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La terra trema, ma non per noi
di Luigi Gaffuri
La terra trema sempre, ma noi ce ne accorgiamo solo quando i tremori raggiungono il rantolo. A tutti la terra appare quanto di più stabile esista sulla terra. In due mesi esatti, secondo la notizia riportata da un telegiornale nazionale che, basandosi sui dati dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, ha richiamato la ricorrenza il 6 di giugno, nell’area sismica dell’alto Appennino centrale ci sarebbero state ventimila scosse: circa 322 ogni giorno, 13 ogni ora e una ogni quattro minuti e mezzo. Da quando la terra ha tremato all’Aquila, facendo traballare l’intero Abruzzo, ogni cittadino della provincia più interna e montuosa della regione adriatica si è improvvisato esperto, o ha comunque provato a capire qualcosa dei terremoti. Nello scorrere della quotidianità ormai, dal Gran Sasso al litorale e anche sull’altro versante, non si parla d’altro. Il terremoto e le sue continue manifestazioni permeano la nuda vita, anche in forma di semplici battute scaramantiche mirate a contrappuntare l’angoscia e a esorcizzare la paura.
Non c’è bisogno di scomodare Freud e la sua analisi dell’io, né la sua psicologia delle masse per comprendere la natura collettiva degli eventi sismici. Ma proprio perché ciascuno è uno, le oltre cinquantamila persone sfollate sono una, una, una… Ognuna ha una storia, e a metterle in fila ci ha pensato il terremoto. Ciascuna è una storia, e a metterle in fila non basterebbe un’intera esistenza per raccontarle. Qualcuno ci proverà, forse molti, con intenti scientifici o narrativi, tuttavia ciò che questo evento recente nasconde nella profondità degli animi non potrà emergere che a brandelli, le voci rimarranno inevitabilmente strozzate. C’è da aspettarsi che, come quando qualcosa ostacola un flusso, il dire prenda direzioni impreviste. C’è da aspettarsi che accada di tutto ma, come quando una crosta ostruisce la fuoriuscita di materiale incandescente, è certo che la terra continuerà a tremare suscitando timori e tremori, nel capoluogo e nei comuni della sua provincia, allarmando anche i centri più lontani di altre regioni.
Nei pressi della città, tra gli aquilani, anche la popolazione dell’area residenziale di Pettino ha subito gravi danni, soprattutto al pedemonte, che non si sa come e in quali tempi potranno essere riparati. Prima dell’indescrivibile botto del 6 aprile, nella pianura che gravita attorno alla statale 80, sono stato per anni ospite di una famiglia a Cansatessa – e sto provando a restarci ancora. Come in un arcinoto abbrivio della letteratura gialla, qui le notti estive sono dolcissime. Profumano d’erba e di tigli, di rose e di amarene, di muschio e di fiori di campo. Le stelle sembrano vagolare in un cielo più basso, sono calde e amiche, non fredde e distanti come in altri luoghi del mondo. Quando una brezza leggera agita le tende alle finestre aperte, l’aria è frizzante ma morbida per chi la conosce. Porta odori dai monti di sopra, dove gli alberi faticano ad arrampicarsi ma si radicano a una terra aspra, portando il loro rancore fino alle stanze dell’intimità. Le luci delle case, ancora non troppo numerose, si riverberano sul selciato del cortile e sul giardino, striandoli con giochi di specchi e di colori, di ombre e di figure informi alle quali si possono dare nomi e significati.
Ebbene sì, le notti estive sono proprio dolcissime a Cansatessa. Ma non per noi. O almeno, ora non più, nemmeno per noi.
Non c’è più il silenzio e l’immobilità della vita tranquilla, sicura, da quando “lui” è arrivato, come un urlo lacerante nella notte. Dopo il terremoto le persone che amano L’Aquila, ancora stordite, si sono accorte di avere sposato un’ombra. Ora i profumi non sono più gli stessi, le stelle si sono allontanate nel buio della volta celeste, le brezze sono diventate gelide accompagnando gli scrosci di pioggia e, alternativamente, le folate di caldo asfissiano con lunghi singhiozzi la gente sotto le tende. E, nella città più fredda d’Italia, si aspetta con preoccupazione il rigido inverno. Gli alberi sembrano ripiegarsi, rifiutando la loro fragile compagnia ai cercatori di senso, le luci assumono forme sinistre ed evocano scenari futuri impensabili, aleggia un irriconoscibile odore di morte – reale e simbolico. E l’immaginario ne risente in modi inequivocabili.
L’epoca globale ha trasformato ovunque e in modo profondo l’immaginario collettivo, incidendo anche su quello personale, mutando dunque gli orizzonti identitari. Eppure il senso di appartenenza a una “casa” resta solido, apparentemente fermo al suo posto. Una prossimità conturbante, e nelle situazioni di emergenza perturbante, innerva l’inquietudine che mette in rapporto la dimensione domestica con l’orizzonte sociale – entrambi attraversati dalle componenti culturali.
