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Estate politica 2010: settembre non chiude agosto
di G. G.
Gli aspetti politici sono assolutamente dominanti nella crisi che il mondo politico italiano sta attraversando dal momento in cui l’on. Fini ha consumato il suo strappo nei confronti del presidente Berlusconi e del partito del quale, insieme con quest’ultimo è stato, come si suol dire con un termine senz’altro un po’ (e più di un po’) ridicolo, il cofondatore. È il caso, forse, di fare un po’ di cronaca non tanto in via di evocazione della pura e semplice successione dei fatti quanto dei punti essenziali in discussione.
Tutto si è, invero, accentrato sulla prospettiva di un caduta o di una dimissione del governo, e sulle implicazioni di una tale svolta. Ricerca di una nuova maggioranza in Parlamento? Oppure ricorso immediato alle urne? Eventualità di un allargamento dell’attuale maggioranza a forze politiche che ne sono ritenute suscettibili (UDC, Rutelliani) in modo da garantire contro ogni conseguenza del dissenso di Fini e dei suoi, o formazione di una nuova e diversa maggioranza che comprendente tutte le forze politiche italiane, inclusi Fini e i suoi, per prevalere in Parlamento contro Berlusconi e il suo alleato Bossi? “Governo tecnico” per sostituire quello attuale con compiti e tempi definiti, in particolare la modificazione della legge elettorale, e quindi senz’altro ricorso alle urne? Oppure formazione di un nuovo governo senza limiti di tempo e di azione, secondo il costume del regime parlamentaristico affermatosi in Italia, e secondo anche la lettera della Costituzione in tale materia? Lo strappo di Fini avrebbe portato alla costituzione di una forte corrente interna al PDL o avrebbe messo capo alla costituzione di un vero e proprio nuovo partito, indipendente del tutto dal PDL, anche se ad esso eventualmente alleato?
Alla resa dei primi conti, ossia alla fine del mese di agosto, si è capito che la prospettiva di una caduta o di una dimissione del governo si era decisamente allontanata, e con essa appariva ormai lontana anche la connessa prospettiva di elezioni anticipate, anzi anticipatissime, visto che si parlava di novembre o dicembre del corrente anno. L’indicazione e la richiesta delle elezioni nascevano, come si sa, dalla tesi della maggioranza che un mutamento dell’attuale equilibrio politico, stabilito dalle elezioni del 2008, avrebbe imposto un nuovo ricorso alle urne, essendo venute meno le condizioni volute dagli elettori, sovrani in materia, con ‘indicazione non solo di una maggioranza, bensì anche di un capo di essa e del governo da costituire (in questo caso, Berlusconi). L’opposizione contrapponeva a questa la tesi, alla quale abbiamo accennato di sopra, del carattere parlamentare del regime di libertà in Italia, per cui, se in Parlamento c’è una maggioranza, sia pure diversa da quella indicata dalle urne, non solo si può tranquillamente proseguire la Legislatura, ma si deve.
Notevole è stato lo sforzo di Berlusconi per fronteggiare la nuova, e imprevista, emergenza determinatasi con lo strappo di Fini. Fra varie, e anche comprensibili, oscillazioni, Berlusconi definì subito, infatti, una procedura. Il programma del governo per la restante parte della Legislatura veniva fissato in alcuni punti (prima quattro, poi cinque), e su di essi lo stesso governo avrebbe in settembre richiesto un voto di fiducia alle Camere. I seguaci di Fini si affrettarono a dichiarare che avrebbero senz’altro votato la fiducia così richiesta, pur precisando che di quei punti essi condividevano il 95%, e lasciando, quindi, su un molto ambiguo sfondo quel che poi avrebbero fatto per il residuo 5%. Per giunta, hanno fatto chiaramente capire che in quel 5% era assolutamente compresa la questione cosiddetta del “processo breve”, ossia una questione di diritto, che certamente non può essere ridotta soltanto a quella di qualche processo che tutti sono convinti che Berlusconi voglia evitare, e che altrettanto certamente lo vede direttamente e appieno coinvolto, se proprio non si vuol dire cointeressato. Una riserva su questo punto non è, perciò, questione del 5%. Ha un carattere molto più sostanziale e dirimente anche rispetto allo schiacciante 95% dato per convenuto. La reazione diffidente dei fautori di Berlusconi verso chi si teneva in mano, accesa, una miccia dagli effetti imprevedibili è ben comprensibile.
