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Atatürk: luci ed ombre dell’occidentalizzazione. Intervista con Fabio L. Grassi
di L'Acropoli
In corrispondenza dell’uscita della seconda ristampa di Atatürk. Il fondatore della Turchia Moderna, Roma, Casa Editrice Salerno, 2008, intervistiamo l’autore. Fabio L. Grassi vive stabilmente da più di dieci anni a Istanbul ed è conoscitore di prima mano della Turchia e della storia della Turchia repubblicana. Ora insegna Storia del XX Secolo presso l’Università Tecnica di Yıldız.

L’Acropoli – Un’ulteriore ristampa, dopo meno di due anni, per un libro di storia, su un personaggio storico straniero ancora relativamente poco noto, pubblicato da una casa editrice stimata ma non potentissima, inoltre una pressoché istantanea traduzione turca da parte di un’importante casa editrice turca (Atatürk, Istanbul, TurkuvazKitap, 2009), rappresentano davvero un buon risultato. A che cosa lo si deve?

FLG – Spero almeno in parte alle caratteristiche del libro. Mi ha fatto piacere ricevere favorevoli apprezzamenti non solo da “esperti” ma anche da “non esperti”. Va detto che c’era un vuoto a dir poco imbarazzante per la storiografia italiana. Era ora che venisse colmato. Mi sono deciso a farlo, grazie anche alla richiesta di una casa editrice seria come la Salerno e all’incoraggiamento di storici intelligentemente attenti alla Turchia come il prof. Biagini e il prof. Trinchese, che ha scritto la prefazione.

L’Acropoli – Il fatto stesso di avere colmato questo vuoto è infatti il primo dei tanti meriti riconosciuti in recensioni apparse in riviste autorevoli come “Oriente Moderno”, Nuova Serie, Anno LXXXVIII, 1, 2008, e “Nuova Antologia”, anno 143°, Gennaio-Marzo 2009, fasc. 2245. Ma come al solito, sono più interessanti le critiche negative…

FLG – Senza dubbio.

L’Acropoli – Parliamo della scheda comparsa (p. 187) nel volume 2/2009 de “Il Mestiere di Storico”, Rivista della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea.

FLG – Molto stimolante. Penso che possa farci da guida per alcune riflessioni e puntualizzazioni.

L’Acropoli – La scheda si apre con queste parole: “Sulla scorta della storiografia turca e, in parte, occidentale l’a. traccia un’ampia biografia di questo interessante personaggio della storia del ‘900”.

FLG – Per la verità, io non mi sono basato solo sulla storiografia turca, ma anche sulla memorialistica e sulle fonti documentarie. In Turchia non ci sono fonti documentarie inedite disponibili. (Ci sono molte “leggende metropolitane” al riguardo, come per tutto ciò che concerne Atatürk). Mi sembra fuorviante la distinzione tra storiografia turca da una parte e storiografia occidentale dall’altra. Se il problema è quello che penso, e ci torneremo, ci sono testi occidentali non meno agiografici di tanti testi turchi. Insomma: non ho usato indiscriminatamente qualunque cosa sia stata scritta in Turchia e nemmeno, ovviamente, qualunque cosa sia stata scritta altrove; molto semplicemente ho selezionato quel materiale documentario, memorialistico e storiografico che mi è parso meritevole di essere usato nell’ottica del libro.

L’Acropoli – Più che tornarci, sul problema dobbiamo restarci. In Turchia Atatürk è oggetto di un culto ufficiale, su questo non si può sorvolare.

FLG – Certo. E una storiografia “di regime”, o comunque una storiografia fortemente appiattita su una visuale nazionalista e trionfalista, in Turchia esiste, purtroppo, esiste eccome. Nella nota bibliografica segnalo sbrigativamente (p. 418), come esempio tra i tanti possibili, un libro del prof. Toktamı Ate . Anche un lettore non esperto può osservare, oltre al tono della mia segnalazione, il fatto che il libro di Ate non compare in nessuna nota: con ciò, può intuire che la storiografia turca a cui faccio riferimento è in larga parte una storiografia revisionista rispetto all’“ideologia ufficiale”, verso la quale si può dire che combatto ogni santo giorno la mia piccola parte di battaglia, assieme (e spesso con personali rapporti di amicizia) con la parte più aperta, democratica e innovativa della cultura turca.

