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Hart e la filosofia del diritto di Oxford
di Luca Pelliccioli
HART E LA FILOSOFIA DEL DIRITTO DI OXFORD

In Diritto e natura. H.L.A. Hart e la filosofia di Oxford,(Pisa, ETS, 2008, pp. 263), Mario Ricciardi ha offerto una nuova interpretazione della filosofia del diritto di Hart, che pone in primo piano la sua appartenenza alla schiera di filosofi che hanno animato il movimento intellettuale noto come “filosofia di Oxford” e ritrova nelle considerazioni sul “contenuto minimo di diritto naturale” il più rilevante portato di tale appartenenza. Si legge nella quarta di copertina: «Herbert Hart è uno dei filosofi più influenti del ventesimo secolo. I suoi lavori, in particolare nei paesi di lingua inglese sono il punto di riferimento obbligato per gli studiosi della disciplina». Sebbene in questo passo la “disciplina” cui si fa riferimento sia sicuramente la filosofia del diritto, è significativo che Hart vi figuri semplicemente come filosofo, senza ulteriori qualificazioni. In Italia non è frequente che gli studiosi di Hart si occupino delle fonti del suo pensiero e anche quando lo hanno fatto il tema è stato spesso affrontato in modo piuttosto schematico, collocando la filosofia del diritto di Hart sullo sfondo della “filosofia del linguaggio ordinario”. Se non mi sbaglio, l’unica eccezione a questo modo procedere è rappresentata da un lavoro di Mario Jori del 1979 intitolato Hart e l’analisi del linguaggio ordinario1 in cui alcuni tratti di questo semplice schema venivano rivisti sulla base di distinzioni più precise.
Il libro di Ricciardi, che interpreta The Concept of Law (Il concetto di diritto, 1961) di Hart come uno dei frutti più significativi della filosofia di Oxford, costituisce sicuramente una novità nel panorama italiano, e non solo. Si tratta di un lavoro di ampio respiro, ricco di informazioni e minuziose ricostruzioni di temi e figure intellettuali in grado di gettare luce sulla filosofia del diritto di Hart. Le tradizionali partizioni e rubriche della disciplina sono sacrificate a favore di un’indagine più attenta ai presupposti filosofici e alle assunzioni di sfondo che all’esposizione sistematica delle tesi hartiane (p. 174)2. La struttura del libro e il metodo adottato si spiegano sulla base dell’idea che l’attenzione dovrebbe essere portata al «profilo filosofico generale del lavoro di Hart» (p. 168) e che, a questo riguardo, l’affermazione che Hart è «un “filosofo analitico” che si occupa del diritto» non è affatto esplicativa (p. 27). La tesi di Ricciardi è che una ricognizione più attenta delle fonti di Hart possa contribuire a un nuovo bilancio della sua filosofia del diritto, e a riconoscere il peso che ne Il concetto di diritto hanno questioni di carattere normativo (p. 25) e, in particolare, la tesi del contenuto minimo di diritto naturale.