Così, la prospettiva di una crisi radicale dell’attuale schieramento di maggioranza, cacciata dalla porta, si riaffacciava, come suol dirsi, dalla finestra. Tuttavia, questo è sempre apparso come un gioco tutto interno a questa stessa maggioranza. L’opposizione ha battuto soprattutto sull’affermazione che la maggioranza si era ormai dissolta per i suoi contrasti interni, era, secondo una espressione molto di moda, “implosa”, e che di conseguenza il governo era politicamente finito. Si doveva solo far sì che le Camere registrassero questa morte politicamente già consumata, e si procedesse all’ipotesi sopra accennata di un governo più o meno tecnico col compito soprattutto di modificare la legge elettorale. In tal modo l’opposizione confermava quella bassissima capacità di indicare idee e progetti alternativi che la contraddistingue ormai quasi come una caratteristica strutturale da ben più di qualche anno.
Ci riferiamo in particolare all’opposizione di sinistra, il cui discorso politico ormai da un bel po’ consiste solo nel parlare della destra e suoi misfatti, guai, incertezze, latitanze e così via. Di discorsi o progetti propri o in proprio, a prescindere dagli ovvii giudizi che la sinistra dà della destra, pochissimo o nulla. La novità maggiore è stata quella, annunciata da Bersani per il Partito Democratico, di una “campagna d’autunno” che proceda a illustrare con una straordinaria e capillare serie di contatti “porta a porta” gli attuali obiettivi della stessa sinistra, che si riassumono poi, debitamente scarnificati, alla “cacciata di Berlusconi”. La restante sinistra ripete ormai monotonamente da tempo, anch’essa, le sole e poche cose che Di Pietro riesce a dire. La possibile ascesa dell’astro Vendola, nel quale i più ravvisano la speranza maggiore di un rilancio della sinistra, è finora ancora agli inizi, e non se ne sono ancora ben comprese né la strategia, né la direzione.
Quanto all’opposizione cosiddetta di centro, la sua rimane un’ipotesi non solo non verificata, ma anche dall’apparenza inverificabile. L’ipotesi è quella della ricostituzione di un “grande centro”, qualcosa di arieggiante alla vecchia e fortissima Democrazia Cristiana. È, però, una ipotesi che acquisterebbe un qualche minimo di consistenza solo se si disfacesse in misura sensibile la maggioranza attuale di destra, che dà segni di interna ristrutturazione o di qualche secessione mantenuta nell’ambito della stessa destra; non dà, invece, segni di disfacimento. L’idea dell’on. Casini di reintitolare il suo partito come “partito della nazione” è, diciamo la verità, un’idea molto mediocre, che presenta varii inconvenienti, dalla confusione ideologica alla chiara incertezza direzionale. Né si vede in alcun modo cosa possano rappresentare in più, per il fantasticato nuovo “grande centro”, le oltremodo sparute milizie rutelliane o gli ancora informi gruppi raccolti da Italia Futura intorno a Montezemolo.
Se fosse per questo, la maggioranza potrebbe dormire sonni abbastanza tranquilli. Oltre tutto, nell’opposizione, accanto a molte divisioni di vedute e di orientamenti politici di fondo, c’è una divisione notevole anche sulla riforma elettorale.
In generale, le forze politiche minori propendono nettamente per un ritorno al sistema proporzionale nella più larga misura possibile, che ad esse assicurerebbe di nuovo la relativa sicurezza di un minimo di rappresentanza politica autonoma, secondo le versioni più conseguenti del parlamentarismo tradizionale. Lo sbarramento attuale del 4% dei voti validi le esclude in partenza da una tale possibilità, e fatalmente ne limita in maniera drastica ogni libertà di autonomia effettiva e di incidenza reale nel gioco politico nazionale.
In seno al Partito Democratico questa tendenza non manca, e molti guardano al sistema elettorale tedesco – misto di maggioritario e di proporzionale – quale modello preferibile, secondo una vecchia linea più volte sostenuta, e ribadita, anche ora, da D’Alema. Si ha, tuttavia, la netta impressione che la maggioranza sia orientata verso un ritorno al collegio uninominale. È, in pratica, il vecchio “nucleo duro” del comunismo italiano. Sicura dei suoi collegi in tutta l‘Italia centrale e in Emilia Romagna, nonché dei non pochi altri collegi certamente guadagnabili nel resto del paese, questa parte del partito pensa di poter così garantire non solo i propri accessi in Parlamento, ma anche di poter giocare ampiamente per legare al partito vecchi e nuovi clienti, vassalli, satelliti e alleati. Un’altra parte ancora del partito è sicuramente legata, però, al sistema attuale, che, permettendo la piena scelta dei candidati da parte degli organi direttivi nazionali e, al limite, locali, garantisce, ovviamente, ai capi e dirigenti attuali un pieno controllo del partito e dei suoi rappresentanti parlamentari. Ma gli interessati al sistema attuale non sono soltanto questi. Ancora di più sono interessati coloro che, eletti nel 2008 per la scelta di organi nazionali o locali, non dispongono assolutamente di una forza elettorale territoriale o di una base locale di partito di sicuro affidamento per essi, che li metta in grado di affrontare una campagna elettorale fatta a suon di preferenze o un confronto con avversari su base uninominale. Per tutti costoro il sistema attuale rappresenta, in pratica, la più probabile, se non la sola condizione per sperare di tornare in Parlamento, o di approdarvi; e ciò anche perché i tempi in cui la direzione del vecchio comunismo italiano faceva paracadutare da qualsiasi cielo i candidati che voleva sono, se non finiti, certo diventati molto difficili: operazioni quali quella di portare senatore Di Pietro in Mugello, come accadde alcuni anni fa, sarebbero oggi alquanto più problematiche.
