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Sull'origine della parola "partitocrazia"
di Maurizio Griffo
Sull’origine della parola “partitocrazia”
1. Una datazione controversa
In queste note non intendiamo operare una messa a punto propriamente
lessicografica, ma solo svolgere alcune considerazioni di carattere generale sull’origine
di una parola che è entrata ormai nell’uso, il sostantivo «partitocrazia
». A tal proposito sarà opportuno cominciare, però, proprio da alcune definizioni
tratte da vocabolari.
Il Grande dizionario della lingua italiana (GDLI) definisce la partitocrazia
come «una degenerazione del sistema democratico-parlamentare» nella quale
i partiti «si ingeriscono nella gestione delle strutture amministrative dello
Stato» svolgendo «in modo politicamente irresponsabile e a vantaggio dei partiti
stessi […] funzioni pubbliche e sociali che non sono di loro competenza».
Il GDLI non dà però ragguagli sull’origine del termine, limitandosi a citare alcune
fonti giornalistiche degli anni Ottanta del secolo scorso, pertanto coeve
alla pubblicazione del volume in cui è contenuta questa voce, uscito nel 19841.
Analoga ma più succinta la definizione del Grande dizionario italiano dell’uso
(GDIU), pubblicato nel 1999, dove la partitocrazia è una «degenerazione
del sistema politico per cui il potere reale si accentra negli organi dirigenti
dei partiti a scapito del parlamento e del governo». In questa sede troviamo
un’indicazione cronologica sulla prima attestazione della parola: 19462. Un’indicazione
che trova una specificazione ulteriore in due importanti dizionari
etimologi pubblicati rispettivamente nel 1975 e nel 1985. Nel Dizionario etimologico
italiano (DEI), accanto a una definizione, fin troppo ellittica, di partitocrazia
«dominio d’un ‘partito’ politico», troviamo la stessa data del 1946
1 Grande dizionario della lingua italiana, fondato da S. Battaglia, diretto da G. Bárberi-
Squarotti, Torino, Utet, 1961-2002 (21 volumi), ad vocem.
2 Grande dizionario italiano dell’uso, ideato e diretto da T. De Mauro, Torino, Utet,
1999 (6 volumi), ad vocem. Non dà una precisa datazione, limitandosi a parlare di un
termine nato «dopo la seconda guerra mondiale»; Gianfranco Pasquino nella voce
Partitocrazia, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (diretto da), Dizionario di politica,
Torino, Utet, 2004, pp. 691-693, cui si rimanda per una classica trattazione politologica.
La citazione fra virgolette è a p. 691.
397
ma con aggiunto il nome di quello che viene ritenuto l’inventore del termine:
A. Labriola3. A sua volta il Dizionario etimologico della lingua italiana (DELI),
dopo aver definito la partitocrazia come il «predominio del sistema dei partiti
che si sostituiscono alle istituzioni rappresentative nella direzione della vita
politica nazionale», ribadisce la stessa indicazione cronologica e autoriale:
«vocabolo coniato da A. Labriola, 1946», rinviando però a una precisa fonte
bibliografica, uno scritto di Bruno Migliorini apparso nel 19504. In quest’altra
fonte, la definizione che Migliorini dà della partitocrazia è la seguente: «vocabolo
coniato da A. Labriola, 1946. Degenerazione della democrazia, che
consiste nella monopolizzazione del potere esercitata dalle segreterie dei partiti
(dei partiti al plurale: diversa dunque dallo strapotere dello Stato-Partito,
che è tutt’altra cosa)»5.
Migliorini non lo specifica, ma il riferimento è a un articolo giornalistico
che Arturo Labriola pubblicò sul quotidiano «Il Tempo» del 24 luglio 1946
intitolato appunto Partitocrazia6. Va detto subito, però, che l’attribuzione potrebbe
essere impropria. Nel corso dell’articolo Labriola, infatti, non usa la
parola partitocrazia e il titolo potrebbe essere stato deciso in base ad una scelta
redazionale.
Come che sia di ciò, questa attestazione ne smentisce un’altra che risale a
una diversa fonte. Si ritiene spesso che a coniare la parola sia stato il giurista
e storico Giuseppe Maranini. Ancora nel 1995 Angelo Panebianco reputava
questa paternità un fatto assodato. Tanto da osservare prima che Maranini era
l’«inventore del termine “partitocrazia”», e successivamente che fu proprio lui
«a coniare quel termine “partitocrazia”, che tanta fortuna ha avuto nell’Italia
degli ultimi anni»7.
L’affermazione di Panebianco, formulata ripresentando un famoso libro
maraniniano, non fa che riprendere una convinzione diffusa tra gli allievi dello
studioso. Nel 1983, infatti, Silvano Tosi osservava che partitocrazia era «un
termine coniato da Maranini verso la fine degli anni Quaranta»8. Il riferimen-
3 C. Battisti, G. Alessio, Dizionario etimologico italiano, Firenze, Barbèra, 1975 (5
volumi), ad vocem.
4 M. Cortelazzo e P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli,
1979-1988 (4 volumi), ad vocem. Il terzo volume, quello nel quale è contenuto
il lemma citato, è stato pubblicato nel 1985.
5 B. Migliorini, Parole nuove. Appendice di dodicimila voci al «Dizionario moderno
» di Alfredo Panzini, Milano, Hoepli, 1963, p. 212. Citiamo qui una successiva ristampa
del lavoro di Migliorini originariamente pubblicato nel 1950.
6 Cfr. G. Di Capua, Un libertario nelle istituzioni. Arturo Labriola dall’antifascismo
alla Repubblica, Napoli, Simone, 1999, pp. 112-113, che dà l’indicazione dell’articolo,
ma non ne specifica il titolo.
7 A. Panebianco, Prefazione a G. Maranini, Storia del potere in Italia 1848-1967,
Milano, Corbaccio, 1995, p. II.