L’Acropoli – Genio universale in Turchia, “personaggio interessante” in Occidente. Chi ha ragione?

FLG – Sì, “personaggio interessante”. Vogliamo dire quanto un Titulescu o un Italo Balbo? Ho esagerato? Scendo? Facciamo quanto un Primo Carnera? Scherzi a parte, della grandissima importanza dell’esperienza kemalista le persone accorte di tutto il mondo si sono… accorte da un bel pezzo. Certamente nella sua epoca Atatürk ebbe un’influenza diretta sul resto del mondo inferiore a quella di altri protagonisti della storia del ‘900. Ma a lui, per esempio, guardarono con ammirazione tutti i grandi leader nazionali e progressisti di quello che venne chiamato il “terzo mondo”, da Nehru a Jinnah a Bourghiba a Sukarno. E molto giustamente Samuel P. Huntington, nel libro più importante, meno letto e più citato a sproposito degli ultimi vent’anni, individua nel kemalismo una categoria interpretativa fondamentale, benché a suo avviso fallimentare, del ruolo della civiltà occidentale. In generale, quella della Turchia kemaliana è una vicenda molto più “attuale” di quella, per esempio, sovietica: primo, perché in Turchia la modernità fu veicolata in nome dei valori “borghesi”; secondo, perché senza quell’esperienza difficilmente oggi l’Unione Europea si troverebbe di fronte alla richiesta di adesione a pieno titolo della Turchia; questione geopolitica e culturale che è, per chiudere il cerchio, una di quelle nodali di questo secolo.

L’Acropoli – Della Turchia attuale parleremo dopo, ma per ora per favore restiamo sull’argomento del libro. La sua biografia è viziata da simpatia per il biografato?

FLG – La mia preoccupazione non era e non è quella di produrre simpatie o antipatie ma quella di riflettere e far riflettere su una significativa esperienza storica, oltre che quella di fornire un po’ di seria informazione di base. La mia interpretazione del kemalismo (che è, ripeto, uno degli specchi in cui la cultura occidentale, anche e soprattutto quella progressista, deve diuturnamente e angosciosamente interrogarsi) è estremamente problematica e tutt’altro che trionfalistica e indulgente, come qualunque lettore onesto constaterà facilmente. E anche rispetto all’uomo, ci sono in abbondanza quelle cose che i kemalisti dogmatici non vorrebbero che si dicessero e si sapessero. Dopodiché, non ho difficoltà a dire che per Atatürk nutro quella che definirei sofferta ammirazione. Se c’è “simpatia”, nel libro, è casomai verso i fautori di una via più moderata e meno traumatica alla modernità. Atatürk preferì essere un profeta armato, ritenne la terapia d’urto la sola praticabile e ritenne necessario, affinché essa avesse la massima efficacia, che il corpo sociale su cui intendeva applicarla fosse caratterizzato dalla massima compattezza. Oggi che conosciamo sempre meglio il duro prezzo di tutto questo, ed è doveroso conoscerlo sempre meglio, possiamo facilmente passare il tempo a criticare Atatürk e a immaginare migliaia di differenti e meravigliose Turchie, così come possiamo immaginare migliaia di unità d’Italia diverse e migliori di quella che fu realizzata, migliaia di soluzioni meno violente al contrasto tra stati industrialiabolizionisti e agrari-schiavisti nel nord-America, migliaia di soluzioni più fraterne della divisione tra India e Pakistan etc. etc. etc.