Nella maggioranza, all’opposto, i signori delle tessere e, soprattutto, i signori dei voti, che certamente non vi mancano, potrebbero preferire anch’essi un ritorno al proporzionale con preferenze o all’uninominale. Si tratta, però, di uomini e gruppi che non hanno molte possibilità di farsi valere in tal senso, né probabilmente lo desiderano, poiché anche col sistema attuale la loro posizione non corre pericoli, e poi perché pensarla altrimenti significherebbe mettersi in rotta di collisione frontale con l’uomo che nella maggioranza è ancora in grado, nonostante Fini e i suoi, di fare il bello e il cattivo tempo, ossia Berlusconi. Il discorso poi non sussiste assolutamente per la Lega, nella quale il controllo ferreo che Bossi tende a esercitare, e di fatto sostanzialmente esercita, su tutto e su tutti non consente neppure di prendere in esame il problema. Potrebbero Fini e i suoi staccarsi dalla maggioranza su un punto di tanto rilievo? Teoricamente, sì. Il proporzionale, se volessero una piena autonomia organizzativa e politica, consentirebbe ad essi qualche spazio in più. Ma si tratterebbe di spazi limitati. Anche le previsioni ad essi più favorevoli non li danno molto al di sopra del 6 o 7% dei voti.
Proprio quest’ultima considerazione apre poi la strada a un altro punto importante. La scelta del sistema elettorale non è valutabile solo in base alle opzioni e agli interessi dei partiti, dei dirigenti di partito e degli uomini che nei partiti più contano. Ogni sistema elettorale è una ipotesi o programma circa il tipo di regime di libertà che si vuole praticare. Ha, quindi, un interesse eticopolitico e istituzionale superiore. C’è anche un profilo costituzionale di alto rilievo. Col sistema attuale l’elettore sceglie i partiti e i programmi che debbono governare il paese. Non sceglie, invece, singolarmente gli uomini che di quei partiti e di quei programmi debbono essere i portatori. È perfettamente costituzionale e aderente al senso intimo dei diritti del cittadino previsti dalla Costituzione? Molti ne dubitano, e non poco.
Si allega, però, in favore del sistema attuale un argomento non del tutto privo di efficacia, e cioè che, quando vigeva, il sistema delle preferenze fu oggetto delle critiche più spietate per la fioritura di ras e baroni elettorali a cui dava luogo. È presumibile che in futuro si possa evitare un così forte inconveniente, o, meglio, limite oggettivo a un regime di libertà? Francamente, lo crediamo, in Italia, alquanto dubbio.
A sua volta, il sistema uninominale favorisce una personalizzazione ossessiva del confronto e del dibattito politico, e a suo tempo lo si soppresse in Italia proprio per richiamare i cittadini ai contrasti di idee e di programmi e sottrarli a un personalismo dilagante e molto spesso deteriore. Inoltre, per la ripartizione territoriale dei voti l’uninominale assicura una, per così dire, rendita di posizione politica a certi partiti nei confronti di tutti gli altri e toglie molto senso a ciò che in Inghilterra non fa difficoltà (vincono talora per questa ragione i partiti britannici che prendono un numero di voti minore rispetto a quelli che perdono), ma in Italia è direttamente opposto a ciò che dicono pressappoco tutti coloro che auspicano una modificazione del sistema elettorale vigente.