8 S. Tosi, Attualità di Giuseppe Maranini, interlocutore necessario del dibattito istituzionale,
in G. Maranini, Storia del potere in Italia 1848-1967, Firenze, Nuova Guaraldi,
1983, p. XI. Nello stesso senso anche C. Fusaro, Appendice di aggiornamento,
ivi, p. 545.
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to di Tosi, per quanto generico, rimanda a un intervento ben noto agli specialisti,
la prolusione di Maranini al suo corso universitario del 1949, intitolata
appunto Governo parlamentare e partitocrazia, un testo con il quale egli fissava
in termini precisi quello che, a suo avviso, doveva essere l’ambito di discussione
sulla partitocrazia9. Possiamo dire, perciò, che l’attribuzione di paternità
deriva da una quasi automatica e irriflessa deduzione. Definire l’ambito concettuale
del termine e adoperarlo con tenacia nel dibattito pubblico, nonostante
le ostilità e le ripugnanze di molti, come il costituzionalista dell’ateneo
fiorentino fece per molti anni, ha finito per fargli attribuire anche l’invenzione
della parola. D’altronde lo stesso Maranini, sia pure solo indirettamente,
ha contribuito ad alimentare questa opinione. In una nota proprio della Storia
del potere, Maranini osserva che il problema «della partitocrazia fu, credo,
per la prima volta in Italia, denunciato in sede scientifica nel discorso inaugurale
dell’anno accademico dell’università di Firenze, nel 1949»10.
Tuttavia è da tempo appurato che la prima attestazione della parola partitocrazia
è anteriore tanto alla prolusione maraniniana del 1949 che all’articolo
di Labriola. Essa si ritrova, infatti, in un libro di Roberto Lucifero sulla legislazione
elettorale pubblicato nel 1944. L’ultimo capitolo del volume si intitola
appunto «La partitocrazia»11. Dal punto di vista della nascita del termine
la faccenda può ritenersi, almeno provvisoriamente, risolta: la parola partitocrazia
non venne coniata nel 1946 ma almeno due anni prima. Come ben sanno
i lessicografi, la data di nascita di una parola non è mai definitiva, soggetta
com’è a nuove possibili retrodatazioni. Anche il fatto che questa prima occorrenza
sia stata appurata da uno storico e non da un linguista si spiega con la
metodologia seguita. I neologismi si presentano più di frequente sulla stampa
quotidiana e periodica che nei libri. Pertanto è logico che Migliorini abbia
considerato probante un titolo di giornale, senza preoccuparsi di vagliare la
pubblicistica politica precedente. Data l’enorme mole di documentazione disponibile,
il lavoro lessicografico deve necessariamente procedere per approssimazioni
successive. D’altronde, il termine “partitocrazia” è esemplato su parole
composte nello stesso modo e largamente diffuse (“democrazia”, “buro-
09 La lezione inaugurale al corso del 1949 venne stampata originariamente in G.
Maranini, Miti e realtà della democrazia, Milano, Comunità, 1958, pp. 39-63; recentemente
è stata riproposta in appendice ad un volume dove si pubblicano per la prima
volta le dispense di quel corso, G. Maranini, La Costituzione degli Stati Uniti d’America,
a cura di E. Capozzi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 253-274. Le citazioni
che seguono nel testo sono tratte tutte da quest’ultima edizione.
10 G. Maranini, Storia del potere in Italia, cit., 1983, p. 431.
11 R. Lucifero, Introduzione alla libertà. La legge elettorale, Roma, O.E.T., 1944,
pp. 157-160, ma vedi anche p. 151. Sulla paternità di Lucifero cfr. G. Quagliariello, Il
partito e la forma di governo nella riflessione dei liberali e degli azionisti nella stagione
costituente, in S. Labriola (a cura di), Valori e principi del regime repubblicano. 1. I Sovranità
e democrazia, tomo primo, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 99 n.; ci sia consentito
di rinviare anche a M. Griffo, Giuseppe Maranini e la costituzione americana, in
«L’Acropoli», 5 (2004), p. 576.
399
crazia”, “plutocrazia”, etc.). Per questa ragione non è illogico ipotizzare una
origine policentrica della parola, inventata e diffusa in varie occasioni e circostanze,
in un breve arco di tempo, per descrivere efficacemente un fenomeno
che si presentava con caratteri di novità.
Come si vede la datazione lessicale non esaurisce il problema storico dell’origine
del termine e richiede una ulteriore messa a punto. Al di là dell’esatta
datazione, infatti, si può affermare con certezza che nel dibattito italiano di
quegli anni il termine partitocrazia non solo comincia a circolare, ma viene
adoperato con una certa frequenza. La diffusione della parola, che ha da subito
una connotazione negativa, si può spiegare facendo riferimento a una più
generale temperie storica. Come è stato giustamente osservato
alla ripresa della vita democratica […] la frattura tra i promotori di una democrazia
di massa fondata sul partito politico e quanti invece rimasero ancorati alle forme
elitarie proprie dell’Italia liberale, si antepose all’esplicarsi del cleavage classico
destra/sinistra e di quello istituzionale monarchia/repubblica»12.
Allora, più che il campo semantico in sé converrà tenere presente il quadro
politico e la posizione che ciascun autore assumeva rispetto alla forma-partito.
