessi delle parti le rende interessate alla sua stabilità ». Da qui l’esigenza di inserire l’Italia nel contesto europeo non più come un pericolo continuo, ma in veste di «alleato operoso aggiunto alla famiglia delle nazioni cristiane nel lento lavoro che esse incominciano»
8.
Lo studio del Cernigliaro, come si è già visto, non si ferma agli aspetti teorici del rapporto tra Diritto pubblico europeo e Diritto cristiano. Costituisce invece un’appassionante indagine non solo sull’operetta del d’Azeglio, ma sul contesto storico-politico, culturale e civile che ne contraddistinse la sua pubblicazione nella capitale francese. Essa, infatti, conteneva una presa di posizione del D’Azeglio di forte rilievo politico, rivolta all’opinione pubblica francese ed europea, oltre che a quella italiana. Lo statista piemontese, con la pubblicazione dell’opuscolo, si presentava come esponente di punta di quella posizione liberale unitaria, fortemente orientata all’annessione al Regno di Sardegna e di Lombardia (Stato quest’ultimo formatosi assai di recente come conseguenza dei Preliminari di Villafranca e della Pace di Zurigo, atti conclusivi della Seconda guerra d’indipendenza), degli Stati dell’Italia Centrale, dai Ducati, alla Toscana, alle Legazioni Pontificie. Mentre i primi due avevano già proclamato la loro annessione al Regno sabaudo, le Legazioni Pontificie si erano di fatto solo staccate dallo Stato della Chiesa. Tale atto era reso però di scarso rilievo internazionale proprio dalla contrarietà alle statuizioni della Pace di Zurigo, il cui articolo più importante, il 18, stabiliva
9:
Sua maestà l’Imperatore dei francesi e sua maestà l’Imperatore d’Austria si obbligano a favorire con tutti gli sforzi la creazione di una Confederazione tra gli Stati italiani, che sarà posta sotto la presidenza onoraria del S. Padre, e lo scopo della quale sarà di mantenere l’indipendenza e l’inviolabilità degli Stati confederati, di assicurare lo svolgimento de’ loro interessi morali e materiali e di garantire la sicurezza interna ed esterna dell’Italia con l’esistenza di un’armata federale. La Venezia che rimane posta sotto l’autorità di sua maestà imperiale e reale apostolica, formerà uno degli Stati di questa confederazione, e parteciperà agli obblighi come ai diritti risultanti dal patto federale, le cui clausole saranno determinate da un’assemblea composta dai rappresentanti degli Stati italiani10.
Cernigliaro riporta un chiarimento semiufficiale dei termini dell’accordo fra Napoleone III e Francesco Giuseppe, pubblicato sull’autorevole giornale francese «Moniteur» secondo il quale
se il trattato fosse lealmente rispettato, l’Austria non costituirebbe più per la Penisola una potenza nemica ed ostile ad ogni aspirazione nazionale, a partire da Parma fino a Roma e da Firenze fino a Napoli; diverrebbe, al contrario, una potenza amica, giacché sarebbe pienamente disponibile a non essere più potenza tedesca al di qua delle Alpi e a sostenere essa stessa la nazionalità italiana fino alle rive dell’Adriatico11.
Lo stesso Cernigliaro commenta come si trattasse, in realtà , di una «prospettiva palesemente tutoria», nei confronti dell’Italia, da parte delle due potenze europee, in cambio di una pace che «sanzionava, per la prima volta dopo secoli, la nazionalità della Penisola»
12.
