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Integrazione europea, "consenso europeista" e transizione alla democrazia in Spagna
di Eugenio Capozzi
Uno tra i campi di maggiore interesse nella storia contemporanea europea è quello delle transizioni di regime, ed in particolare dei processi di transizione verso la democrazia liberale rappresentativa a partire dai regimi dittatoriali di varia natura che hanno caratterizzato in misura massiccia le vicende del “secolo breve” tra la Grande guerra e la fine del comunismo sovietico. L’interesse degli storici e degli scienziati politici si è andato indirizzando in questa direzione sin dall’inizio degli anni Novanta, alla luce di quella “terza ondata” della democratizzazione, così definita da Samuel Huntington nel suo celebre volume del 1991, che in Europa era iniziata negli anni Settanta con la fine dei regimi dittatoriali di destra del Portogallo, della Spagna e della Grecia. La spinta all’adozione di modelli politici di tipo liberaldemocratico, naturalmente, in quegli anni avrebbe ricevuto un impulso enorme dagli eventi del post-1989, con lo smembramento dell’impero sovietico e i mutamenti di regime in senso “occidentale” – sia pur in molti casi con crescenti elementi di ambiguità e nuove forme di autoritarismo – degli ex-paesi “satelliti” dell’Europa orientale e di molte repubbliche ex- Urss.
Nel contesto delle transizioni democratiche avviatesi già tempo prima della “caduta del muro” nei paesi mediterranei in cui a lungo avevano resistito regimi autoritari nati in reazione ai timori di “bolscevizzazione”, un caso di particolare interesse è sicuramente quello della Spagna. Ciò per le caratteristiche singolarmente “dolci” del passaggio dalla dittatura ad un assetto pluralista. Ma, anche e soprattutto, perché quel passaggio non poteva considerarsi il frutto di un collasso del regime, essendo stato predisposto dallo stesso caudillo Francisco Franco quando deteneva ancora pienamente il potere.
Ne derivò, come è noto, la strutturazione di una dialettica politica in cui prevalse la tendenza a ricomporre e superare i grandi conflitti ideologici che avevano lacerato il paese nel corso del secolo: quello tra la dittatura e i suoi oppositori, ma più in generale quelli che affondavano le loro radici nella sanguinosa guerra civile degli anni Trenta tra repubblicani antifascisti e monarchici-falangisti. Una delicata opera di sutura che ha rappresentato la base della stabilità politica e del consenso democratico nei decenni successivi alla svolta del 1976. E che soltanto di recente è apparsa significativamente incrinarsi con la “legge per la memoria”, approvata nel 2007 dalla maggioranza socialista di Josè Luiz Zapatero: che, tra l’altro, disponeva la rimozione dei simboli del franchismo e consentiva di dissigillare i documenti d’archivio relativi ai crimini della dittatura. Una decisione che ha risuscitato i fantasmi di uno scontro ideologico faticosamente cicatrizzato.
A maggior ragione per questo motivo, la ricostruzione storiografica dei fattori che hanno consentito a suo tempo la pacifica transizione spagnola continua ad avere oggi una cruciale importanza. Ad uno tra essi, però, non è stata dedicata forse fino ad ora l’attenzione che meritava. Si tratta dell’avvicinamento tra la Spagna franchista e l’Europa comunitaria, accompagnata dal generale consolidamento di un “consenso europeista” nel paese. Il percorso della Spagna verso l’integrazione europea, infatti, è cominciato molto tempo prima della fine della dittatura franchista; e l’adesione a pieno titolo del paese alla Cee è stato poi non a caso uno dei primi frutti, forse il più maturo, della democratizzazione interna.
A questa mancanza pone ora rimedio il volume di una giovane studiosa italiana, Maria Elena Cavallaro, intitolato appunto Los orígenes de la integracíon de la España en Europa (Madrid, Silex, 2009, pp. 327).