Dei sei capitoli che compongono il libro, tre – il secondo, il terzo e il quarto – sono dedicati a un’analisi per molti aspetti inedita della filosofia di Oxford, in un arco temporale che copre grosso modo la prima metà del Novecento. Il metodo impiegato in questa parte del lavoro è dichiaratamente ibrido, «[l]a storia delle idee si alterna alla filosofia in modo da accompagnare l’esposizione degli argomenti alla narrazione della loro genesi» (p. 23). Alla genesi della “filosofia di Oxford” è dedicato il secondo capitolo. Con questo nome ci si riferisce, più che a una vera e propria scuola filosofica, a un movimento intellettuale caratterizzato da un comune modo di intendere il lavoro filosofico e il suo oggetto, i cui principali esponenti sono Ryle, Austin e Strawson. L’interesse dell’indagine di Ricciardi dipende in parte dall’aver ricompreso nel quadro anche autori spesso trascurati se non del tutto dimenticati. Non si tratta però solo del fascino che può avere un lavoro minuzioso di riscoperta e confronto di importanti scritti raramente utilizzati: attraverso lo studio di figure come Cook Wilson, Joseph e Prichard, Ricciardi riesce a restituire una fisionomia precisa all’ambiente intellettuale in cui avviene l’apprendistato filosofico di Hart e a revocare in dubbio alcune classificazioni abituali. L’idea, sostenuta da Michael Dummett3, che all’origine di tutte le filosofie analitiche sia rintracciabile la “svolta linguistica” attuata da Frege è criticata. Il ruolo che l’analisi del linguaggio svolge nella filosofia di Oxford è centrale, ma non può essere reso nei termini di una “svolta linguistica” per due ragioni. La prima è che il metodo praticato a Oxford è fortemente radicato nella tradizione: l’autorità riconosciuta alle distinzioni che si trovano nel linguaggio ordinario e l’assunzione di esso come punto di partenza della chiarificazione concettuale sono ricondotti da Ricciardi a un’eredità aristotelica, che si ritroverebbe già nelle scarne indicazioni metodologiche di Cook Wilson (p. 74). Certo i filosofi di Oxford non possono essere considerati degli aristotelici ortodossi; il loro è piuttosto un «aristotelismo “ideale”» (p. 75). C’è una seconda ragione per cui Ricciardi critica la tendenza a una classificazione unitaria della filosofia analitica quale filosofia “linguistica”, e cioè che nella prospettiva aristotelica appena menzionata l’analisi del linguaggio non esaurisce la filosofia, sebbene ne costituisca una premessa indispensabile (p. 141). Rimane infatti ancora il compito di «dare risposte plausibili ai problemi tradizionali della disciplina». Gli accenni all’opera di diversi autori che hanno influenzato il pensiero di Hart sono volti soprattutto a mettere in luce la rilevanza che hanno per essi i problemi tradizionali della filosofia. In nessun caso il loro orizzonte si limita a una «riflessione sulla natura del significato» come avviene in Frege e come sembrerebbe suggerito dalla tesi della “svolta linguistica”. A Oxford non si smette di occuparsi di metafisica, di giustificazione della conoscenza, di etica e le posizioni assunte dai più intorno a questi problemi – il realismo, la critica alla tesi empirista dei sense-data, il pluralismo etico e l’opposizione all’utilitarismo – hanno spesso un’eco nel pensiero di Hart o sono comunque importanti per comprenderne le articolazioni.
In una posizione apparentemente più defilata si trova la critica di due ulteriori preconcetti che hanno impedito, secondo Ricciardi, un’adeguata comprensione della filosofia di Oxford: la «infelice etichetta» (p. 37) di filosofia del linguaggio ordinario e la sopravvalutazione dell’influenza esercitata su di essa da Wittgenstein. Che non si possa parlare della filosofia di Oxford come di una delle incarnazioni della filosofia del linguaggio ordinario dipende sia da quanto detto sopra sia dalla mancanza di una categoria generale che ricomprenda le diverse presunte specie di filosofia del linguaggio ordinario. In particolare Ricciardi mostra che aldilà di una somiglianza superficiale, neppure troppo marcata, non c’è continuità tra la concezione della filosofia del secondo Wittgenstein e le analisi di filosofi come Austin e Ryle. La questione si rivela peraltro di cruciale importanza per uno studio più accurato delle fonti del pensiero di Hart. Molte delle affermazioni secondo cui gli scritti di Wittgenstein avrebbero giocato un ruolo decisivo nell’elaborazione delle idee più importanti de Il concetto di diritto riposano infatti – oltre che su un inventario parziale delle scarne indicazioni bibliografiche di Hart – proprio sull’assunto avversato da Ricciardi per cui ci sarebbe una “filosofia del linguaggio ordinario” di cui il filosofo austriaco è l’esponente principale. Credo che Ricciardi riesca a dimostrare che molte parti del libro di Hart possono essere spiegate indipendentemente da un’influenza wittgensteiniana, perché riesce a offrirne una ricostruzione plausibile sullo sfondo di una concezione dell’analisi filosofica caratteristica di Oxford.