La casa che la maggior parte di noi abita, mentre per L’Aquila e dintorni si può dire che più di cinquantamila cittadini hanno abitato fino a ieri, rappresenta il luogo per eccellenza degli affetti, dei conflitti, della convivialità, dei problemi, delle soddisfazioni, degli affanni, del ristoro, del ripiegamento su sé stessi, dei progetti, delle incomprensioni, del sogno. È lì che si insinua l’appartenenza locale, connessa a un’appartenenza globale: la cellula famigliare o il singolo individuo, consapevolmente o a diversi e incompleti livelli di coscienza, intessono legami tra la casa propria e la “casa” intesa come sentirsi parte di qualcosa che supera e aggira la residenza. Mentre la prima è figlia dell’abitare, la seconda è figliastra della cultura e nasce senza concepimento, come distillato di un mistero che ha radici nel desiderio di andare oltre. Ne sanno qualcosa, e molto bene, le popolazioni Rom – non solo quelle che in Abruzzo hanno messo le loro radici. La casa, benché sia costruita, è in larga parte naturale; viceversa la “casa”, per quanto provenga da spinte naturali, è cultura in ogni sua manifestazione.
Quest’ultima casa, se viene intesa come domus, evoca la questione del dominio come implicazione etimologia del dominus dal quale essa deriva. Ma anche la casa come abitazione non è esente dall’idea di dominazione: tra le mura domestiche cresce e si rafforza l’impulso, che eccede la nostra razionalità, a controllare, gestire – dominare, appunto – i soggetti e gli oggetti, i corpi e le cose, la creatività e gli eventi nelle relazioni con gli altri e con il mondo. L’appartenenza, perciò, ha un legame profondo con l’irrazionale ma pure con le relazioni di potere, con i rapporti asimmetrici e con la possibilità di esercitare un controllo fondato sul lavoro umano. Perché è nel lavoro, non nella casa, che risiede l’origine del potere come energia che si accompagna a una conoscenza, si coniuga alle informazioni che abbiamo su chi ci circonda e ciò che ci circonda.
Senza contare lo scossone più duro – la vibrante pugnalata a coloro che non ci sono più e a chi, rimanendo qui, è destinato a piangerli per sempre –, gli aquilani sono stati colpiti dal terremoto soprattutto nella casa e nel lavoro. Tutto ciò ha lacerato, alterato, esasperato il loro senso di appartenenza – vale a dire l’identità nella quale, da posizioni sociali differenziate per risorse e opportunità, si riconoscevano. Ed è da queste rispettive posizioni, non neutre, che ciascuno cercherà di ricomporre o reinventare la propria appartenenza identitaria e, insieme, la sua città – se si daranno le condizioni per sentirla ancora come propria “casa”. Ma questa circostanza non è detto che si verifichi, visto come finora le istituzioni preposte alla ricostruzione hanno impostato in termini progettuali e affrontato concretamente i panorami del post evento. La situazione è oggettivamente difficile, si sa, e d’altro canto sino a oggi nel nostro paese mai era accaduta una cosa del genere, con una forza che ha distrutto e ferito a morte un intero capoluogo di regione e, con esso, il suo ammirevole centro storico. Eppure lo spazio per la fantasia nelle soluzioni programmatiche e il rigore nei provvedimenti amministrativi e finanziari non è stato sfruttato adeguatamente, preferendo soluzioni frettolose e avventate. Contrariamente ai proclami e all’ottimismo propagandato con modalità artificiose, molto resta ancora da fare.
La scala delle priorità, del resto, viene invertita con inammissibile sciatteria. Stride la corsa a doppia velocità, sconcerta la spaccatura tra l’assedio per il G8, accompagnato da una sproporzionata militarizzazione del territorio, e l’assenza di attenzioni ai problemi e alle urgenze reali. Infine, ammutolisce la doppiezza dei politici, accompagnata da una cecità allarmante. L’ossessione per la sicurezza va di pari passo con la noncuranza per l’incertezza in cui vengono lasciate migliaia di famiglie. In una provincia che sta subendo un collasso economico, dove la disoccupazione aumenta perché scompaiono i posti di lavoro e dove la crisi produttiva la fa da padrone ponendo questioni cruciali per il futuro, ci si inventa la bella trovata, a dir poco grottesca, di far venire qui gli otto Grandi del mondo, allargando in tempi record e a spese dei cittadini le strade che dovranno percorrere i massimi capi di Stato e di governo, mentre le tendopoli e gli scempi nel centro storico andranno nascosti alla vista per non guastare il panorama.