L’Acropoli – Sarà, ma la scheda dice: “La passione per il suo personaggio spinge l’a. a isolarlo, contrapporlo ed esaltarlo di fronte ai suoi contemporanei e ai suoi collaboratori, con rischio per la comprensione storica dell’uomo e del suo tempo”.

FLG – Di tutte le critiche, questa sinceramente mi sembra la più stravagante. Non è vero che ho isolato la figura del protagonista; al contrario, ho dedicato la massima attenzione a dare conto delle più generali vicende nelle quali si inserisce la sua vita e la sua opera. In molti casi, come ho accennato, ho fatto un lavoro di “filologia di base” sulla realtà turca passata e presente. L’ottica del libro, dicevo, era di spiegare la Turchia presente attraverso la vita del suo massimo artefice. Un semplice conteggio mostra quante siano le pagine in cui Atatürk non compare affatto.

L’Acropoli – Tra i duri prezzi a cui ha accennato, c’è senza dubbio quello pagato dai curdi.

FLG – Certo. Nel libro ne ho parlato senza mezzi termini. Mi interessa qui aggiungere una riflessione ulteriore, che non c’è nel libro e che ho focalizzato in questi mesi. La società curda era fortemente tribale (e ancora oggi lo è in non poca misura). Inutile dire che lo dico con pura obiettività sociologica, senza alcun giudizio di valore. Nel cercare di distruggere la cultura curda Atatürk aveva un obiettivo simile a quello che lo spinse a sciogliere le tarikat: eliminare corpi intermedi tra Stato e società. Nello Stato ottomano c’erano eccome nepotismo, clientelismo e corruzione, figuriamoci, c’erano “cordate”, come no, purtuttavia lo Stato ottomano, con i suoi meccanismi di selezione, si era configurato programmaticamente come uno Stato non necessariamente e stabilmente vincolato a una forza organizzata esterna, e nel complesso riuscì a mantenersi tale. Dei giovani turchi e dei kemalisti, a fortiori possiamo dire che la loro tribù, la loro tarika, era lo Stato. Un leader come Saddam Husayin, che era innanzitutto esponente del suo clan, poi dei sunniti, poi degli arabi e solo infine il presidente dell’Iraq, nella Turchia ottomana e kemalista sarebbe stato inconcepibile.

L’Acropoli – E che ci dice della questione dell’antisemitismo? La solita scheda le rimprovera di negare l’antisemitismo del kemalismo…

FLG – Ecco, allora mettiamo i puntini lì dove vanno messi, altrimenti davvero non si capisce niente. Posso per chiarezza procedere io stesso per domande e risposte?

L’Acropoli – Che devo dire? Mi sembra irrituale per un intervista, ma proceda...

FLG – Grazie.
Nei testi che possono essere considerati espressione del kemalismo come diretta espressione del pensiero di Atatürk e come pronunciamento ufficiale dello Stato repubblicano turco sono presenti l’antisemitismo e in generale una concezione etnicista della nazionalità? No.
All’interno della nomenklatura kemalista e della cultura nazionalista turca furono presenti un’ombrosa xenofobia e l’esaltazione della “razza turca”? Sì, largamente.
Fu Kemal personalmente affetto da questi sentimenti? No per quanto riguarda i sentimenti xenofobi, sì per quanto riguarda l’esaltazione della “razza
turca” (e non lo taccio affatto. Ma si tenga presente che la parola “razza” non era allora parola “maledetta”, la usavano senza problemi persone assolutamente non razziste).
Nell’esaltare la “razza turca”, postulò Atatürk una diseguaglianza genetica delle razze e indicò una “controparte negativa” (ebrei o altri)? No.
Ci furono kemalisti che nutrissero sentimenti specificamente più negativi, sospettosi o aggressivi verso gli ebrei piuttosto che verso gli armeni, i greci, gli arabi o gli stranieri in genere o i non turchi in genere o i non musulmani in genere? Sicuramente ci furono. Altrettanto sicuramente, furono una componente assai minoritaria all’interno della nomenklatura kemalista e della cultura nazionalista turca, che comprendeva una sconcertante pluralità di posizioni, dalle filocomuniste alle filofasciste alle liberaldemocratiche.
Quanto alla prassi concreta della Turchia kemaliana, la motivazione pragmatica mi appare (come quasi sempre) più convincente di quella ideologica. Negli anni ’30 lo Stato turco impedì il passaggio o lo stanziamento di massa di profughi ebrei, utilizzò i moti antisemiti scoppiati in Tracia nel ’34 per ridislocare prevalentemente a Istanbul la comunità ebraica della zona e accolse invece con tutti gli onori quei singoli, soprattutto intellettuali (ebrei, ma anche antifascisti non ebrei), che potessero dare un prezioso contributo al progresso culturale del paese.