Anche qui il modo di procedere di Ricciardi si articola in una parte filosofica e in una parte storica. Anzitutto vengono distinte tre diverse concezioni dell’analisi: l’analisi decompositiva, l’analisi trasformativa, l’analisi connettiva. La prima può essere esemplificata dalla separazione delle parti di un assemblaggio (pp. 127-128); la seconda richiama un processo chimico mediante il quale viene evidenziata la struttura inizialmente non visibile di una sostanza (pp. 128-129). Troviamo esempi di queste due specie di analisi soprattutto a Cambridge. Le terza specie è quella praticata a Oxford. Ricciardi fa alcune osservazioni importanti sulla prospettiva che questa classificazione dischiude. In primo luogo essa non assume che l’oggetto dell’analisi sia necessariamente il linguaggio: i primi lavori di G.E. Moore esemplificano una concezione dell’analisi come scomposizione di oggetti non linguistici (pp. 106-109). In secondo luogo l’analisi è un procedimento intellettuale che si trova sin dagli albori del pensiero occidentale, non è una scoperta del Novecento (p. 89). In terzo luogo i differenti modi di intendere l’analisi operano di fatto in maniera meno schematica di quanto questa classificazione potrebbe suggerire. A questo punto lo schema tracciato da Ricciardi torna a confrontarsi con la storia delle idee. Alcune sezioni dedicate a Russell – autore complesso e sfaccettato verso cui Ricciardi dimostra una familiarità notevole – illustrano come all’origine del più importante contributo del filosofo gallese alla storia del pensiero, la teoria delle descrizioni definite, si possa rintracciare una concezione decompositiva e trasformativa dell’analisi. L’attenzione dedicata a Russell si spiega alla luce dell’idea che per comprendere gli sviluppi della filosofia analitica britannica egli sia «il personaggio chiave della storia» (p. 127). In opposizione all’atomismo logico di Russell a Oxford viene messa a punto una concezione connettiva dell’analisi.
L’autore su cui Ricciardi ferma maggiormente l’attenzione è Peter Strawson, probabilmente il filosofo di maggior prestigio operante a Oxford dopo la prematura scomparsa di Austin. È negli scritti di Strawson che una concezione dell’analisi come connessione, anziché come decomposizione o trasformazione, emerge più chiaramente ed è a partire da qui che si può comprendere il significato che Hart attribuisce alla chiarificazione concettuale nel suo Il concetto di diritto. A differenza delle altre concezioni dell’analisi, quella connettiva non viene paragonata a operazioni semplici come la separazione delle parti di un oggetto o la dissoluzione di un composto chimico. L’analisi connettiva non affronta «i propri oggetti uno alla volta» (p. 98), non si occupa della struttura logica di singoli enunciati, ma mira a esplicitare le assunzioni sottese a parti del nostro linguaggio (p. 148). Sotto questo profilo essa si rivela fedele a una concezione tradizionale della filosofia (p. 149) e a quella che Ricciardi chiama l’eredità aristotelica di Cook Wilson. Il raffronto tra il pensiero di Strawson e quello di Hart mette capo ad alcuni risultati sorprendenti, e a questo proposito credo si possa affermare che l’opera di Ricciardi costituisca un genuino progresso nella comprensione di alcuni passi poco studiati, e talvolta ritenuti oscuri, del secondo. In particolare alcune affermazioni fatte da Hart nell’esposizione della tesi secondo cui è possibile rintracciare un contenuto minimo di diritto naturale trovano negli scritti di Strawson precisi riscontri verbali. Così Strawson, nel presentare le linee della propria nuova “metafisica descrittiva”, nota che essa si basa su pretese «più modeste e meno contestabili» rispetto alla metafisica «vecchia» (p. 67), e ne descrive la funzione come quella di rilevare «i fondamenti naturali del nostro apparato logico e concettuale» (p. 152). E proprio negli stessi termini Hart fornisce le ragioni del carattere minimo della sua apertura al giusnaturalismo4.
