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Il segretario
di
G. G.
«Il segretario del Partito democratico sarà eletto dai cittadini»: punto. «Il designato alla segreteria del Partito democratico è Walter Veltroni»: di nuovo punto. «I cittadini eleggeranno Veltroni a segretario del Partito Democratico nelle primarie del partito convocate per il 14 ottobre»: punto e a capo.
Così un bello spirito nostro amico ha riassunto quello che a lui sembra il senso per nulla democratico della designazione e della relativa procedura elettorale per l’eligendo segretario del nuovo partito. L’ironia non nasce da uno spirito di contraddizione preconcetto. Ha un fondamento innegabile. Si parla, infatti, del primo segretario del Partito Democratico con una designazione che è provenuta dai vertici delle due componenti (Democratici di Sinistra e Margherita) fondatrici di tale nuovo partito. Tranne qualche timido e ristretto accenno del ministro Bersani, non si ha traccia di candidato alternativo. L’on. Rosy Bindi ha dichiarato che, se Veltroni non avesse accettato la designazione, ella non avrebbe mancato di farsi avanti per porre una sua candidatura in luogo di quella dell’eventuale rinunciatario. E ciò, se non ci inganniamo, significa che l’on. Rosy Bindi vede in Veltroni un candidato ottimo e insuperabile per l’elezione in questione, ma anche l’unico a possedere più di lei tali qualità , tanto che ella ha subito dichiarato pregiudizialmente, come si è detto, la sua eventuale candidatura. Può, però, significare anche che di fronte a una candidatura concorde delle due componenti del nuovo partito l’on. Rosy Bindi abbia giudicato insuperabile il candidato Veltroni proprio e soltanto perché espresso da una tale convergenza nella designazione; e può ancora significare che, a suo parere, una nuova designazione ugualmente concorde, nel caso di non accettazione di Veltroni, sarebbe molto difficile a ripetersi.
La procedura dev’essere apparsa un po’ peregrina nell’ambito stesso di coloro che l’hanno decisa e attuata, se all’indomani, o quasi, della designazione se ne è avuta l’eco di ripensamenti e di critiche. Il ministro Parisi – ad esempio – ha fatto sapere che avrebbe potuto anch’egli candidarsi alla segreteria democratica, se etc. etc. A sua volta, l’on. Fassino, certamente uno dei maggiori benemeriti nella costruzione del nuovo partito, proprio alla vigilia dell’accettazione di Veltroni esortava il ministro Bersani e il sottosegretario Letta a non porsi in alternativa al designato. Poi c’è stato qualche altro accenno di possibile candidatura. Finalmente, l’on. Letta ha annunciato la sua intenzione di candidarsi anch’egli, e altrettanto è sembrato fare Bersani. Lungi dal deprecare la moltiplicazione delle candidature, la riteniamo un bene.
Poiché crediamo pure, tuttavia, che, data la convergenza dei maggiori esponenti di Quercia e Margherita nella sua designazione, le possibilità di Veltroni rimangano nettamente superiori, fermeremo su di lui il nostro breve commento. Resta, naturalmente, difficile negare che aver proceduto, concordemente, a quella designazione da parte dei vertici delle due componenti del nuovo partito con un solo nome anziché con una coppia, per lo meno, o una terna di nomi, o con altre formulazioni di candidature plurime, abbia rappresentato un vulnus non trascurabile del principio proclamato tante volte, e ribadito anche in questa occasione, che il Partito Democratico avrebbe fatto onore al suo nome e sarebbe stato il partito della gente, non quello degli accordi al vertice tra oligarchie organizzate e potenti. Lo stesso Veltroni deve aver avvertito questa incongruenza e ha accennato nel suo discorso di accettazione alla possibilità non deprecata che vi siano altre candidature in concorrenza con la sua.
D’altra parte, si può comprendere agevolmente l’opportunità di dare subito l’idea che il nuovo partito era in grado di raggiungere sintesi interne tali da assicurare contro il rischio di lacerazioni e degenerazioni correntizie. E allo stesso modo si può agevolmente comprendere l’ancora maggiore opportunità di dare subito l’idea che le due componenti fondatrici si erano ormai davvero fuse e compenetrate l’una con l’altra, e che non sopravvivono come due anime del nuovo corpo da esse voluto, nascondendosi magari, ciascuna di esse, dietro una propria candidatura al ruolo di massima visibilità nella nuova formazione politica. Si può capire questo e altro, e, tuttavia, pensiamo che qualcosa di quel vulnus al quale abbiamo accennato sia rimasto in bella evidenza sull’orizzonte el neonato e ancora pargoletto partito.
In compenso, se la procedura è stata criticata ed è riuscita meno convincente di quanto si potesse sperare, la figura del candidato prescelto a tanto onore è stata oggetto di valutazioni pressoché universalmente positive (c’è stato appena qualche attacco della stampa di destra, e qualche commento acido negli stessi settori, e anche presso frange della sinistra).