Del resto la vita delle persone comuni, già bloccata dalle conseguenze devastanti del sisma, subirà un altro arresto dovuto ai divieti di circolazione sugli assi viari più importanti, senza preoccuparsi di quanto offensive e ingiuriose possano apparire queste inestimabili spese agli oltre trentamila sfollati sul litorale e agli oltre ventimila alloggiati nelle tendopoli, acquitrinose o allagate in caso di pioggia battente e dove si brucia sotto il sole nei giorni più caldi. Rispetto agli strombazzamenti del G8 i problemi, anche gravi, sperimentati dalla gente comune passano in secondo piano, si conoscono poco e vengono considerati ancora meno. Ma anche le notizie che fioccano sui giornali non turbano più di tanto la tranquillità del governo in carica, nello stesso momento in cui si smentiscono promesse fatte davanti al video in stucchevoli dichiarazioni: basti guardare gli esiti parlamentari della recente legge approvata per la ricostruzione delle zone terremotate in Abruzzo.
Molte scuole di ogni ordine e grado, così come l’università, si danno per praticabili e funzionanti ma non si dice come, mentre la più gran parte di esse non ha ancora trovato una sede, nemmeno provvisoria. Non accenno agli ospedali, troppo tristi e note sono le vicende che ne hanno coinvolto uno, il più nuovo e il più grande, nel terremoto. Ricordo solo che in quelli da campo, improvvisati e appoggiati a ciò che è restato in piedi nei fabbricati destinati alla cura della salute dei cittadini prima del sisma, si notano le file degli utenti più disagiati davanti a strutture sanitarie che sembrano finzioni borgesiane. Senza omettere lo stato in cui versano gli edifici privati destinati a ogni genere di attività commerciale o culturale e gli edifici pubblici che ospitavano le istituzioni preposte al funzionamento di un organismo complesso come la città. L’opinione pubblica va tranquillizzata, certo, ma sarebbe meglio non raccontarle troppe frottole.
Insomma, per una legge sociale immutabile, sebbene democratici e artefici di una sotterranea giustizia distributiva, anche gli effetti “naturali” del terremoto si fanno sentire soprattutto negli strati più deboli della popolazione – quelli che non possono, quelli che non hanno, quelli che non conoscono. E saranno necessari anni perché possano arrivare a respirare un’aria che somigli a quella che, a pieni polmoni, nei giorni migliori hanno annusato in questa terra stupenda, ora attonita e in ginocchio. Un Visconti d’annata già nel 1948 aveva rivelato, in maniera anticipatrice, che quando la terra trema non si tratta di un’oscura fatalità ma di un sistema di oppressione psicologica che si aggancia a un sistema di disparità economiche, contro cui la rivolta individuale si spunta perché il mondo attorno appare sempre più come un muro di gomma dove la separazione tra l’appartenenza a un clan e la non appartenenza fa la differenza. E tutto ciò vale anche quando non si fa parte di una conventicola di privilegiati, di un nugolo di interessi, di una cerchia di “parentele” che contano.
La stampa e le girandole mediatiche hanno a loro volta una grossa responsabilità che oggi, a luci spente, si mostra in tutto il suo muto splendore. Fino a che il chiodo era caldo, sentimenti ed emozioni espressi dalla gente sono stati sbattuti in prima pagina, individuando di volta in volta il “mostro” di cui si aveva bisogno. E l’auditel era, come lo è ora per altre notizie, sempre dietro l’angolo. Per gli scopi e nelle occasioni più diverse, stante la possibilità di altri crolli, ciascuno ha fatto allora la sua passerella con l’elmetto d’ordinanza dei vigili del fuoco o con un altro copricapo. C’è un cappello per ogni circostanza, come ben sapeva Ennio Flaiano, un abruzzese d.o.c. Nel mentre si assisteva alla dissoluzione di una città e del suo tessuto urbano, che tra l’altro comporta sempre la dissoluzione di qualcosa di più profondo, si è approfittato della situazione per farsi pubblicità tradendo poi le dichiarazioni pubbliche e il presenzialismo non richiesto.
Domenica 21 giugno, dalle undici di mattina alle dieci di sera, hanno riaperto un pezzetto del centro storico, tra la Villa comunale e piazza Duomo, collegate da un breve tratto del Corso Federico II. Una breccia temporanea ma decisiva nella cintura sanitaria di militari, vigili del fuoco, carabinieri, poliziotti, finanzieri che, per precauzione, hanno impedito l’accesso della popolazione a constatare direttamente lo stato in cui si trovava la città. La sorpresa non è stata da poco, anche se sotterraneamente tutti immaginavano, se non le proporzioni, almeno l’intensità emotiva del disastro. Una desolazione per chi fino a ieri ha potuto godere di quei luoghi, di quei palazzi, di quei monumenti, di quei punti di ritrovo, della propria attività lavorativa che ruotava attorno alla piazza o si svolgeva nell’università, nei teatri, negli alberghi, nelle biblioteche, nei ristoranti, nelle istituzioni comunali e negli organi periferici dello Stato, nei bar e nei negozi. Sembra passato un secolo da quando era difficile muoversi nel vasto rettangolo tra il Duomo e capo piazza in cui tutti i giorni si svolgeva il mercato, con commercianti e piccoli ambulanti che venivano da ogni dove – comprese alcune donne anziane che vendevano, con la dignità della tradizione, i pochi frutti della loro terra distribuendoli sopra un panno disteso sul selciato.