Il concetto di diritto appronta dunque secondo Ricciardi un’analisi del diritto che può ben definirsi connettiva. È in questa luce che vanno lette le pagine in cui il filosofo del diritto inglese espone il proprio progetto di una chiarificazione del concetto di diritto, come distinta da una sua definizione. Ed è in questa luce che la struttura del libro del 1961 assume contorni più chiari. Anche se le questioni verbali rivestono nel libro una indubbia importanza, Hart nega di considerare una definizione di “diritto” come un risultato desiderabile delle proprie analisi. Egli non si limita a fare della filosofia analitica, ma assume programmaticamente uno stile di analisi che si oppone all’atomismo logico di Russell e al neopositivismo, che a Oxford era rappresentato soprattutto da Alfred Ayer. Anche in questo caso l’interpretazione di Ricciardi è argomentata con numerosi riferimenti a scritti meno noti di Hart, che la letteratura recente ha spesso trascurato. L’immagine de Il concetto di diritto che emerge è quella di un’opera che segue un andamento dialettico (p. 177) in cui le aporie che sorgono dalla rilevazione dei diversi usi di “diritto” sono risolte «individuando gli assunti che le generano». Come Aristotele, Hart prende le mosse dalle opinioni disponibili circa una questione e dai modi di parlare diffusi in un gruppo sociale, ma si spinge più a fondo ritenendo che il compito del filosofo non sia solo di far luce sulle espressioni che usiamo per parlare dei fenomeni bensì sui fenomeni stessi.
Alcune delle usuali dicotomie della filosofia del diritto, come quella tra giuspositivismo e giusnaturalismo o quella tra discorso descrittivo e normativo non resistono, secondo Ricciardi, alla chiarificazione concettuale di Hart o ne vengono decisamente ridimensionate. Anche nel rifiutare un approccio dicotomico Hart si rivelerebbe tributario del metodo di lavoro dei filosofi di Oxford: in questo caso l’autore di riferimento è Isaiah Berlin (p. 185). Da questo punto di vista il giuspositivismo di Hart non è incoerente con l’affermazione che ci sarebbe un nocciolo di buon senso nelle dottrine giusnaturaliste (p. 181). La possibilità di escludere un’incoerenza dipende sia da un modo di intendere le relazioni tra giusnaturalismo e giuspositivismo5, sia da una ricostruzione del ruolo che il secondo occupa nel libro di Hart. Credo che sia soprattutto quest’ultimo aspetto a meritare attenzione. Come l’affermazione che Hart è un filosofo analitico non basta a rendere conto del suo metodo filosofico, l’affermazione che egli è un positivista non illumina, di per sé, la sua filosofia del diritto. La spiegazione di Ricciardi si basa sulla nozione di “criterio” spesso impiegata da Hart riguardo alla questione dell’appartenenza di una regola a un sistema giuridico. Tale nozione, ripresa da Wittgenstein, è essenziale per capire perché secondo Hart dovremmo sposare una prospettiva positivista sui requisiti di validità di una regola. La posizione di Hart al riguardo è nota: perché una regola sia valida non è necessario che essa soddisfi certe esigenze morali, è sufficiente che soddisfi uno dei criteri fissati dalla regola di riconoscimento del sistema. L’esistenza e il contenuto della regola di riconoscimento, e quindi di un sistema giuridico, dipendono da ciò che alcuni membri di un gruppo sociale fanno e dicono; si tratta di una questione di fatto: «il positivismo giuridico può essere considerato come l’atteggiamento adeguato per affrontare un problema fattuale» (p. 181). Il positivismo quindi è in grado di rendere conto del carattere convenzionale dei criteri di validità, ma non esaurisce le richieste di una chiarificazione del concetto di diritto. Anzitutto perché “diritto” e “sistema giuridico” non sono sinonimi (p. 178), poi perché non è detto che quel che vale a un livello dell’analisi valga anche a livelli diversi.