Come è facilmente intuibile, la diffusione dell’europeismo in Spagna ha rappresentato un veicolo importante per l’avvicinamento del paese al modello liberaldemocratico occidentale, o per meglio dire per quella che sarebbe stata, molto tempo dopo, l’assimilazione quasi universalmente condivisa di quel modello. Ponendo in rilievo questo aspetto, l’autrice intende però innanzitutto rimarcare il fatto che le radici della transizione spagnola alla democrazia non vanno individuate soltanto negli ultimi anni del regime franchista, ma sono per molti versi assai più profonde, risalendo ai mutamenti innescatisi nella società spagnola fin dagli anni Cinquanta.
Da questo punto di vista, il “consenso europeista” può essere letto come la vera e propria cartina di tornasole della complessa, per certi versi addirittura paradossale, situazione in cui la Spagna si era trovata negli anni del secondo dopoguerra. Da un lato, infatti, essa continuava a coltivare la posizione di isolamento in cui si era tenuta rispetto al contesto internazionale dalla fine della Guerra civile, “congelando” la propria stabilità autoritaria negli anni caldi della guerra fredda e tenendosi “a distanza di sicurezza” rispetto alle possibili influenze politiche provenienti dal resto del continente. Dall’altro, però, proprio la polarizzazione della guerra fredda e il radicamento dell’alleanza occidentale-atlantica spingevano, inevitabilmente, il paese a subire l’attrazione economica e politica di quell’area del continente da cui lo dividevano proprio gli ordinamenti liberaldemocratici.
L’aspetto più interessante nella ricostruzione della Cavallaro sta nel fatto che la studiosa non si limita ad illustrare questa “attrazione fatale” della Spagna verso “una certa idea di Europa” (democrazia, mercato e integrazione sovranazionale) presentandola come una tendenza di lungo periodo nell’evoluzione del paese, ma dimostra parimenti – attraverso l’analisi di un’amplissima e trasversale base documentaria – come la deriva europeista instauratasi a partire dagli anni Cinquanta accomuni in Spagna, con motivazioni diverse ma dai risultati storicamente convergenti, sia le forze politiche e intellettuali che facevano capo al regime franchista, sia quelle delle varie opposizioni al regime stesso.
Per quanto riguarda il franchismo, gli anni dell’immediato dopoguerra erano stati caratterizzati da un’ostentata presa di distanza e autoemarginazione tanto rispetto all’alleanza politico-militare atlantica quanto rispetto al processo di integrazione dei paesi europei liberaldemocratici: la propaganda ufficiale non perdeva occasione per descrivere l’evoluzione politica e culturale del Vecchio Continente in epoca post-bellica come espressione della decadenza morale verso cui era avviato l’Occidente, alla quale veniva contrapposta la stabilità sociale data dalla fedeltà della Spagna alle sue tradizioni e ai princìpi cattolici.
Tale atteggiamento si andò modificando sensibilmente, però, già nella prima metà degli anni Cinquanta, nel periodo di più alta tensione della guerra fredda: spinta dalla minaccia sovietica, la Spagna cominciò a considerare necessaria una propria maggiore integrazione tanto con gli Stati Uniti quanto con i paesi europei che degli americani erano alleati, che produsse i suoi primi rilevanti esiti con l’ingresso del paese nell’Onu, con gli accordi militari stipulati con la potenza americana nel 1953, e successivamente con l’inizio delle trattative per l’ingresso nel processo di integrazione economica europea.
Tuttavia, il mutamento di prospettiva della politica estera franchista non implicava un cambiamento di giudizio nei confronti delle istituzioni democratiche di modello occidentale: anzi, il regime giustificava presso i cittadini spagnoli la nuova linea proprio con l’obiettivo di rafforzare il blocco anticomunista internazionale grazie al valore aggiunto rappresentato dal proprio solido legame con le radici cattoliche della cultura europea, in grado di controbilanciare efficacemente le eccessive tendenze moderniste degli altri paesi. Inoltre, la propaganda ufficiale teneva a sottolineare – ricorda l’autrice – come la partecipazione della Spagna al processo di integrazione non andasse considerata come un’abdicazione al ruolo di potenza nazionale del paese, bensì semmai come una sanzione ed una legittimazione internazionale del ruolo strategico svolto da esso nel nuovo sistema di alleanze.