La grancassa dei quotidiani nazionali ha parlato ancora del capoluogo abruzzese, sottolineando l’occasione per gli aquilani di poter finalmente fare una passeggiata nei luoghi della memoria, dei simboli, dell’arte. In realtà pareva un funerale, tra le macerie che si potevano scorgere al di là delle reti metalliche che sbarravano il passaggio ai vicoli laterali di quello scampolo di centro storico: musi lunghi, voci sommesse, esclamazioni accorate, discorsi tutti invariabilmente uguali. Stanchezza, incredulità, dolore, rifiuto e impossibilità di vedere un domani normale. Qualcuno si è anche sposato, reagendo a un destino crudele: una coppia girava mano nella mano, lei avvolta nel suo abito bianco e lui imbustato nel suo vestito nero da cerimonia, con la cravatta allentata al collo. Mi è bastato per capire che le cose non vanno e che ci vorrà molto, molto tempo per rimettere in moto un meccanismo ormai inceppato per rivedere una città che, in onore a una popolazione testarda e volitiva, meriti ancora quel nome portato con fierezza e orgoglio.
Oggi sembra quasi di assistere a una rappresentazione: c’è chi il terremoto lo vive e lo interpreta e c’è chi assiste allo spettacolo. C’è chi ha sentito la terra tremare sotto i piedi e ha visto crollare le proprie abitazioni o i propri luoghi di lavoro, chi ha trovato sepolti sotto le macerie i suoi cari o i suoi amici e chi, almeno per un po’, si è dispiaciuto e commosso di fronte alla tragedia, ma poi se n’è dimenticato perché aveva cose più urgenti a cui pensare. Il tempo fa bene il suo lavoro, è in grado di cancellare tutto, anche le guerre: come ognuno ben sa, tra queste e i terremoti spira un’aria di famiglia e, sebbene i secondi vengono dalle viscere del mondo e non dagli uomini, sono pur sempre gli uomini a poterne limitare gli effetti, sia in termini di prevenzione sia in materia di cura. In questo senso, senza trascurare tutti coloro che, venendo da ogni dove, hanno aiutato e si sono spezzati la schiena per dare una mano senza essere stati direttamente coinvolti dal sisma, bisogna ammettere che molti, e sono i più, potranno sempre dire: “La terra trema, ma non per noi”.
A ben vedere, se questi ultimi si interrogassero meglio, forse in loro si potrebbe insinuare almeno un dubbio – e fra i molti mi auguro che vi siano anche coloro che hanno responsabilità di governo della cosa pubblica. Si dovrebbero domandare se il controllo, la gestione, il dominio nel campo degli eventi sismici, durante il “prima” non restino una pura e semplice questione statistica legata al caso e a una natura indifferente alle umane tribolazioni che, prima o poi, potrebbe coinvolgere anche loro; e, correlativamente, si potrebbero chiedere se, quando fa capolino il “dopo”, non valga la pena confrontarsi urgentemente e senza rescissioni con le necessità sociali. Perché se ogni potere può fallire di rimpetto ai precipizi dell’insondabile, al baratro dell’ineffabile, ogni potere ha anche possibilità di recupero e d’azione qualora lo voglia.
Eppure, da più parti, si preferisce continuare a vedere soltanto il primo corno del problema – nei riguardi del quale la nostra impotenza rimane palese – sostenendo che il terremoto non è comunque prevedibile. E l’argomentazione può diventare anche molto raffinata, quando a parlare sono gli esperti. Tradotto in linguaggio più ordinario, è come dire fifty-fifty: 50% di possibilità che si verifichi una scossa uguale o superiore a quella del sei aprile scorso e 50% che non si manifesti. Stando così le cose, perché gli esperti si ostinano a “rassicurare”? E poi rassicurano chi, se non sé stessi? In ogni caso, dato che nulla gli uomini possono fare in anticipo per evitarlo, non resta altro da sperare che Dio e i suoi disegni non vogliano. Ma se proprio dovesse accadere, malgrado le ipotesi più ottimistiche e i necessari scongiuri, bisognerebbe augurarsi che il grande botto arrivi almeno durante il prossimo G8, per ricordare ai potenti della terra che la terra è più potente di loro.
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