Sebbene in molti casi in cui ci chiediamo se qualcosa è diritto la risposta dipenda dal soddisfacimento di criteri determinati da una convenzione, non tutti gli usi di “diritto” possono essere spiegati in questo modo: l’idea che Hart adotti una teoria “criteriale” del diritto è smentita dalla considerazione che «[n]on c’è nel lavoro di Hart una spiegazione generale del significato» (p. 180). A un livello ulteriore di analisi occorre dunque occuparsi di «altri usi del termine che, pur non avendo rilevanza immediata dal punto di vista della conclusione di un contratto o della stesura di un testamento, ne hanno una teoreticamente pregnante, che riguarda la natura stessa del diritto» (p. 181). È a questa parte del lavoro di Hart che secondo Ricciardi bisogna ascrivere la tesi del contenuto minimo di diritto naturale. È interessante notare che lo spostamento su un terreno normativo che così si opera non comporta l’abbandono dell’intento descrittivo che, ancora nel Poscritto pubblicato postumo nel 1994, Hart assegna al proprio libro. In altre parole “descrittivo” non sarebbe da opporre a “normativo”: ancora una volta è il confronto con Strawson a chiarire la questione. Come la metafisica descrittiva di questi, la descrizione di Hart sarebbe tale perché si rimette all’autorità del linguaggio ordinario e rifiuta un atteggiamento “revisionista” (p. 241) e non perché si rifiuta di rispondere a domande normative.
La tesi sul contenuto minimo di diritto naturale è presentata da Ricciardi come il coronamento dell’analisi connettiva del diritto di Hart, ma anche come uno dei più cospicui risultati della filosofia di Oxford (p. 152). Nelle sue linee principali la tesi è sufficientemente nota agli studiosi della disciplina: alcune caratteristiche degli esseri umani e dell’ambiente in cui vivono, espresse da semplici ovvietà di cui nessuno potrebbe dubitare, costituiscono la ragione per cui dovremmo avere almeno un nucleo minimo di regole e istituzioni. Il modo in cui parliamo del diritto rivela il carattere necessario, ancorché condizionale, cioè relativo a una situazione di fatto che potrebbe essere diversa, di queste regole. Secondo Ricciardi nella tesi di Hart è contenuto un grande merito, ma anche un limite notevole. Il merito è di aver ricondotto alcune intuizioni diffuse sui contenuti costanti del diritto a un “fondamento naturale”, di aver cioè evidenziato un nesso tra valore del diritto e natura umana che la tradizione positivista ha in larga parte oscurato. Il limite è di non aver proseguito abbastanza in questa direzione e di non aver saputo dare seguito all’idea promettente che le semplici ovvietà costituiscano parti di ragioni per rispettare certe regole e gettino un ponte tra le descrizioni della natura umana e la forza normativa che possiedono alcune riflessioni sulla stessa. Tutt’al più Hart riesce a dimostrare che ciò che motiva le nostre scelte di azione è un interesse alla sopravvivenza largamente – o universalmente – condiviso.
Alle fine ciò che lascia un po’ perplessi nella tesi di Ricciardi è che il punto di osservazione privilegiato che il contenuto minimo di diritto naturale pare prima facie costituire si rivela a ben guardare illusorio. Da un lato Ricciardi sostiene che questa parte del libro di Hart rappresenta «il punto di arrivo di quello che per molti versi è un lavoro collettivo nel campo della filosofia morale da parte di alcuni dei filosofi che appartengono all’ambiente di Austin» (p. 183). Ma se il fulcro di questo lavoro collettivo si trova nell’idea che la fonte del valore è plurale e almeno in parte indipendente dai desideri e dalle opinioni degli individui, questa tesi di Diritto e natura sembra subire un’incrinatura. Dall’altro lato, infatti, Ricciardi per correggere e “completare” l’argomento di Hart si rifà a una linea di pensiero piuttosto estranea a Hart e rappresentata da autori come G.E.M. Anscombe, P. Foot, e M. Thompson6. Si può concludere che se le “ragioni” per avere certe istituzioni e regole si riducono, hobbesianamente, all’interesse personale e all’impulso alla sopravvivenza, la tesi del contenuto minimo di diritto naturale non offre alcun contributo al pluralismo etico e all’antiutilitarismo di Oxford. Se è vero che Hart