A tal proposito, per rendere il senso della discussione, basterà fare alcuni
esempi. Nel 1945, proprio in polemica con Lucifero, nel dibattito preparatorio
sulla legge elettorale per la Costituente che si svolse alla Consulta nazionale,
Lucio Mario Luzzatto, socialista, osservava polemicamente: «È stato detto
che la democrazia dovrebbe salvarsi come dal peggiore suo nemico dalla partitocrazia
». Tale contrapposizione a parere di Luzzatto, era pretestuosa perché
«i partiti sono lo strumento della democrazia e non si contrappongono al
demos come partitocrazia in luogo di democrazia». Questa generica dichiarazione
si sostanziava poi in un preciso riferimento al partito di massa come necessaria
incarnazione dell’idea di partito: «attraverso i partiti si esprime la volontà
popolare, si definiscono i programmi secondo i quali ciascun elettore dà
il suo voto, la sua adesione». Per converso «senza partiti organizzati e senza
voto esercitato attraverso l’intermediario dei programmi e delle presentazioni
di candidati fatte dai partiti, non si è avuta finora effettiva democrazia». Al
fondo di questa critica stava un’accusa di demagogia e di qualunquismo verso
coloro che denunciavano la partitocrazia usando una parola nuova: «i nuovi
termini destano sospetto anche perché sono stati usati già più volte, per fare
una politica a più facile effetto»13. La posizione espressa da Luzzatto merita
di essere segnalata perché essa fissa, in modo paradigmatico, quelli che sa-
12 G. Quagliariello, Storia dei partiti e rinascita dei partiti nel secondo dopoguerra
(1945-1956), in E. Guccione (a cura di), Strumenti didattici e orientamenti metodologici
per la storia del pensiero politico, Firenze, Olschki, 1992, p. 176. Per un più ampio
riferimento interpretativo di questa notazione vedi la bibliografia ivi citata.
13 Intervento del 14 febbraio 1946, Atti Della Consulta Nazionale, p. 697. Ringrazio
la dott.sa Campochiaro dell’Archivio storico del Senato della Repubblica che mi
ha gentilmente messo a disposizione una copia informatica degli atti della Consulta.
400
ranno gli argomenti adoperati contro le accuse di partitocrazia nei decenni a
venire. Essa contrapponeva polemicamente alla politica «fatta dalle clientele»
la politica «fatta dalle idee», alla politica «fatta dai favori personali quella fatta
«con programmi concreti di ricostruzione e di riforma»14, al fine di veicolare
la superiorità storica dei partiti di massa e di integrazione sociale, presentati
come un gradino più alto in una sorta di necessaria evoluzione della specie.
A questa presa di posizione se ne può accostare un’altra, la quale, per quanto
più concisa, illustra efficacemente il senso dell’invettiva antipartitocratica
in quel torno di tempo. Benedetto Croce, in una lettera del 7 giugno 1948, a
proposito del dibattito sulla riduzione della facoltà di voto segreto in Senato,
osservava che «quel che induce ora a chiedere, come si chiede, una diminuzione
della segretezza del voto, non è di certo la cattiveria degli uomini di governo,
ma è la partitocrazia e l’origine delle assemblee dalla proporzionale, che
continuano a dare i loro frutti insidiando e corrompendo la libera vita parlamentare
»15. Come si vede Croce esprime una posizione che è quasi speculare
a quella di Luzzatto, non tanto rivendicando la nobiltà della politica notabilare,
ma individuando un collegamento preciso tra la rappresentanza proporzionale,
il partito di massa e la decadenza del parlamentarismo.
All’interno della cornice ideale che queste due citazioni tratteggiano converrà
ora illustrare, sia pure per sommi capi, le posizioni dei tre autori considerati
all’inizio per vederne i punti di convergenza e le innegabili discrepanze,
tentando, al tempo stesso, di fissare l’evoluzione delle rispettive posizioni
in quel periodo.
2. Fuori dal C.L.N.
In premessa si può rilevare come il fatto che tutti e tre gli autori che per
primi denunciano la partitocrazia si collocano in una posizione eterodossa rispetto
al nascente assetto politico italiano. Lucifero non approda subito al
PLI, ma aderisce a un piccolo movimento politico di orientamento monarchico
come il Partito democratico italiano, che solo nell’ottobre 1946 confluirà
nel Partito liberale16. Labriola era un sindacalista rivoluzionario, che si definiva
socialista, ma era lontano dal partito. Anzi aveva motivi di polemica personale
con i dirigenti socialisti e più in generale con gli uomini politici tornati
dall’emigrazione17. Maranini, a sua volta, subito dopo la caduta del fascismo è
14 Ibidem.
15 B. Croce, Nuove Pagine sparse, vol. 1, Bari, Laterza, 1966, seconda edizione ordinata
dall’autore, pp. 435-6.
16 Un’ottima ricostruzione delle posizioni politiche di Roberto Lucifero in E. Capozzi,
Un conservatore nella «repubblica dei partiti». Roberto Lucifero e il dibattito politico-
istituzionale del dopoguerra, in «L’Acropoli», 7 (2006), pp. 302-324.
17 Su questi aspetti, in particolare riguardo alle decisioni che portarono alla sua
esclusione dalla Consulta nazionale, cfr. G. Di Capua, Un libertario nelle istituzioni.
Arturo Labriola dall’antifascismo alla Repubblica, cit., pp. 75-89. Sul sindacalismo ri401
tra i fondatori e gli animatori del Partito socialista del Lavoro, una effimera
formazione politica che ebbe breve vita in Toscana all’indomani del 25 luglio18.
D’altronde anche quando successivamente sarà vicino al partito socialista
e poi, dopo la scissione di palazzo Barberini, alla socialdemocrazia Maranini
resterà sempre estraneo alla ortodossia ciellenista19.
Se Maranini comincia a parlare di partitocrazia solo nel 1949 questo non
vuol dire che le sue convinzioni sul tema dei partiti maturassero d’improvviso.