L’Acropoli – Perché non ha fatto tutte queste precisazioni nel suo libro?

FLG – Sono decine le questioni che nel mio libro sono trattate assai più brevemente di quanto meritano. Altrimenti avrei dovuto scrivere un libro di 2.000 pagine. Ricordo con tenerezza l’affettuosa critica di una cara anziana professoressa in pensione, mia vecchia conoscenza, già ordinario di lingua e letteratura latina all’Università di Istanbul: “Hai trascurato l’umanesimo di Atatürk, quello che ha fatto per far conoscere la cultura classica a noi turchi… E’ grazie a lui che io ho potuto fare nella vita quello che ho fatto”. Il mio obiettivo era di scrivere un utile libro di riferimento, di proporzioni ragionevoli. Naturalmente rimando spesso e volentieri a saggi più specifici, miei o altrui. Nel libro parlo del fatto che Atatürk conosceva bene le voci secondo cui lui era di origine ebraica, che non se la prendeva affatto e che anzi in almeno un caso ne approfittò per precisare la sua visione culturale, e non razziale, dell’appartenenza nazionale (p. 367). Speravo che fosse sufficiente… Senta, vogliamo andare al fondo della questione? Se ci convinciamo che Atatürk era “cattivo” perché era fascista, antisemita, razzista, uno che si divertiva a massacrare i curdi e quant’altro, tiriamo un bel sospiro di sollievo e non ci pensiamo più, che comodità. Se guardiamo in faccia il fatto che quest’uomo reprimeva spietatamente i suoi concittadini anche per convincerli che la donna era un essere umano e non parte del bestiame, le cose si fanno assai meno comode, vero?

L’Acropoli – Parte del bestiame… Non sta esagerando per enfatizzare l’opera di Atatürk?

FLG – C’è un libro di straordinario interesse, R. N. BALI (ed.), The Turkish cinema in the early republican years, Istanbul, ISIS, 2007. Il documento più importante tra quelli in esso raccolti è il lungo e particolareggiato rapporto in data 1° luglio 1933 di Eugene M. Hinkle, secondo segretario dell’ambasciata degli USA in Ankara. A p. 171 c’è un capitoletto folgorante intitolato “Sex Life” (lo avrei volentieri trascritto tutto nel libro, poi i soliti motivi di spazio...): Hinkle spiega che scene normalissime per uno spettatore americano, come un uomo e una donna estranei che chiacchieravano o desinavano insieme, avevano per lo spettatore turco cittadino medio un’enorme carica erotica, e che “the simple peasant” tendeva a ritenere semplicemente insensato quel che accadeva sullo schermo: “His sex life is on a very primitive level and he is apt to associate his womenfolk with his livestock”. Questa era la Turchia, ce ne rendiamo conto prima di parlare? In questa Turchia le donne ebbero il pieno diritto elettorale nel 1934. Per imposizione dittatoriale, ovviamente.

L’Acropoli – Se si parla di Turchia contemporanea e di Atatürk non si può non parlare della questione armena, della questione del genocidio. Che ha da dire al riguardo?