Ma l’adesione alla prospettiva dell’integrazione europea promossa dal regime rappresentò da quel periodo in poi, rileva la Cavallaro, un catalizzatore d’interesse anche per molti settori dell’opposizione democratica antifranchista. Per questi ultimi, naturalmente, le ragioni dell’adesione erano ben diverse: esse risiedevano infatti proprio nella possibilità che il regime intendeva negare, e cioè che avvicinandosi ai paesi dell’area della Ceca, e poi della Cee, la Spagna riducesse gradualmente la propria diversità da essi, adeguandosi ai princìpi liberaldemocratici, al pluralismo, al rispetto dei diritti umani.
Ne derivava, sottolinea la Cavallaro, un effetto doppiamente paradossale: i franchisti volevano che il paese entrasse in un’area sovranazionale liberaldemocratica per salvaguardare la specificità spagnola rispetto ad essa; gli antifranchisti appoggiavano la linea integrazionista del regime allo scopo di minarne, in ultima analisi, la legittimità proprio negando quella differenza, che essi confidavano sarebbe gradualmente venuta meno man mano che il paese avesse consolidato i suoi legami economici e politici con l’area euro-occidentale comunitaria.
La prospettiva dell’integrazione, insomma, favoriva una convergenza di fatto tra due obiettivi diversi e confliggenti: per il regime l’Europa rappresentava uno scudo anticomunista, ma per i suoi oppositori, in prospettiva futura, essa si profilava come uno scudo contro l’autoritarismo del regime stesso.
Ma questa occasionale convergenza innescava nel tempo, al di là delle intenzioni di entrambe le parti, un processo di progressiva interrelazione che avrebbe avuto effetti di lungo periodo, contribuendo ad indirizzare le forme della transizione dopo la morte di Franco. Un processo che, secondo l’autrice, si può sintetizzare come una crescente riduzione delle barriere culturali e psicologiche non soltanto tra l’area politica interna al regime e le opposizioni, ma anche tra le diverse componenti delle opposizioni stesse.
È proprio tale percorso verso la compatibilità tra ideologie, linguaggi, prospettive politiche diverse a rappresentare il nucleo centrale nella ricerca della Cavallaro. La quale ne pone in evidenza alcuni elementi caratterizzanti attraverso l’analisi della produzione dei principali nuclei intellettuali e politici interni ed esterni al regime.
Per quanto riguarda i primi, l’autrice riserva una particolare attenzione alla riflessione elaborata nell’ambito del Centro Europeo de Documentación e Información, una sorta di think tank (come ella stessa lo definisce) creato nel 1953 dal ministero degli esteri spagnolo con lo scopo di articolare e ribadire sul piano culturale la tesi delle radici cristiane della civiltà occidentale, ed in particolare di quella europea, e di definire il ruolo della Spagna nel progetto comunitario non soltanto come quello di una sentinella della fonte spirituale originaria del continente, ma anche come cerniera politica tra l’Europa occidentale e l’America latina. Significativamente, però, proprio sotto l’egida del CEDI si andò sviluppando negli anni successivi un luogo di incontro e dialogo tra i cattolici spagnoli al di là dello spartiacque tra franchisti e opposizione, favorendo nel tempo la formazione di un punto di vista unitario di quell’area politico-culturale sulla politica estera ed in particolare europea, che a sua volta propizierà il passaggio relativamente indolore dalla cultura politica cattolica che aveva aderito al regime verso il popolarismo democratico.
Da questo punto di vista la ricostruzione della Cavallaro può stimolare, tra l’altro, un’analisi comparata tra l’approccio della destra franchista spagnola rispetto all’Europa e quanto avveniva negli stessi anni nei vari filoni della destra italiana. Nel nostro paese infatti neofascisti, monarchici e moderati di estrazione qualunquista superavano negli anni Cinquanta – similmente all’area franchista iberica – la loro contrarietà originaria all’alleanza filoamericana e all’integrazione europea sotto l’impulso della primaria preoccupazione anticomunista, e inseguendo la prospettiva della confluenza in una vasta alleanza moderato-conservatrice. Ma, a differenza che in Spagna, in Italia l’area politica cattolica si era saldamente collocata nella doppia cornice dell’anticomunismo e dell’antifascismo, e quindi in una prospettiva centrista con lo sguardo puntato all’evoluzione della sinistra riformista. Conseguentemente dopo il 1958, e soprattutto dopo il fallimento del governo Tambroni del 1960, le destre, pur essendosi attestate su posizioni filoatlantiche e filo-europeistiche, sarebbero rifluite nuovamente in un ruolo di emarginazione e delegittimazione rispetto al mainstream democratico-costituzionale.