L’osservazione del Cernigliaro mette giustamente in rilievo la contraddittorietà di quanto era previsto nel citato art. 18, in termini di prospettiva dei rapporti internazionali e di politica italiana che dalle sue statuizioni sarebbero inevitabilmente emersi. L’accordo franco-austriaco pretendeva il rispetto del principio di legittimità a favore di tutti gli Stati italiani e, data la situazione originata dal conflitto testé concluso, era evidente che la maggiore garanzia doveva essere offerta allo Stato della Chiesa, dichiaratosi neutrale rispetto alle potenze combattenti e ora minacciato invece di dissoluzione nella sua parte settentrionale. Meno significative e assai deboli apparivano le pretese degli ex sovrani dei ducati padani e della Toscana, poiché essi, detronizzati, si erano schierati dalla parte della potenza sconfitta (l’impero austriaco), per cui appariva del tutto improbabile che qualcuno, fosse pure l’ex alleata, si sarebbe data la pena di restaurarli. C’era poi un fattore di forte precarietà politico-militare, perché il Trattato lasciava in mano austriaca il Quadrilatero, una minaccia davvero preoccupante per qualunque soluzione statuale fosse emersa tra Stati italiani e territori lasciati agli Asburgo nel Nord-Est della Penisola. Al di fuori delle pattuizioni di Villafranca e di Zurigo, ma al di dentro degli accordi di Plombières, del luglio 1858, tra Napoleone III e Cavour, vi era la previsione, tra l’altro, della nascita di un Regno nell’Italia Centrale il cui sovrano non avrebbe che potuto essere Gerolamo Bonaparte, cugino dell’imperatore dei francesi, come era negli auspici resi solidi dal matrimonio tra Gerolamo e Clotilde di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele. La conclusione, anticipata e unilaterale, da parte di Napoleone, della guerra tra franco-piemontesi e impero austriaco, con il conseguente mancato passaggio ai Savoia del Veneto e dell’Emilia, previsto a Plombières, rendeva improponibile la nascita di un Regno dell’Italia Centrale. Tuttavia, l’annessione al Piemonte della Lombardia e quella probabile di almeno alcuni degli ex Stati dell’Italia centrale, avrebbero inevitabilmente comportato compensi alla Francia Napoleonica per il suo ruolo essenziale nelle vicende italiane, come avvenne ai primi del 1860, con il passaggio alla Francia di Nizza e della Savoia.
Dal groviglio di pattuizioni e trattati che aveva preceduto e seguito la guerra del 1859, l’aspetto essenziale e fortemente innovativo era costituito dal fatto che l’idea nazionale italiana, come sottolinea Cernigliaro, e come era intuizione profondissima di D’Azeglio, di Cavour e dello stesso Mazzini, oltre che del sovrano sabaudo e degli altri protagonisti della vicenda risorgimentale italiana, era uscita comunque vincente dal conflitto.
Ebbene, nessun altro, meglio del D’Azeglio, seppe formulare, in termini di grande politica europea, oltre che italiana, le conseguenze inevitabili dell’avere sciolto il bavaglio all’idea nazionale italiana. D’Azeglio l’aveva fatto nell’opuscolo che Cernigliaro, con finissima intuizione politica, oltre che storiografica, ha il merito di riproporci e di analizzare:
Qual è la posizione dell’Italia dopo Villafranca e Zurigo? Il Piemonte ha acquistato la Lombardia, e quasi due milioni di sudditi (otto milioni in tutto); ma egli è tuttora senza frontiere militari. L’Austria possiede in faccia a lui la più formidabile posizione che si conosca: il famoso quadrilatero. Ell’è riescita inoltre a serbarsi una striscia sulla destra del Po, la quale rende a lei facile l'accesso della frontiera sarda, e le dà al tempo stesso la chiave dell' Italia meridionale. L’Austria rimane dunque in Italia tanto possente quanto ell’era innanzi la guerra, e alla sua forza si aggiunge I'irritazione della sconfitta: venga la circostanza favorevole, e vedremo bentosto ove sia andata a finire una guerra intrapresa col nobile intendimento di rendere l'Italia a sé stessa, e dare, colla