FLG – Premesso che nel 1915 Mustafa Kemal se ne stava a combattere a Gallipoli e non ebbe nessuna parte nell’organizzazione della deportazione che, secondo molti storici, fu lo strumento di un preordinato piano di totale eliminazione fisica della comunità armena, io ho cercato con alcune osservazioni di dare il mio piccolo contributo alla comprensione di questa tragica vicenda. Nel mio libro, per esempio, ho fatto vari riferimenti all’antica Roma. Crede che l’abbia fatto per fare sfoggio di cultura classica?

L’Acropoli – Per quanto incongruo, sarebbe perdonabile…

FLG – Ma no, l’ho fatto per dare un segnale, e cioè che per capire molte cose di quello che è successo dal 1908 in poi in Turchia, invece di guardare ai furori del ‘900 bisogna guardare da tutt’altra parte, e soprattutto indietro. I nostri padri, gli antichi romani, per esempio, lo sappiamo, non hanno mai esitato a commettere alcune tra le più terrificanti carneficine della storia; quel che non hanno mai fatto è di mettersi a massacrare stupidamente chicchessia per paranoie ideologiche. Esattamente come gli antichi romani, i turchi da che mondo è mondo due cose sanno fare: fare la guerra e governare. E questo è un primo punto. In quello che i turchi (più spesso i curdi con la connivenza delle autorità turche) hanno fatto agli armeni l’odio ideologico, etnico o religioso, ha una parte assai modesta. Gli armeni erano un pericolo da eliminare e un’ingente ricchezza da espropriare. La posizione della diaspora armena, come è noto, è che la deportazione non fu un fine in sé ma il pretesto per attuare un genocidio accuratamente progettato. La posizione ufficiale dello Stato turco è che le perdite e le stragi furono “spiacevoli incidenti” di una deportazione che aveva buone ragioni, a iniziare dalla connivenza delle bande armene con l’esercito zarista. Io inclino a pensare che al governo turco interessasse che gli armeni sparissero il prima possibile dall’Anatolia, vivi o morti non importa, sia per contingenti motivi militari sia per chiarire definitivamente a chi appartenesse l’Anatolia. Quando poterono deportare gli armeni con mezzi veloci e moderni, e quindi con perdite relativamente sigue, di solito le autorità turche lo fecero. Ma certo non potevano non prevedere che in tutti gli altri casi la deportazione avrebbe prodotto immediatamente conseguenze spaventose, e che i luoghi di arrivo, Siria e quant’altro, privi di attrezzature sufficienti, erano perfetti per produrre altre enormi perdite. Lo sapevano bene, perché senza alcuna deportazione decine di migliaia di persone di tutte le comunità stavano morendo di fame e di malattie. Ma lo sapevano anche perché non c’era musulmano dell’Anatolia che non fosse profugo o non conoscesse bene musulmani profughi, e i loro racconti di quanti si erano “persi per strada”. Si dice, e tendo a crederlo, che tra i più feroci persecutori degli armeni ci furono i piccoli popoli musulmani del Caucaso, che nei decenni precedenti avevano vissuto tragiche vicende di colonizzazione, repressione, deportazione ed espulsione da parte del governo zarista. Vicende assai poco note, in Occidente.

L’Acropoli – E dunque.