Ma secondo la Cavallaro, come abbiamo accennato poc’anzi, il consenso europeista ha costituito un presupposto rilevante della transizione democratica spagnola non solo perché ha contribuito a porre le premesse del “traghettamento” della destra franchista su posizioni cattolico-moderate. Esso ha esercitato infatti, a suo avviso, una funzione di progressiva preparazione al confronto democratico anche nella vasta area delle opposizioni. Per comprendere quanto esso abbia pesato in questo senso, occorre ricordare che la transizione post-franchista non ha dovuto fare i conti semplicemente con le ferite lasciate dall’eredità della dittatura, ma anche con l’eredità di conflitti ben più radicati, risalenti alla stagione della Repubblica e alle origini della guerra civile, e in generale al riflesso iberico di quella lotta senza quartiere tra le forze democratico-liberali e i due totalitarismi, fascista e comunista, che era stata la cifra dominante di tutta la storia europea tra le due guerre mondiali. La memoria di quel mortale confronto scatenatosi negli anni Trenta nel paese era stata “congelata”, ma non superata, dalla cruenta vittoria dei falangisti. E, per di più, essa era rimasta come una ferita aperta anche all’interno delle forze antifasciste, alla luce dei sanguinosi contrasti tra i comunisti e gli altri gruppi repubblicani, e, non secondariamente, alla luce dei massacri di cui erano stati vittima i cattolici ad opera di alcune componenti dell’alleanza repubblicana.
Ora, la Cavallaro opportunamente sottolinea come l’adesione all’obiettivo europeista da parte delle opposizioni antifranchiste abbia dato luogo nel tempo ad uno spazio effettivo di collaborazione e dialogo tra forze separate da molti odi e diffidenze ideologiche, ed in particolare tra i cattolici democratici e i socialisti. E, d’altra parte, persino i comunisti spagnoli giocarono proprio sul tema dell’Europa la loro scommessa sul perseguimento di una linea politica autonoma da Mosca e di una legittimazione democratica, rivedendo un atteggiamento originariamente contrario e seguendo in parte un percorso analogo a quello cominciato allora dei comunisti italiani.
Quando, nel 1977, la Spagna affrontò le prime libere elezioni dopo la dittatura e cominciò il dibattito sui negoziati per l’adesione del paese al Consiglio d’Europa, l’eredità della riflessione franchista e antifranchista sull’integrazione svoltasi nei decenni precedenti partorì, conclude la Cavallaro, due atteggiamenti speculari ma non incompatibili, quanto piuttosto complementari: da parte della destra confluita nel nuovo popolarismo si sarebbe posto l’accento soprattutto sulla necessità di rafforzare lo schieramento occidentale in nome dell’economia di mercato e della difesa degli interessi nazionali; dalla sinistra socialista e dall’area cattolico-democratica, viceversa, si sarebbe soprattutto insistito sul fatto che l’ingresso del paese nell’area comunitaria avrebbe rappresentato un potente mezzo per salvaguardare il pluralismo politico e le libertà civili.
È anche nel complesso gioco tra queste due interpretazioni, tra queste due eredità politiche, che la transizione “dolce” alla democrazia spagnola ha potuto compiersi. Il consenso europeista è stato la sua efficace camera di decompressione, attraverso la quale le linee di frattura della storia passata sono state ridimensionate alla luce di un orizzonte condiviso. Il volume della Cavallaro ha il merito non secondario di porre nella dovuta evidenza questo fondamentale passaggio, ponendo attenzione non soltanto alle fonti propriamente politiche ed istituzionali, ma anche alle svariate voci provenienti dalla riflessione culturale dell’epoca, che come un sismografo registrano i delicati passaggi della cultura politica diffusa e della coscienza civile.
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