aderisce alla «critica dell’idea che sia possibile trovare un criterio unitario del valore» (p. 46) presente in autori come Prichard, W.D. Ross e Berlin, non è tuttavia nella tesi sul contenuto minimo di diritto naturale che questa posizione emerge nel modo più chiaro. Poiché la tesi pluralista ha senza dubbio un ruolo decisivo in altre opere di Hart7 e in altre parti del libro del 19618, si potrebbe quindi dubitare dell’opportunità della scelta di assicurare una posizione centrale alla tesi sul contenuto minimo di diritto naturale. Tuttavia, come si è detto, secondo Ricciardi è proprio questa prospettiva che getta sulla concezione dell’analisi di Hart la luce migliore, svelando un’architettura ignorata della maggioranza degli studiosi. La chiarificazione del concetto di diritto muove dalla rilevazione di alcuni usi centrali di “diritto” cui ricorriamo quando desideriamo sapere quali sono le regole applicabili, che occupa i primi sei capitoli – i più studiati – del libro, ma passa poi a questioni più profonde, che riguardano la natura del diritto. Inoltre la costruzione stessa dell’argomento e la presentazione delle “semplici ovvietà” illustrano in modo paradigmatico l’operare di alcune delle idee fondamentali della filosofia di Oxford, e in particolare di Strawson. Quello che Hart secondo Ricciardi non sviluppa appieno, in parte a causa dell’influenza di Hobbes e Hume, è l’accenno alle ragioni che abbiamo di seguire regole con un determinato contenuto: il resoconto del modo in cui il desiderio di sopravvivenza determina le scelte di azione assomiglia piuttosto a una spiegazione causale (pp. 247, 250). Insomma, la tesi del contenuto minimo di diritto naturale è considerata da Ricciardi un ottimo banco di prova per l’“aristotelismo ideale” di Hart, e, più in generale, per una concezione del lavoro filosofico in cui emergono, quali tratti salienti, il riconoscimento dell’autorità del linguaggio ordinario (pp. 74-75) e «il legame tra la chiarificazione concettuale e la risposta a domande di carattere normativo» (p. 57), ma è anche, secondo Ricciardi, un’opportunità in parte mancata di mettere un’etica di ispirazione aristotelica al servizio di tali questioni normative.





NOTE


1 M. Jori, Hart e l’analisi del linguaggio ordinario (1979), in Id., Saggi di metagiurisprudenza, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 109-202.^
2 Sul pensiero giusfilosofico di Hart esiste una letteratura copiosa sia in lingua inglese che italiana. Tra i lavori italiani più recenti e documentati si segnala A. Schiavello, Il positivismo giuridico dopo Herbert L.A. Hart. Un’introduzione critica, Torino, Giappichelli, 2004 ^
3 M. Dummett, Origini della filosofia analitica, Torino, Einaudi, 2001^
4 H.L.A. Hart, The Concept of Law, London, Oxford University Press, 1961, p. 189.^
5 Su ciò si veda soprattutto il precedente scritto di Ricciardi, Diritto naturale minimo, in Filosofia analitica, a cura di A. Coliva, Roma, Carocci, 2007, pp. 379-401.^
6 Ma va detto che Hart conosce e utilizza Intention di Elizabeth Anscombe. Vedi H.L.A. Hart, Responsabilità e pena, a cura di M. Jori, Milano, Edizioni di comunità, 1981, pp. 141-162. Più in generale pare che tutta la filosofia dell’azione di Hart, che a Oxford trova precedenti in Ryle, Austin e nelle critiche di Berlin al comportamentismo di Ayer (pp. 53-54) fornisca spunti importanti per una caratterizzazione più ricca della tesi sul contenuto minimo, ma questi spunti sono lasciati cadere da Hart nella configurazione finale assunta dall’argomento. Si vedano le critiche di Ricciardi alle pp. 247-251.^
7 Si veda in particolare H.L.A. Hart, Responsabilità e pena, cit., in cui Hart critica aspramente il tentativo utilitarista di ridurre a un parametro di valutazione unitario le questioni complesse della giustificazione e della distribuzione della pena.^
8 Ricciardi menziona in particolare la distinzione tra giudizi di validità e giudizi di valore (p. 196) e, all’interno del secondo gruppo, la distinzione tra giudizi di giustizia e giudizi che riguardano (altri aspetti de) la bontà del diritto, cioè la sua conformità ai requisiti del contenuto minimo di diritto naturale (pp. 197-198).^
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