L’uomo lo meritava. Dopo precedenti esperienze di governo, e quando tutti pronosticavano una dura lotta fra lui e altri per ruoli politici diversi, seppe fare la scelta intelligente di dedicarsi al municipio romano, riuscendo a qualificarsi tra i sindaci italiani di maggiore e meno discusso profilo. In questo ruolo “locale†ha avuto la saggezza di interferire e interloquire, tutto sommato, assai poco, appena l’indispensabile o l’inevitabile, nelle questioni non tanto della politica nazionale quanto della discussione interna alle forze della sua parte politica. È riuscito così a non essere affatto assente sulla scena politica nazionale, senza, però, immergersi troppo nel mare della conflittualità inesauribile di partito e di coalizione. Una grande attenzione al mondo cattolico e ai problemi che esso discute, un molto esibito ma non volgare interesse per l’Africa povera e dolente, una costante presenza sui temi artistici e culturali e varie idee di iniziative al riguardo (si pensi all’idea della mostra del cinema a Roma, ad esempio), insomma la continua testimonianza di una tensione vigile e propositiva hanno poi contribuito a fare del sindaco di Roma una personalità di sicuro prestigio non solo nel mondo politico italiano, bensì anche in un ben più vasto ambito sociale.
«Non è mai stato comunista», ha scritto qualche giornale. La notizia ci lascia perplessi. Veltroni ha appartenuto al Partito Comunista Italiano fino a che esso è esistito, vi ha avuto ruoli di rilievo, a partire da quelli nella Federazione Giovanile Comunista, e si sa che la militanza comunista non era fatta per sonnambuli o alieni. Vero è, invece, che negli scorsi anni ’90 egli si proclamava prima kennediano; poi, a distanza di pochissimo tempo, clintoniano. Per chi, come noi, ha un’alta considerazione della creatività anche ideologica della democrazia americana, dichiarazioni come queste sono rassicuranti, ma anche impegnative. E, comunque, sono parole molto più comprensibili e decisamente preferibili (anche dal punto di vista di una logica e dignitosa evoluzione politica di cui si voglia dare l’idea) rispetto alle parole di quelli che ostentano il loro democratismo a ogni pie’ sospinto e lo associano, in improbabili combinazioni, a prese di posizione lontane dalla logica democratica ed equivoche nel rapporto che lasciano intravedere, o, meglio, non lasciano intravedere, tra il loro presente e il loro passato politico.
Le prime dichiarazioni rese dal candidato segretario nel suo discorso di accettazione della candidatura a Torino non appaiono, peraltro, ispirate da una carica particolare, e ciò sia dal punto di vista kennediano che da quello clintoniano. Qualcuno ha detto: “di tutto un po’â€. Qualche altro ha detto che si trattava solo di parole, e che Veltroni aveva voluto apparire con esse sensibile e vicino ai temi della sinistra radicale. Il centro-destra ha piazzato anch’esso il suo colpo, rilevando che i punti programmatici enunciati da Veltroni erano soltanto una copia di quelli più propri dello stesso centro-destra. Non si è avuto, insomma, un discorso di quelli che fanno grande impressione e che si segnano nella memoria con tutta evidenza anche a distanza di tempo. Ma – ecco la nota positiva – è apparso chiaro e ha richiamato l’attenzione il tono del discorso: un tono di grande apertura, di determinazione a promuovere una vasta aggregazione senza che ciò debba dare forzatamente luogo a una mescolanza confusa di prospettive e di punti di vista. Ed è, a nostro avviso, una buona cosa, a patto appunto che l’ampiezza dell’aggregazione non vada a discapito della chiarezza degli obiettivi da perseguire e delle relative strategie.
Tuttavia, ciò potrebbe, per ora, per l’immediato, contare ancora poco. È chiaro che Veltroni deve fare un rodaggio che non si può esaurire nelle formalità dell’accettazione e dei discorsi di circostanza. Dalla riuscita di tale rodaggio dipenderà molto, se non tutto, delle fortune della candidatura Veltroni. Ed è a questo che si dovrebbe pensare nella coalizione che lo designa. Non sembra, invece, che sia proprio così, se si è potuto anche affacciare l’idea che la sua candidatura abbia un significato più recondito, e, cioè, un occulto disegno di liberarsi, mediante lui, di Prodi, magari prima del tempo, d’onde la “battuta†di Berlusconi sulla sorte di Prodi che attenderebbe il candidato segretario. Più Veltroni si dimostrerà alieno da tatticismi e opportunismi, più il rischio di veder diminuita la sua candidatura in un gioco meschino, pro o contro il governo, svanirà . E anche ciò va messo nel conto della difficoltà del compito che lo attende.