Come lui stesso ricorderà in seguito, la prolusione del 1949 era una messa
a fuoco ultima con la quale «davo forma più organica agli spunti polemici già
contenuti in numerosi miei scritti d’occasione, pubblicati fra il gennaio 1945
e il giugno 1947, nel settimanale fiorentino “L’Arno”»20. Per quanto questa testimonianza
costituisca in parte una razionalizzazione a posteriori essa contiene
anche un importante nucleo di verità. In particolare in un articolo comparso
il 28 luglio 1946 e intitolato significativamente Totalitarismo dei partiti21, al
centro dell’attenzione di Maranini è appunto il ruolo del partito politico nel
determinare la crisi delle democrazie liberali e l’avvento dei totalitarismi. «Il
totalitarismo – sostiene Maranini – altro non è se non l’esasperazione estrema
della dominazione di partito e dello Stato ad opera del partito»22. Anche il fascismo
potette affermare il suo dominio non tanto abbattendo «le strutture
dello Stato liberale», ma soprattutto tramite la «grave realtà della dominazione
del partito, chiave di volta di tutto il sistema. Il partito dava e toglieva il diritto
di lavorare, di ottenere giustizia, di svolgere qualunque attività nell’ingranaggio
sociale, di vivere»23. Lo stesso valeva per il totalitarismo comunista. In
Russia, ricorda Maranini «lo Stato può affermarsi democratico, anzi ultrademocratico,
organizzarsi attraverso una molteplicità di consigli, consultare periodicamente
il popolo attraverso il suffragio universale. Non importa. Il potere
effettivo rimane tutto nelle mani del partito, e per questo il regime rimane
un regime assoluto»24. Questa analisi di carattere generale sul totalitarismo
voluzionario di Labriola e sulle sue posizioni fino al rientro in Italia nel 1935 si può
consultare sempre con profitto D. Marucco, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario,
Torino, Fondazione Einaudi, 1970. In particolare, per le divergenze all’interno
dei fuoriusciti cfr. ivi, p. 313.
18 Su questi aspetti cfr. E. Capozzi, Il “momento maraniniano”: un’idea di costituzione
attraverso l’Italia del Novecento: in «Quaderni costituzionali», 23 (2003), p. 861.
19 Va notato che tanto Labriola quanto Lucifero furono eletti alla Costituente in
raggruppamenti marginali rispetto ai partiti principali. Il primo nella file dell’Unione
democratica nazionale, il secondo nel Blocco nazionale della libertà.
20 G. Maranini, Storia del potere in Italia, cit., 1983, p. 431. Su questo cfr. T.E. Frosini,
Maranini e il progetto di «Alleanza Costituzionale», in «Nuova Antologia», lugliosettembre
1996, p. 294.
21 Ora in G. Maranini, Socialismo non stalinismo, con prefazione di G. Saragat, Firenze,
All’Insegna di Alvernia, 1949, pp. 91-97.
22 Ivi, p. 91.
23 Ivi, p. 92.
24 Ivi, p. 93.
402
si assortisce a una considerazione di stretta attualità politica sulla filiazione dal
fascismo della situazione politica italiana «in verità noi abbiamo migliorato la
nostra situazione rispetto a quella del tempo fascista solo in quanto abbiamo
sostituito al partito unico una concorrenza di partiti nel cui urto l’asprezza delle
opposte cupidigie si ottunde», fatto che consente al cittadino una specie di
zona di respiro neutra, una sorta di terra di nessuno «dove, a tutto suo rischio,
gli è concesso di avventurarsi in cerca di libertà». Ma una simile situazione non
configura un assetto pienamente libero, perché «in verità il sistema totalitario
è solo frazionato, non ripudiato». In altri termini «i partiti fanno tutto: distribuiscono
lavoro, uffici, possibilità di vivere in un paese desolato e affamato».
Anzi più che i partiti sono «le segreterie dei partiti» che «tengono tutto il potere,
spartendoselo»25.
Questa diagnosi dell’assetto politico dell’Italia del tempo è del tutto analoga
a quella formulata da Lucifero e da Labriola. In un suo volume pubblicato
nel 1945, Labriola osserva che all’indomani della ripresa della vita libera si è
formata «quella specie di trust di partiti, che sono i Comitati di Liberazione
Nazionale»26. Non si tratta, a suo parere, di un fenomeno pienamente democratico,
ma di una manifestazione che si pone in continuità con il recente passato.
Posto che il «fascismo non è, in sostanza, se non un fenomeno di superstatalismo
»27, l’emergere di un «trust dei partiti», che si assume il monopolio
«delle cariche, dei vantaggi, dell’opinione e della libertà, non è che un duplicato
del partito unico, esso è insieme statalismo e fascismo sbattezzato; una novella
insidia alla libertà degli uomini»28. E questo proprio perché «il trust dei
partiti è nato nella tradizione fascista del partito unico»29.
La continuità fra la realtà contemporanea e quella precedente è delineata
con nettezza anche da Lucifero. Questi appunta le sue critiche, però, non direttamente
sul CLN bensì soprattutto sui partiti di massa, che «hanno introdotto
l’uso deplorevole di rendere impossibile il trovar lavoro a coloro che non
hanno la loro “tessera”», una tendenza che ha conosciuto la più conseguente
applicazione «nei paesi così detti totalitari, dove a coloro che non appartenevano
al partito dominante era addirittura inibito il lavoro». Il singolo cittadino
si trovava perciò di fronte alla poco allettante alternativa di «assoggettarsi
al partito, anche se non se ne condividevano menomamente le premesse programmatiche,
o morire di fame»30.
Come si vede l’assonanza è così forte da far sospettare un’influenza reciproca
se non fosse più semplicemente una comune reazione alla esperienza negativa
del fascismo che non si voleva riproposta in forme diverse nel nuovo as-
25 Ivi, p. 95. Nello stesso senso anche l’articolo Il voto ai lavoratori, pubblicato sul
settimanale «L’Arno» del 27 ottobre 1946, ora in G. Maranini, Socialismo non stalinismo,
cit., p. 129.