liberazione della penisola, la pace all'Europa. Se l’Austria avesse abbandonato la Venezia, sarebbe stato politicamente, se non moralmente, possibile (né io parlo qui del voto delle popolazioni) d’accettare la restaurazione dei sovrani decaduti; ma nello stato presente, l’Austria rimanendo in possesso delle fortezze, compresovi Peschiera e Mantova (tutte due staccate per lei dalla Lombardia, che ne riceve altrettanto indebolimento), il solo mezzo da non rendere assolutamente precaria la posizione della Sardegna, ed illusoria del tutto l’indipendenza della Italia italiana, consiste nella formazione d’uno Stato forte quanto basta per supplire al difetto di frontiere, e opporre una resistenza reale al reintegramento di cose che la Francia, sotto gli occhi dell’Europa consenziente, ha inteso di rovesciare. Ecco ciò che il buon senso dell’Italia ha inteso egregiamente. Quindi quest’unanime slancio verso la Sardegna; quindi l’abbandono di tutte le tradizioni egoistiche, di tutti gl’istinti i più radicati, e i più cari al municipalismo italiano; quindi finalmente le famose annessioni. Uno degli uomini più insigni che noi abbiamo, il sig. Giorgini, ha detto una sentenza profonda, la più profonda, per avventura, che siasi pronunciata nella discussione cui le annessioni diedero luogo: «L’Italia non sarà mai per l’Europa un pericolo così grande per la sua forza, quanto è per la sua debolezza.» — Sentenza che in sé comprende tutta la questione riguardata relativamente agli interessi generali. Noi non sappiamo di fatti che l’equilibrio europeo abbia guadagnato molto da Carlo VIII fino ai dì nostri in quella debolezza che da Fornovo a Solferino ha sempre armato la Francia, la Spagna e la Germania. Tesori inghiottiti, campi zuppati dal sangue di venti generazioni; e per giungere a che? A dimostrare che la tranquillità dell’Europa richiede che l’Italia non sia di nessuno, ma appartenga invece soltanto a sé stessa. Gran ventura, per vero dire, che finalmente siasi fatta una tale scoperta; ma che si direbbe mai se la conseguenza di tanti avvenimenti non fosse altro che questa: È opportuno costituire un’Italia, la quale al primo giorno sarà abbandonata senza difesa agli attacchi dell’eterna sua nemica: e per conseguenza è opportuno d’accumulare nel cuore stesso dell’Europa nuovi elementi di una guerra che diverrà generale13?
Il rifiuto del progetto confederale era del tutto trasparente nell’analisi, sopra citata, del D’Azeglio. D’altra parte, in tutto il testo azegliano, l’inesistenza di ogni simpatia confederale costituisce un motivo di fondo. Il rapporto tra il riconoscimento della nazione italiana e l’Europa uscita dal Congresso di Vienna si presentava in termini di drammatica opposizione: «il principe di Metternich seppe assai bene quale avversario diveniva per lei [l’Austria] lo spirito di nazionalità nella potenza del suo svegliarsi» e continuava: «il sistema adottato dopo il 1815 dall’Austria si riduce a questo: uccidere politicamente e moralmente l’Italia, affin di vivere in luogo suo». Quanto agli Stati italiani preunitari, «gli italiani non avevan bisogno di pergamene per constatare il servaggio della patria […]: chi di loro non ha veduto e sentito la mano di ferro dell’Austria posarsi sopra le sue corone “sovrane�»
14. Nei protagonisti italiani del Risorgimento, la prospettiva di una confederazione di Stati italiani, con la presenza dei segmenti importanti della Penisola sottoposti agli Asburgo, appariva ormai espressione di progetti dimostratisi del tutto irrealistici, negli ultimi tre lustri preunitari, come il Papato liberale e la confederazione guelfa, teorizzata dal Gioberti, che sembrò identificarsi in Pio IX, con gli esiti fallimentari espressisi nella Prima guerra d’indipendenza. La contrarietà alla soluzione confederale, si rafforzò per le proposte del già citato trattato di Zurigo, del 1859, che si presentava come il tentativo di imporre un nuovo ripiegamento della prospettiva unitaria.