FLG – Dunque, non solo della questione armena, è necessario capire questo punto fondamentale, ma pressoché di tutto ciò che era successo prima del 1919, e per molti aspetti prima del 1923, Atatürk volle che non si parlasse mai. Il regime kemalista fu una colata di cemento su un vulcano esploso. La Turchia doveva dimenticare il passato, guardare avanti, evitare di avvitarsi in una spirale senza fine di recriminazioni e rivendicazioni e avere rapporti tranquilli con tutti i propri vicini. Atatürk non poteva non accogliere e non mostrare deferenza verso i profughi dell’ex Impero Zarista (che talvolta avevano combattuto anche contro il successivo potere sovietico), ma ne temeva il revanscismo e di fatto li tenne ai margini. Oggi la parte più cosciente e democratica della cultura turca sta affrontando coraggiosamente la questione armena (e molti turchi iniziano a scoprire di avere una bisnonna armena, rapita o salvata nel 1915). Ma di conseguenza i circassi rievocano con assai maggiore evidenza di prima la deportazione del 1864. Ogni tanto si ha l’impressione che la Turchia sia in questi anni nel pieno di una gigantesca seduta di autocoscienza. E tutte queste cose le sapeva bene Hrant Dink, il grande intellettuale armeno ucciso tre anni fa da fanatici nazionalisti turchi. Egli non recedeva minimamente dal rivendicare la gravità della tragedia armena e la necessità del suo riconoscimento, ma la sua lotta si basava sulla consapevolezza che la tragedia armena non era un episodio isolato di barbarie ma il picco estremo di una generale catastrofe umanitaria protrattasi per almeno centocinquant’anni anni dai Balcani all’Asia Centrale passando per la Russia e per il Caucaso; lui era armeno e turco, sapeva di che parlava e con chi parlava, la sua non era la visione pregiudizialmente ostile, astratta, spesso caricaturale, di tanti stranieri (purtroppo anche uomini di cultura stranieri), che sono di fatto i migliori alleati di chi in Turchia non vuole cambiare niente e conduceva la sua battaglia in stretta connessione con il fior fiore della cultura democratica turca di cui è tuttora una bandiera. Era un uomo della razza degli Alexander Langer, la sua parola era autorevole. Smontava tutti i comodi “riflessi condizionati”, tutte le facili contrapposizioni, costringeva a pensare. Per questo era pericoloso, per questo è stato ucciso.

L’Acropoli – La penultima osservazione della scheda è che “la biografia è fastidiosamente appesantita da giudizi moralistici”…

FLG – Guardi, davvero non so a che cosa esattamente si riferisca questa critica. Forse ad alcune osservazioni e a uno stile generale che fuoriescono dalla gelida etichetta accademica e che contribuiscono a rendere il mio libro di piacevole lettura; il che, lo so, a certi intellettuali appare come un delitto imperdonabile.

L’Acropoli – E arriviamo all’ultima: “Lascia a desiderare l’indice onomastico”.

FLG – Questa è una critica condivisibile. La casa editrice Salerno ha preferito, come in altri casi, attenersi alle regole generali della collana in cui il mio libro è uscito. E’ una scelta su cui si può effettivamente dissentire, ma che non deriva da trascuratezza. Tengo a precisare, non per indorare la pillola, che allo staff della casa editrice Salerno va tutta la mia stima e che con esso per tanti aspetti ho lavorato ottimamente.

L’Acropoli – Andiamo alle questioni odierne. Si dice che la Turchia si stia allontanando dall’Occidente e stia perseguendo una politica neo-ottomana. Tutto ciò non sembra corrispondere ai desideri di Atatürk.

FLG – Nel 1993 Huntington scriveva che la Turchia non sarebbe mai entrata nell’Unione Europea, visto che il “club cristiano” avrebbe trovato sempre qualche pretesto per non accettarla, e che poteva invece, a patto di rifiutare il kemalismo, diventare il paese leader del mondo musulmano. In questi anni molti analisti hanno continuato a chiedersi se, con l’atteggiamento assunto dai paesi-guida dell’Unione Europea, ossia Francia e Germania, l’Occidente non rischiava di perdere la Turchia. Una Turchia che, per inciso, ha buone possibilità di diventare sempre più forte economicamente e strategicamente. Ora si può ben dire che sì, stiamo eccome perdendo la Turchia, e il moltiplicarsi di dichiarazioni rassicuranti ne è la migliore dimostrazione. E’ facilissimo dare addosso a Huntington, assai meno facile dimostrare con i fatti che aveva torto. In realtà tutto quanto sta succedendo gli sta dando per adesso ragione.
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