26 A. Labriola, Salvate l’Italia!, Roma, Editrice Faro, 1945, p. 67.
27 Ivi, p. 55.
28 Ivi, p. 71.
29 Ivi, p. 70.
30 R. Lucifero, Introduzione alla libertà. La legge elettorale, cit., pp. 119-120.
403
setto della vita pubblica. Tuttavia, pur in una convergenza così netta di motivi
e di argomenti, che sembrano riecheggiarsi fra di loro, emerge una diversità
di approccio al tema.
Maranini, infatti, specifica subito che «il problema dei partiti politici» è
quello «della posizione che devono occupare nello Stato»31. A tal fine si propone
una duplice soluzione. In primo luogo quella di assicurare la democrazia
all’interno delle organizzazioni politiche («democratizziamo dunque i partiti
»); in secondo luogo quella di garantire che le loro funzioni non esorbitino
da ben precisi limiti: «i partiti devono essere grandi correnti di opinione, e devono
avere la possibilità di organizzare i mezzi di diffusione delle opinioni, ma
non altro»32. Soprattutto occorre assicurare le condizioni per cui lo Stato possa
«affrancarsi da ogni forma di dominazione dei partiti»33. Questa sollecitudine
per una regolazione pubblica dei partiti non è presente né in Lucifero né,
tantomeno, in Labriola. In altri termini, anche in quest’aurorale analisi che il
costituzionalista dell’ateneo fiorentino fa della partitocrazia abbiamo una prima
manifestazione di «quella esigenza di statualità» che sempre avrebbe connotato
«l’accezione maraniniana del termine»34.
Per converso occorre notare che in Lucifero, e anche in Labriola, la critica
alla partitocrazia si accompagna ad una critica alla proporzionale più energica
di quanto non avvenga in Maranini. Anche se a quella data è già un fautore dell’elezione
con il collegio uninominale e contrario allo scrutinio di lista, Maranini,
nell’articolo del 1946, concentra la sua attenzione sul partito e non fa cenno
al sistema elettorale35. Al contrario l’analisi di Lucifero è largamente incentrata
sull’influenza negativa del sistema elettorale proporzionale. Essa inceppa il circolo
virtuoso che con gli altri metodi di elezione si crea tra elettori ed eletti. I vari
sistemi elettorali, infatti, «si basano tutti, più o meno, sul voto personale […],
sulla responsabilità individuale sul controllo degli elettori sull’opera degli eletti
»; sistemi, insomma, basati «sulla rappresentanza popolare». Invece con la
«proporzionale si ha la rappresentanza dei partiti, il voto al partito dato dal partito
e conseguentemente la più completa irresponsabilità»36. Questa deriva verso
l’irresponsabilità, che dissolve il nesso vitale fra rappresentanti e rappresentati
consentendo una libera circolazione delle opinioni, si associa di solito a una
31 G. Maranini, Socialismo non stalinismo, cit., p. 91.
32 Ivi, p. 96.
33 Ivi, p. 97.
34 G. Quagliariello, Il partito e la forma di governo nella riflessione dei liberali e degli
azionisti nella stagione costituente, cit., p. 100.
35 Maranini si pronuncia contro lo scrutinio di lista e per il collegio uninominale in
un discorso del 20 agosto del 1943 e poi nel programma del Partito socialista dei lavoratori,
entrambi raccolti nell’opuscolo Organizzare la libertà. Il problema della democrazia
socialista, prefazione di E. Paresce, Roma, Tempo nostro, 1945, pp. 23 e 51-
52. Un’evoluzione in questo senso sarebbe percepibile già a partire dal 1938, secondo
quanto sostenuto da L. Borsi, Classe politica e costituzionalismo: Mosca, Arcoleo,
Maranini, Milano, Giuffrè, 2000, pp. 460-461.
36 R. Lucifero, Introduzione alla libertà. La legge elettorale, cit., p. 147.
404
instabilità governativa. I difetti della proporzionale sarebbero ancora contenibili
ove un partito riuscisse ad avere una «maggioranza abbastanza forte da poter
tenere da solo il governo fino alle elezioni successive». Ma poiché questo è praticamente
impossibile «si costituiscono nel Parlamento dei gruppi troppo poco
numerosi per bastar da soli a rovesciare il governo, ma forti abbastanza per poterlo
rovesciare alla prima contraddizione». Si hanno così «governi sempre instabili
e precari, sottoposti ad un regime continuo di ricatti». Il parlamento perde
di valore perché «le discussioni nelle Assemblee […] non valgono a cambiare
decisioni già prese». In questo modo «i deputati cessano di essere i rappresentanti
della Nazione per esser solo i rappresentanti imbelli delle varie fazioni
»37. Le conclusioni di questo ragionamento sono tratte con un apodittico pessimismo:
«l’esperienza storica insegna che da questa anarchia dei partiti si slitta
inevitabilmente nella dittatura»38. Largamente esemplata sull’esperienza della
crisi italiana che aveva condotto al fascismo, e sulle critiche di parte liberale formulate
a quel sistema elettorale, la critica alla proporzionale non sarà nella posizione
di Lucifero una parte centrale e irrinunciabile, bensì subordinata. Nella
fase successiva, alla Consulta e poi alla Costituente, la ripulsa per la proporzionale
sarà abbandonata per ragioni contingenti e di schieramento mentre, come
si vedrà, resterà fermo il principio di critica alla partitocrazia39.