A ben vedere, nei momenti che contavano della storia risorgimentale, e quindi ben al di là dell’ultimo quindicennio preunitario, la prospettiva confederale si era dimostrata sempre legata a una fase di ripiegamento dell’idea nazionale. A questo proposito, le celebrazioni sul secondo centenario della Repubblica napoletana del 1799 e quelle più recenti sul quindicennio napoleonico hanno sollecitato, tra l’altro, nuove riflessioni su uno dei primi intellettuali e politici, partecipi dell’idea unitaria, ad avere proposto e formulato un progetto confederale. Si tratta del calabrese Francesco Saverio Salfi, personalità di primo piano dell’ambiente giacobino, massonico e carbonaro, prima napoletano, poi lombardo, nell’età della Rivoluzione e del Quindicennio napoleonico. Egli, da fervido repubblicano, divenuto, per realismo politico, monarchico costituzionale, aveva esposto la sua tesi su una possibile formazione di una Confederazione di Stati italiani, secondo il modello germanico, in un opuscolo edito a Parigi nel 1821, dove, esule in Francia per ragioni politiche, era divenuto redattore della «Revue Encyclopedique». Il suo scritto, intitolato
L’Italie au dix-neuvième siecle, era ampiamente circolato in Francia e altrove, suscitando reazioni positive in studiosi come Jean Baptiste Say
15, ed era stato tradotto in italiano solo nel 1848 dal nipote, il canonico cosentino Ferdinando Scaglione, ma tale traduzione era rimasta manoscritta nel Fondo Salfi, presso la Biblioteca Civica di Cosenza, fino al 1990, quando era stata edita da Manlio del Gaudio. Il Salfi stava assistendo con preoccupazione alla crisi delle esperienze rivoluzionarie carbonare italiane e temeva soprattutto l’azione repressiva dell’Impero asburgico, su delega del Congresso di Lubiana da parte delle potenze della Santa Alleanza, come poi avvenne nei confronti del Regno di Napoli. Salfi, dunque, intese il costituirsi della confederazione di Stati italiani, con presenza austriaca, come istanza difensiva dell’idea nazionale unitaria, a cui aveva aderito fin dal 1796 in Lombardia. Il suo progetto confederale, nonostante le modificazioni apportate, nel tempo, agli Stati dell’Italia Centrale e la perdita asburgica della Lombardia nel 1859, al tempo del Salfi saldamente austriaca, risulta molto simile al testo del Trattato franco-asburgico del 1859, come si può dedurre dal confronto tra il già citato art. 18 del Trattato di Zurigo e il testo del Salfi, qui riprodotto:
1° che tutti gli Stati d’Italia rimangano nel proprio rango o titolo. Ciascuno godrà la propria indipendenza, nella sua amministrazione interna; 2° che siano tutti uniti da un legame federale il più stretto che mai, per la difesa della indipendenza della nazione italiana; 3° che il papa sia considerato come un principe secolare, e dunque non possa pretendere privilegi dovuti alla dignità ecclesiastica, come pure l’imperatore d’Austria ad alcuna prerogativa per la sua dignità imperiale; 4° che ciascuno Stato voti a proporzione della sua estensione e della popolazione; 5° che si scelga una città del centro Italia come sede dei rappresentanti o ministro degli Stati; 6° che si riuniscano in questa città almeno una volta l’anno i principi per conferire sugli interessi comuni della nazione; 7° che il capo del Lombardo-Veneto, Imperatore d’Austria, vi sia sempre rappresentato dal suo ministro; 8° ministri e pubblici funzionari siano cittadini nati nello Stato che servono; 9° che nel bisogno ciascuno Stato fornisca il contingente in proporzione alla popolazione, forze e mezzi; 10° che il Lombardo-Veneto mai s’immischi negli interessi, guerre e negoziazioni degli Stati tedeschi dell’Austria;11° che guerra e pace siano decisi con la maggioranza degli Stati; 12° se decisa la guerra, si determini il contingente di ogni Stato, si nomini il comandante in capo di tutte le forze riunite, che prenderanno il titolo di armata d’Italia16.