La conclusione del discorso potrebbe essere, per questa parte, che nessun sistema elettorale è perfetto, tutti sono discutibili, ma anche tutti perfettibili, ed è la pura e semplice verità. Ma in Italia il sistema attuale è quello che ha permesso l’avvento di un bipolarismo non troppo approssimativo. Molti protestano contro questo nuovo avvio della vita politica nel paese, avanzando spesso la inane considerazione che neppure il bipolarismo garantisce in senso assoluto stabilità e governabilità. Già. Non le garantisce, talora o spesso, neppure il bipartitismo anglosassone, e sempre per la ragione che sistemi perfetti in politica non ne esistono. Ma è questa una buona ragione per tornare a sistemi che favoriscano in ben maggiore misura quella frammentazione delle forze politiche che è nella vocazione del particolarismo italiano? Contro di essa si è tanto tuonato nel passato. Più vicino a noi si è giunti a costituire una trentina di gruppi parlamentari alla Camera dei deputati in qualcuna delle ultime Legislature; e anche oggi si vede quanto sia vincente con le vicende recenti di Rutelli e di Fini, per non parlare de
minimis, ossia di gruppetti e gruppuscoli di trascurabile entità anche se sbraitano molto, una tale tentazione.
Ampia materia di riflessione, dunque. Il tono della discussione fervorosa dell’estate può, tuttavia, essere giudicato dal fatto che non si è parlato quasi di altro che di governi tecnici, di elezioni da rifare o da non rifare, di sistema elettorale. Di una discussione, ad esempio, sul merito dei singoli punti formulati da Berlusconi non si è vista l’ombra; o, meglio, non si è parlato che di un dettaglio di quello sulla giustizia, quello riguardante il “processo breve” (e come si fa a non pensare che se ne è parlato solo perché riguardava la sorte giudiziaria dello stesso Berlusconi?). Né si è vista l’ombra di punti alternativi a quelli berlusconiani.
Questo era lo stato dell’arte alla fine di agosto, quando tutto si è concentrato su quel che sarebbe accaduto il 5 settembre a Mirabello, luogo di riunione e di decisione di Fini e dei suoi per il loro costituendo o non costituendo partito. Il 5 settembre c’è stato, ma le incognite della situazione non si sono affatto chiarite né in generale per le prospettive del governo e della Legislatura, né per la geografia delle forze politiche italiane. Si è solo capito che Fini non intende provocare il “ribaltone” auspicato dalle opposizioni o da parte di esse; non ha dimostrato un interesse nominativo per il cosiddetto “governo tecnico” proposto da quelle stesse opposizioni; ha confermato la collocazione di destra della nuova aggregazione politica che fa capo a lui; ha affermato che questa aggregazione tenderà a un “patto di Legislatura” inteso a ribadire e rispettare il mandato che l’attuale maggioranza ha ricevuto dalle urne nel 2008. Fini ha, però, anche mosso critiche durissime a varii punti per nulla secondari della politica del governo, della linea Berlusconi, dell’assetto “monarchico” del PDL, al quale addebita la crisi che ha portato fuori di esso gli uomini e i gruppi che sono accorsi ad ascoltarlo a Mirabello; ha scagliato un attacco deciso, a fondo contro la Lega Nord; e, insomma, ha sollevato tante eccezioni pesanti e drastiche, frontali e radicali alla conduzione e alla linea berlusconiana della destra che un giornale pugliese ha potuto spiritosamente riassumere il suo discorso, titolandone il resoconto con «Fini rompe al 95%»: evocazione di quell’accordo al 95% coi punti che propone Berlusconi per la fiducia in Parlamento e per il quale non si sa proprio mai con certezza se il 5 valga più del 95 o viceversa.
Al 5 settembre tutto, dunque, è ancora da vedere? Non è proprio così. Settembre non ha chiuso agosto, ma quel che è stato è stato, e non può passare senza lasciare tracce molteplici e profonde. Sarà, allora, ottobre a chiudere agosto e settembre insieme? Avremo un nuovo governo o nuove elezioni o l’una di queste due cose o entrambe? Vedremo. E lo vedremo, naturalmente, coi tempi e nei modi della politica in generale, e di quella italiana in particolare, che non sono precisamente di tipo cartesiano.
Intanto, ci preme di sottoporre ai lettori un’ultima considerazione. Abbiamo già detto che nel dibattito sulla crisi di agosto l’interesse per i suoi aspetti politici è stato dominante. Ebbene, a nostro avviso la crisi ha comportato e sta comportando aspetti e riflessi istituzionali ancor più importanti di quelli politici. Colpi tali da farci pensare che l’equilibrio costituzionale previsto dall’ordinamento vigente abbia subito in brevissimo tempo colpi, dai quali non sappiamo se e come e quando e in quanto tempo si potrà riprendere. E, naturalmente, dovendo scegliere se sbagliamo di più nel giudizio sugli aspetti politici o in quello sugli aspetti istituzionali della crisi, vorremmo nettamente sbagliare di più, anche molto di più per la politica che per le istituzioni. Alle quali è, comunque, ormai tempo di dedicare, da parte della classe dirigente, e di quella politica in specie, un’attenzione prolungata e fattiva.
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