Per Labriola, invece, il rifiuto della proporzionale è implicito alla denuncia
del carattere oligarchico dei partiti italiani. In un articolo dell’aprile del
1946 egli osserva che nel nostro paese «la forma incombente della democrazia
è appunto quella dei partiti selezionati secondo le convenienze dei loro
gruppi dirigenti, anzi di questi gruppi dirigenti o dei loro “leaders”, come si
dice nella lingua dei vincitori […]. Prima il capo, poi la formula, e, dietro,
composti e allineati, i soldatini di cioccolata». Successivamente si sofferma sull’esempio
del Belgio, il paese europeo «dove il sistema della Democrazia dei
Partiti funziona da più lungo tempo». In quel paese
i soldatini di cioccolata stanno nelle loro caselle ed aspettano il turno per esser cavati
fuori. La macchina è messa in movimento dai capi delle svariate fazioni, il cui
peso è tutto assicurato dal numero dei soldatini di cioccolata a loro disposizione.
Il giuoco è assicurato dalle intese e dagli accordi che si stabiliscono fra le comunelle
dei gruppi dirigenti40.
Per quanto Labriola non dica che il Belgio è il primo paese europeo che ha
adottato la proporzionale con lo scrutinio di lista, la sua critica si appunta pro-
37 Ivi, p. 149.
38 Ivi, p. 150.
39 Una esemplare critica della proporzionale è quella svolta da Luigi Einaudi nell’articolo
Contro la proporzionale, pubblicato originariamente nel 1944 e poi ristampata
nel volume Il Buongoverno, Saggi di economia e politica 1897-1954, a cura di E. Rossi,
vol. 1, Bari, Laterza, 1973, pp. 62-71. Per lo svolgimento delle posizioni di Lucifero
sul tema cfr. E. Capozzi, Un conservatore nella «repubblica dei partiti», cit., 310-319.
40 A. Labriola, Prigionieri della speranza, in «Il Tempo», 11 aprile 1946.
405
prio sugli aspetti degenerativi che risultano dal compenetrarsi tra democrazia
partitica e sistema elettorale proporzionale. D’altronde in una successiva occasione,
riferendosi alla legge elettorale proporzionale adottata per la Costituente,
la definisce senza mezzi termini la «più sciagurata legge elettorale che
si possa ricordare»41.
Nella prolusione del 1949 Maranini svolge alcune considerazioni sui sistemi
elettorali, ma esse non sono centrali alla sua argomentazione. Si critica come
troppo razionalistica la concezione «della democrazia quantitativa, aritmetica
», affermatasi dopo la prima guerra mondiale, la quale esigeva «che tutte
le forze politiche del paese, organizzate nei partiti, pesassero […] in proporzione
esatta della loro consistenza numerica». Da qui la quasi inevitabile introduzione
della «rappresentanza proporzionale» che apparve come «il coronamento
necessario della perfetta democrazia»42. Quantunque non addossasse
a quel sistema elettorale tutte le colpe Maranini osservava che «non senza
una qualche intuizione del vero, una parte dell’opinione pubblica addebita la
decadenza delle libertà europee alla rappresentanza proporzionale»43. Per
converso si tesseva un elogio del sistema anglosassone dove si aveva «il tenace
persistere delle elezioni a collegio uninominale». Grazie a questo modo di
votazione si «mantiene un contatto diretto fra eletti ed elettori», fatto che riduce
il controllo del «partito sopra gli eletti» e soprattutto costringe «i partiti
a ricercare uomini di qualche individualità e rilievo, contrariamente a quello
che è la loro tendenza normale»44. In altri termini, se non manca un’attenzione
al tema, essa è funzionale alla denuncia dello strapotere partitico. Circostanza
che conferma come la considerazione del sistema elettorale per condizionare
la forma di governo maturerà solo in una fase successiva della riflessione
maraniniana45.
3. Critica dei partiti e partitocrazia
Come si vede, un esame sistematico, se è utile per definire dei temi comuni
nella critica antipartitocratica, rischia però di proiettare anacronisticamente
sul passato problemi e argomenti di una stagione successiva. Per tirare le fila
del nostro discorso, allora, occorre riesaminare sinteticamente ciascuna delle
posizioni nel suo nucleo essenziale per capirne la effettiva valenza.
L’analisi di Labriola, tanto brillante quanto estemporanea ed umorale nel
suo determinarsi, coglie bene la scarsa legittimazione dei partiti risorti all’in-
41 A. Labriola, Partitocrazia, in «Il Tempo», 24 luglio 1946.
42 G. Maranini, Governo parlamentare e partitocrazia, cit., p. 263.
43 Ivi, p. 269.
44 Ivi, p. 261. Sul collegio uninominale come salvaguardia di indipendenza sociale
e intellettuale degli eletti cfr. anche pp. 264-265.
45 A proposito di questa evoluzione cfr. S. Ortino, Nota del traduttore, in F.A. Hermens,
La democrazia rappresentativa, presentazione di G. Maranini, Firenze, Vallecchi,
1968 (1964), p. XXX.
406
domani della caduta del fascismo: non veri partiti con un seguito popolare, ma
semplici gruppi dirigenti che, per quanto non indicati dal libero voto, pretendono
di rappresentare la nazione. A suo avviso, infatti, «il sistema dei partiti
assembrati nei cosiddetti Comitati di Liberazione, dal senso di una reale democrazia
sono lontani»46. Questo perché i partiti che detengono il potere «se
lo son tratto in mano per forza propria e senza investiture di nessuno»47. Ne
risulta così una organizzazione della vita pubblica «disposta secondo specie
gerarchiche e chiuse, accomodata secondo principi prestabiliti e diretta da capi
teoricamente scelti dal seguito, ma praticamente preesistenti ad esso»48.