Il fatto, però, che egli abbia dichiarato subito che il ruolo di Prodi era fuori discussione, che il governo e la sua maggioranza devono durare fino al 2011 e, soprattutto, che alle sorti di questo governo e maggioranza sono legate quelle del nascente Partito Democratico si può capire come immediato esorcisma delle voci e delle tentazioni che (lo abbiamo già accennato) lo danno come arma più o meno propria o impropria per liberarsi di Prodi il prima possibile. Non si può capire, invece, come linea del Partito nascente e del suo candidato, ai quali si richiedono innanzitutto, nell’opinione pubblica, segnali e dimostrazioni di soluzione di continuità rispetto a un’esperienza politica come quella di cui il governo Prodi (uno dei meno amati dagli Italiani, anche a prescindere dai suoi meriti e demeriti) e la sua maggioranza sono, appunto, la codificazione. Non è detto che soltanto al Nord – come presumono le sempre presuntuosissime diagnosi e prognosi della Lega di Bossi – si cominci a pensare troppo presto che Veltroni sia solo la nuova etichetta di un prodotto politico ben noto per essere stato fabbricato in innumerevoli edizioni e variazioni nelle farmacie romane.
A noi, per dirla tutta, non è apparso positivo neppure che egli annunciasse subito che per il suo nuovo incarico egli non lascerà la poltrona di sindaco di Roma. Quello di cui il nuovo partito ha più bisogno anche per convalidare le sue aspirazioni – se vi sono – non solo di affermazione elettorale, ma di costruzione di una grande e nuova forza politica è di presentare alla sua guida una personalità , un uomo che si impegni tutto nel compito di questa guida, ne faccia lo scopo esclusivo del suo impegno politico, giochi – sulla scommessa della sfida a far cambiare radicalmente le carte in tavola della politica italiana – tutte le sue fortune, dia il senso di intendere la sua accettazione e l’assolvimento dell’incarico di capo politico di “quella†forza politica come una missione, come la grande missione della sua vita politica, il manifest destiny di Walter Veltroni. Se il nuovo incarico si prospetta come il secondo lavoro di un uomo politico già con un ruolo definito più che esaustivamente da un impegno come quello del sindaco di Roma (o anche come il primo lavoro di due, di cui il municipio della metropoli capitale d’Italia rappresenti il secondo), temiamo fortemente che la meta diventerà più difficile in termini politici e, soprattutto, nelle sue proiezioni e ricadute in termini di passione politica e ideale da costruire come dimensione irrinunciabile ed essenziale di tale nuova forza politica.
Veltroni non ha bisogno che gli si ricordi che cosa sono le emozioni, le passioni, i sentimenti, perfino le illusioni nella politica. Sa che senza questo collante la politica varrebbe fatalmente molto di meno del moltissimo che può sempre valere (e che, contrariamente a quanto fin troppo spesso accade, e a quanto in particolare accade oggi fin troppo visibilmente anche in Italia, riesce sempre a valere quando è forte soprattutto la sua carica umana). Sa che nella logica di questo collante contano molto le parole, ma contano di gran lunga di più simboli, gesti, atti anche di apparentemente minimo rilievo. Egli ha, fino ad ottobre, tempo sufficiente per calibrare al meglio la sua azione a esigenze più profonde e più durature di quelle comprensibili e, almeno in parte, inevitabili del primo momento di una designazione come la sua e del rito della sua accettazione. È chiaro che, superato il momento dell’avvio e le relative cerimonie, si impone poi l’esigenza, più ancora: l’attesa, di un momento davvero e sostanzialmente inaugurale, con le sue diverse, ma non meno ineludibili esigenze rituali, che, come sempre in politica non più che nella vita ociale e nella vita privata, non sono esteriorità senza sostanza. Sono, invece, una componente indispensabile della più profonda e determinante sostanza. E sono un problema delicato, tanto che, se anche vi sono, ma si riducono, appunto, a vuote esteriorità , viene meno la stessa sostanza, come una inesauribile esperienza e casistica storica ampiamente e indiscutibilmente dimostra.
Il nostro augurio è che Veltroni si collochi fin da subito ai livelli superiori dell’azione politica. Ne verrà soltanto bene (un bene di cui si ha tanto necessarissimo bisogno) a tutta la vita italiana, per chi – come noi – crede al tentativo del Partito Democratico e per chi lo avversa, per chi è per Veltroni e per gli altri. Lo si vede già negli stessi commenti che nel centro-destra hanno subito parlato di necessità di rivedere la propria strategia in conseguenza della sua designazione. E ciò, indubbiamente, accresce la responsabilità di Veltroni, senza bisogno che anche questo gli sia ricordato.
Ci sono poi, naturalmente, i punti specifici del programma, i punti strategici e tattici che danno corpo a un programma. Non ci fermiamo ora su quanto Veltroni ha detto nel discorso di accettazione. Sarà meglio farlo quando, in vista delle primarie di ottobre, egli dovrà parlarne in modo più specifico, personale e impegnativo. E l’idea del giro d’Italia che egli ha annunciato di voler fare per dar conto e ragione della sua candidatura a segretario del nuovo partito è certamente, anche da questo punto di vista, una buona idea.
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