Né è un caso certo, che in seguito alla rivoluzione parigina del 1830 e alla nascita della Monarchia di Luglio, nella convinzione che si aprisse una nuova prospettiva rivoluzionaria e nazional-unitaria anche per l’Italia, Salfi, assieme al Buonarrotti e a molti altri esuli italiani in Francia, mettesse da parte ogni progetto confederale. Il tramonto, allora e dopo, come si è visto con il D’Azeglio, della prospettiva confederale divenne convinzione comune del ceto politico che realizzò il processo unitario. L’affermazione della nazione non postulava, e non postula anche ai nostri giorni, ambiguità che si rivelerebbero, come si rivelarono nell’età del Risorgimento, disastrose per i destini del Paese. Il possente afflato etico-politico che emerge dall’operetta del D’Azeglio fa giustizia dei tanti machiavellismi di cui si ammanta, ancora oggi, l’antico particolarismo ed egoismo municipale della “vecchia Italiaâ€.
NOTE
1 Ivi, pp. 1-102. L’edizione italiana della brochoure porta il titolo:
La politica e il diritto cristiano considerati riguardo alla Questione italiana.
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2 M. D’Azeglio,
La politica e il diritto cristiano, cit., pp. 9-10.
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3 Cit. in A. Cernigliaro,
Le radici, cit., p. XX.
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4 Ibidem.
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5 G. Spadolini,
Autunno del Risorgimento, Firenze, Felice Le Monnier, 1971, p. 23.
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6 Cit. in A. Cernigliaro,
Le radici, cit., p. XXIII.
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7 Cfr.
ivi, p. XXIV.
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8 Ivi, pp. XXI-XXII.
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9 Cfr.
ivi, pp. IX-XV.
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10 Cit. in
ivi, p. XLIV, n. 113.
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11 Cit. in
ivi, p. XIII.
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12 Ibidem.
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13 M. D’Azeglio,
La politica e il diritto cristiano, cit., pp. 58-59.
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14 Ivi, p. 30.
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15 Così scriveva il Say al Salfi nell’aprile del 1821: «Monsieur, j’étais parvenu à la moitié de votre ouvrage sur l’Italie au 19e siècle, lorsque ces malheureuses nuovelles de Naples sont arrivées. Le livre m’est tombé des mains, comme on renonce à beau rève, lorsq’arrive un importun reveil. A quoi bon ces heureuses dispositions de l’Italie pour l’indépendance; ces lumières; cette nationalité, lorsque tout espoir d’arriver, jamais doit être abandonné? Cependant après quelques jours de depression, j’ai repris votre ouvrage; et j’ai senti que des circostances passagères ne l’emporteraient pas sur la tendance d’une opinion générale, aussi juste, aussi honourable, et sourtout aussi bien d’accord avec l’intérêt de toutes les classes d’habitants et de tous le gouvernements eux memes pourvu qu’ils soient italiens. Mais plus d’autrichiens en Italie. Quand des brigands ont envahi une maison, il ne faut pas consenter à la partager avec eux. La prèmiere condition doit être qu’ils en sortent. Il ne faut former de confederation qu’avec des amis et avec des gens dont les intérêt sont les vôtres. Aggréez l’assurance de ma haute consideration et de mon devouement». Cit. in R. Frojo,
Salfi tra Napoli e Parigi. Carteggio (1792-1832), Napoli, Gaetano Macchiaroli Editore, p. 179.
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16 F.S. Salfi,
L’Italia del XIX sexolo o della necessità di accordare il potere con la libertà , trad. it. di Ferdinando Scaglione (1848), a cura di Manlio Del Gaudio, Cosenza, Brenner, 1990² [ed. originaria,
L’Italie au dix-neuvième siecle ou de la necéssité d’accorder le pouvoir avec la liberté (1821)], qui pp.72-73. Sul Salfi esiste una vasta ampia gamma di studi, rinvio perciò alle opere più recenti, fornite di ampia bibliografia: di V. Ferrari,
Civilisation, laicité, liberté. Francesco Saverio Salfi fra Illuminismo e Risorgimento, Milano, Franco Angeli, 2009; R. Ciacco,
Francesco Saverio Salfi e l’opinione dominante, Tesi di Dottorato presso l’Università degli Studi della Basilicata, nell’anno accademico 2008-2009; L. Addante,
Repubblica e controrivoluzione. Il 1799 nella Calabria cosentina, Napoli, Vivarium, 2005.
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