Questo approccio, negatore più che critico, viene mantenuto anche dopo
la tenuta delle elezioni per la costituente e si allarga a un generale rifiuto di
una «democrazia che funziona esclusivamente per mezzo delle organizzazioni
dei partiti e non dà se non quello che i partiti consentono e sono disposti
ad accordare». Anche perché non si tratta di partiti come libera unione di cittadini
ma di partiti ad organizzazione chiusa che «sembra strettamente vicina
al sistema delle milizie in combattimento». In conclusione «non si tratta di una
democrazia, sì bene di una Oligarchia. Il paese è servito per procura, ma non
direttamente. I suoi interessi debbono coincidere con quelli dell’Oligarchia
per poter essere riconosciuti»49. La continuità di toni e di argomenti risulta in
modo evidente dal fatto che uno stesso articolo in cui si denunciava il carattere
oligarchico della nuova democrazia italiana pubblicato nel giugno del 1945
viene riproposto sostanzialmente identico a distanza di oltre un anno nel novembre
del 194650. Quelli di Labriola sono argomenti che da una parte si ricollegano
alla mai rinnegata matrice del sindacalismo rivoluzionario, mentre
dall’altra anticipano motivi della polemica qualunquista, nel complesso una
posizione che esprime una sostanziale diffidenza verso il partito come strumento
necessario della politica moderna51.
Alquanto diversa è la posizione di Lucifero. A suo parere la partitocrazia è
anzitutto una degenerazione e un pericoloso travisamento del parlamentarismo.
Il partito di massa interrompe il circolo virtuoso che si crea tra rappresentanti
e rappresentati, quando «tanto l’elettore quanto il deputato» sono
davvero «uomini liberi», in grado perciò di «disporre del loro voto nel quadro
di una ampia elasticità»52. In altri termini occorre sempre salvaguardare il
46 A. Labriola, Salvate l’Italia!, cit., p. 126.
47 A. Labriola, Col permesso di Aristotele, in «Il Tempo», 12 giugno 1945.
48 A. Labriola, I due soci, in «Il Tempo», 5 febbraio 1946.
49 A. Labriola, Partitocrazia, in «Il Tempo», 24 luglio 1946.
50 Cfr. rispettivamente Col permesso di Aristotele, in «Il Tempo», 2 novembre 1945
e Nomenclatura politica, in «Roma», 2 novembre 1946.
51 Sulla matrice sindacalista e per l’anticipazione di motivi qualunquisti cfr. L. Labriola,
Storia e leggenda di Arturo Labriola, Napoli, Edi Europa, 1967, p. 301. Sull’attività
pubblicistica di Labriola in quegli anni cfr. anche A. Castelli, Arturo Labriola.
Ceti politici emergenti a Napoli, Napoli, Cassitto, 1985, pp. 87-89, che esprime un giudizio
assai negativo.
52 R. Lucifero, Introduzione alla libertà, cit., p. 75.
407
«rapporto diretto fra elettore ed eletto», garanzia ultima del «loro reciproco
senso di responsabilità di fronte a se stessi ed alla Nazione»53. Con il prevalere
dei partiti organizzati, invece, «i deputati son divenuti semplicemente dei
numeri, e la loro originaria funzione è passata automaticamente alle direzioni
dei partiti, o, peggio ancora, ai capi-partito»54. All’interno degli organismi rappresentativi
«l’indipendenza del rappresentante, e di conseguenza il suo senso
di responsabilità, si attenuano sempre di più fino ad annullarsi del tutto in
quelle Camere Totalitarie che sono in fondo il sogno confessato o celato dei
così detti partiti di masse»55. In queste condizioni appare evidente come «le
Assemblee non abbiano più alcuna possibilità di rispondere alla funzione alla
quale sono chiamate» perché sono oramai ridotte «a un complesso di vari
gruppi più o meno numerosi ma sempre belanti di uomini che votano bianco
o nero a seconda degli ordini che ricevono». Così, di fatto, «non sono più le
Assemblee che decidono delle leggi e del Governo» perché tale potere «si sposta
ai pochi uomini che dirigono i partiti, e quindi assai spesso al di fuori delle
Assemblee stesse»56. Non casualmente l’esempio negativo che viene adoperato
per esemplificare la distruzione del parlamentarismo è quello italiano dei
primi anni Venti. A quel tempo, ricorda Lucifero, il segretario del partito popolare
«senza essere deputato, manovrava dal suo studio oltre cento voti alla
Camera, facendo e disfacendo i Ministeri […], ponendo veti e condizioni e così
regolando, o, per meglio dire, sregolando, anche con le migliori intenzioni
di questo mondo, tutta la vita parlamentare e politica della Nazione»57.
Alla Consulta, dove modifica la posizione in merito al sistema elettorale e sposta
il fuoco polemico dalla formula proporzionale allo scrutinio di lista, indicato
come il vero responsabile della degenerazione del parlamentarismo, Lucifero
mantiene ferma la sua critica della partitocrazia. Il sistema elettorale proposto,
basato appunto sullo scrutinio di lista, gli appare «un tentativo di sopraffazione
che i partiti organizzati […] possono compiere ai danni della pubblica opinione
indifferenziata»58. In un successivo intervento, riassumendo la propria posizione
egli ricordava che esistono «due concezioni della vita democratica: quella che si
svolge attraverso gli uomini e quella che si svolge attraverso i partiti»59. In con-
53 Ivi, p. 77. L’avversione di Lucifero per i partiti di massa viene opportunamente
sottolineata da E. Bettinelli, All’origine della democrazia dei partiti. La formazione del
nuovo ordinamento elettorale nel periodo costituente (1944-1948), Milano, Comunità,
1982, p. 50.
54 R. Lucifero, Introduzione alla libertà, cit., p. 123.
55 Ivi, p. 122.
56 Ivi, p. 148.
57 Ibidem. Ma vedi anche l’accenno polemico Ivi, p. 11.
58 Intervento del 12 febbraio 1946, Atti della Consulta nazionale, p. 608. Alla Consulta
Lucifero, rifacendosi a un progetto di Gaspare Ambrosini, propose un sistema
ispirato al voto trasferibile di Hare, per tentare di conciliare la formula proporzionale
con il collegio uninominale, cfr. E. Bettinelli, All’origine della democrazia dei partiti,
cit., pp. 153 e 171.
59 Intervento del 15 febbraio 1946, Atti della Consulta nazionale, p. 713. In quella
408
clusione la visione politica di Lucifero, assai critica verso i partiti di massa, rimane
legata a una concezione notabilare dei rapporti politici, senza immaginare un
inquadramento costituzionale del partito.
Rispetto a queste prese di posizione la denuncia dei pericoli della partitocrazia
fatta da Maranini nel 1949 ha un carattere più sistematico e organico. La prolusione
fiorentina presenta un’articolata esposizione degli sviluppi del sistema
costituzionale–rappresentativo che, sorto originariamente in Inghilterra, trapiantato
poi prima in America e poi in Europa continentale, è andato man mano
perfezionando i suoi istituti. Tuttavia la cifra ultima dello scritto non dipende
solo dalla maggiore dottrina storica e costituzionale dell’autore, ma da una
più matura e attenta valutazione del fenomeno partitocratico all’interno del contesto
storico che si era venuto evolvendo e fissando in quell’arco di tempo. Risorto
a nuova vita nei paesi europei che hanno conosciuto l’esperienza del totalitarismo
e della guerra, il regime rappresentativo necessita, a parere di Maranini,
di una messa a punto rigorosa per renderlo adeguato alle sfide del presente.
Occorre evitare che all’interno della compagine statuale sorgano poteri incontrollati
(sindacati, partiti, corporazioni economiche) che risultino pericolosi per
i diritti dei cittadini. Queste preoccupazioni di ordine generale vengono poi riportate,
in maniera non troppo esplicita ma comunque percepibile, allo scenario
della guerra fredda. Con un trasparente riferimento alle vicende dell’est europeo,
infatti, Maranini rileva che in quegli anni «un certo numero di popoli per
breve ora risorti a libere democrazie ha già perduto le libertà politiche»60. Più
avanti non manca di osservare come, se non si pongono rimedi costituzionali
adeguati, c’è il rischio che «la volontà di un solo partito» possa tradursi «compiutamente
nella volontà dello Stato»61. La necessità di fronteggiare questi pericoli
non viene articolata però in termini politici diretti ma si specifica in una
considerazione di politica costituzionale. In Maranini, infatti, c’è la chiara consapevolezza
di come, sul piano della regolamentazione dei partiti, l’opera della
costituente sia risultata largamente incompleta62. L’art. 47 della costituzione italiana,
dove si fa riferimento ai partiti, è giudicato generico e incerto perché non
indica «se una eventuale legislazione» attuativa «dovrebbe escludere dalla competizione
i partiti ritenuti non democratici; o se dovrebbe invece intervenire a
garantire e controllare positivamente la democrazia interna di tutti i partiti»63.
circostanza Lucifero, proprio rispondendo a Luzzatto, osservava che questi aveva
«messo una pregiudiziale al suo esame, e la pregiudiziale era appoggiata alla parola di
partitocrazia, che io ho usato in questa sede, come già nel campo scientifico la sto
usando da parecchio tempo» (Ibidem).
60 G. Maranini, Governo parlamentare e partitocrazia, cit., p. 267.
61 Ivi, p. 270.
62 Per le proposte di regolamentazione dei partiti avanzate senza fortuna in sede di
Assemblea costituente cfr. M. Cernel, La democrazia nei partiti. 1 Dal periodo costituente
all’insuccesso della formula maggioritaria (1943-1953), Padova, Cedam, 1998,
pp. 47-71; vedi anche G. Quagliariello, Verso l’istituzionalizzazione del partito politico,
in «Amministrazione e Politica», 20 (1986), nn. 2-3, pp. 22-27.
63 G. Maranini, Governo parlamentare e partitocrazia, cit., pp. 271-272.
409
Come possibili soluzione Maranini indica esperienze costituzionali maturate altrove.
Si fa riferimento positivamente alla legge fondamentale tedesca dove si
danno delle indicazioni prescrittive al futuro legislatore. Ma sulla vicenda tedesca
si mantiene un cauto riserbo, perché occorrerà aspettare i concreti «svolgimenti
legislativi e controllarli alla luce dell’esperienza pratica»64. Al contrario il
modello proposto come migliore, anche perché supportato da una consolidata
esperienza pratica, è quello americano delle primarie dirette che configurano
«una vera elezione di primo grado» che si svolge con tutte le garanzie di legge.
In America abbiamo quindi un «sistema di libertà organizzata» che non si lascia
dominare «dall’incontrollata interferenza delle oligarchie di partito» ma al contrario
«tenta di imporsi al funzionamento dei partiti, di democratizzarli e di giuridicizzarli
»65. Più in generale, e al di là della esemplificazione pratica, alla base
dell’analisi di Maranini sta una presa d’atto della realtà dei partiti e dell’esigenza
di inserirli pienamente in «quel sistema di reciproci controlli che sta alla base
di ogni non illusoria costituzione»66. Sottratta alla valenza tutta polemica delle
sue prime impressionistiche formulazioni, la nozione di partitocrazia si precisa
qui per la prima volta come un articolato strumento euristico del dibattito politico-
costituzionale. Essa conoscerà nei decenni a seguire un’alterna fortuna,
verrà mutando, almeno in parte, il proprio significato, ma acquisterà man mano
piena cittadinanza nel linguaggio politico67.
Maurizio Griffo
64 Ivi, p. 272.
65 Ivi, p. 273.
66 Ivi, p. 272.
67 Per un’analisi delle polemiche di Maranini negli anni successivi cfr. E. Capozzi,
L’alternativa atlantica. I modelli costituzionali anglosassoni nella cultura italiana del secondo
dopoguerra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 202-216 e da ultimo T.
Amato, Fra partiti e “partitocrazia”: Maranini e de Caprariis, in «L’Acropoli», 7 (2006),
pp. 57-71.
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